Spunti di riflessioneSabotaggio mondiale 
Un anno nel pallone tra notti magiche, telecronisti cinesi, testate no-global, rovesciate in bicicletta e Poo po po poo po po poo. Ma anche i telefonini di Moggi, la Juve in serie B, lo scudetto dell'Inter e l'addio a Facchetti, Rava e Puskas

Il 2006 è stato l'anno del Mondiale. Globale. Totale. Notti magiche: le sole nelle quali il semplice battito d'ali di un terzino italiano, Fabio Grosso, può scatenare l'uragano nella testa di uno sconosciuto telecronista cinese, Huang Xianjang: «Penalty! Penalty! Penalty! Grosso ce l'ha fatta!». Al 93esimo minuto dell'ottavo di finale Italia-Australia il punteggio è ancora fermo sullo 0-0. Huang capisce l'importanza del momento: «Il grande terzino italiano! Ha proseguito la gloriosa tradizione italiana! Facchetti, Cabrini and Maldini, le loro anime sono infuse in lui in questo momento! (...) Ora non sta lottando da solo! Lui non è solo!». Di quell'esplosione di pura estasi farà in tempo a pentirsene amaramente: criticato ferocemente dai vertici della tv, costretto all'autocritica dal Partito e contemporaneamente esploso come fenomeno di culto mondiale in Rete, il telecronista della Cctv ha lasciato il mestiere lo scorso mese di dicembre. Ma la Rete - nell'anno di Youtube - custodisce e custodirà a lungo voci eccitate, assurde, profane come la sua. Come quelle dell'esordio di Sky Italia in una delle cerimonie mediatiche più importanti di tutto il pianeta. Fabio Caressa e Beppe Bergomi tra le lacrime: Abbracciamoci forte e vogliamoci tanto bene perché abbiamo vinto tutti! Abbiamo vinto tutti! E non coi toni profondi di un maestro di cerimonie alla Martellini/Pizzul, piuttosto con l'allegra scapigliatura di uno spogliatoio di calcetto che ha appena vinto il campionato aziendale. 
Zizou e Baudrillard
Non è una critica, solo il segno di tempi poco inclini all'epica e molto al rave party: la festa del Mondiale vinto dall'Italia ha portato uno-due-tre milioni di persone al Circo Massimo a Roma in una notte e un giorno di luglio, eppure è sembrata bruciare rapidamente l'Evento, la Leggenda e la Memoria. Più o meno come brucia un sabato sera qualsiasi nel centro di una grande città europea. E al mattino, tappeto di bottiglie rotte e il ron ron dei camion della nettezza urbana. Abbiamo vinto il Mondiale. Ah sì? O forse hanno vinto. Ricordando le discussioni che accompagnarono l'esordio della Nazionale di Lippi in piena Calciopoli, mettiamo per l'ultima volta a verbale il grido io tifo Ghana lanciato da questo giornale e ovviamente prossimo allo sberleffo, molto prima che il coupe de boule di Zinedine Zidane contro Materazzi nella finale contro la Francia rovinasse clamorosamente la festa a tutti, lui per primo. Ha scritto Jean Baudrillard: «Rompendo questo rituale di identificazione planetaria, questa cerimonia nuziale tra lo sport e il pianeta, rifiutando di essere l'idolo e lo specchio della globalizzazione in un avvenimento così emblematico, Zidane ha compiuto un atto di sabotaggio». Perciò sta nello stesso file dell'11 settembre. «Un colpo che ha fatto perdere la coppa del mondo a tutto il mondo - continua il filosofo - ma non è meglio così che aver fatto trionfare la globalizzazione?». 
Cito Baudrillard tra le mille teorie serie e semiserie o decisamente cazzare (razzismo, machismo, frustrazione, coatteria) per spiegare un avvenimento ancor'oggi soprendente, che oltrettutto nessuno vide allo stadio. Per la gioia del filosofo francese si potrebbe dire che forse n'a eu pas lieu, non è mai accaduto. E prevengo ulteriori obiezioni: ecco un altro francese che rosica. Già sento il coro dietro le spalle. Poo po po poo po po pooo. Mi unisco. La rovesciata in bicicletta di Materazzi, con la maglia dell'Inter in campionato contro il Messina, non è il segno che gli dei del calcio hanno voluto dare per chiudere anche la Metafora più Mondiale, forse globale, degli ultimi anni?
Il codice Moggi
Altro il discorso sul Pallone d'Oro a Fabio Cannavaro. Difensore dai tackle immacolati e bellissimi (mai visti neppure alla playstation) durante tutti i Mondiali, ma dall'immagine non sempre conseguente. Il codice Moggi, le intercettazioni pubblicate a puntate dai giornali in maggio e giugno, lo fotografava attaccato a un cellulare con ancora indosso la maglia dell'Inter. Moggi: «Fai chiamare Ghelzi, ooh.. come si chiama là, brindellone alto... il Presidente!». Cannavaro: «Facchetti». Moggi: «Facchetti (...). Gli dici: guarda, io voglio andà via perché non sò considerato dall'allenatore e stop». E poi la festa imbarazzante in campo per lo scudetto juventino, la difesa del direttore («Moggi era amico di tutti, la sudditanza psicologica non esiste e gli scudetti sono regolari»), la fuga al Real Madrid («andrò con la Juventus anche in serie b»). Infine, una sera di novembre, la finta e il tunnel che John Carew - centravanti dell'Olympique Lyon - gli rifila in un eliminatoria di Champions League contro il Real. Prendi e porta a casa.
Calciopoli, dunque. La retrocessione della Juventus in serie B è stata una di quelle fantasie che neppure il più incazzato degli ultrà o il più visionario degli aldobiscardi che popolano le tv di questo paese avrebbe mai potuto concepire, prima. Ma è successo. E dopo la pubblicazione a puntate di centinaia di telefonate tra Luciano Moggi, maneggione numero uno del calcio italiano, con arbitri, presidenti, dirigenti, politici, calciatori, sembrava abbastanza chiaro il perché e il percome. Invece no. Milan e Fiorentina, penalizzate per aver partecipato al "complotto" si rassegnano a una stagione d'attesa. Galliani e Berlusconi (l'altra metà del potere calcistico italiano) fanno un momentaneo passo indietro per dedicarsi a rifare la squadra. Le istituzioni calcistiche (Lega, Federcalcio, Arbitri) vivono da sei mesi nel totale terremoto. Le legge che dovrebbe riportare a una parvenza di normalità i rapporti tra club e televisioni non si sa quando arriverà. 
Mohicani e utopisti
Il campionato post-Calciopoli si riassume in poche certezze da bar: Palermo rivelazione (ma il brasiliano Amauri infortunato resterà fuori per tre mesi), Roma la più bella, lo scudetto lo vincerà l'Inter. Ma i nerazzurri lo scudetto se lo sono già cucito sulle maglie in luglio, vinto a tavolino. Restiamo in mezzo al guado. All'ultim'ora, con un po' di malinconia, il grande accusatore della Juve Zdenek Zeman, ultimo tra gli utopisti del calcio, viene licenziato dal suo Lecce in grave crisi di risultati. E allo stadio, salvo poche eccezioni, ci trovi bande di ultrà infreddoliti e ultimi mohicani in tribuna.
Sommessamente, il Brindellone Alto se n'è andato per sempre lo scorso settembre. Giacinto Facchetti era un terzino meraviglioso e prossimo alla santità come non potrebbe essere altrimenti in una memoria fatta di frammenti in bianco e nero, figurine Panini, fotografie sbiadite. Nel catenaccio di Helenio Herrera (ma italiano, italianissimo) lui era la sorpresa di un difensore che nel bel mezzo della partita poteva trovavarsi dove uno meno se lo aspetta: in attacco. Il telecronista cinese aveva ragione: c'è un po' di Facchetti in Fabio Grosso, un po' brindellone anche lui, eroe dell'unica vera partita leggendaria della Nazionale ai Mondiali, quel 2-0 contro la Germania che ha fatto balenare memorie sopite, immigrati, italiani brava gente, innocenza perduta.
Puskas e Totti
Se n'è andato anche Pietrino Rava, un altro terzino. Ultimo superstite della Nazionale campione mondiale del 1938, quella che faceva il saluto romano prima di giocare: era rimasto l'unico a poter raccontare come i fischi degli antifascisti italiani a Marsiglia si fossero trasformati in applausi al gran gioco mostrato nelle partite successive. Così almeno vuole la leggenda, una di quelle che ci rende appena sopportabile l'inestricabile intreccio tra calcio, identità, nazionalismo. Ferenc Puskas, scomparso in dicembre, avrebbe potuto aggiungere qualcosa. La sua Grande Ungheria del '50-'54, dove giocava col numero 10, sta tra le poche grandi realizzazioni del comunismo insieme all'avanguardia sovietica degli anni '20. Lui scappò da Budapest quando arrivarono i sovietici, e se ne andò al Real Madrid dove giocò fino a quasi 40 anni con una pancetta da impiegato. 
Magari c'è un po' di Ferenc Puskas in Francesco Totti che promette di rimanere alla Roma fino al 2014 (37 anni). A lui, il 2006 ha giocato il solito scherzo internazionale: con un perone fratturato in febbraio si è rimesso in piedi giusto in tempo e ha finito per giocare il Mondiale più importante della sua carriera con un piede solo. Vero, ci ha segnato il rigore contro l'Australia. Ma il post-mondiale in genere ci riconsegna le superstar del calcio spremute come limoni e costrette agli straordinari più demenziali. Buffon - appena uscito da una scandaletto scommesse - gioca in serie B e fa pubblicità ai giocattoli. Gattuso magnifica efficacemente telefonini (col suo compare Totti) e libri. Luca Toni gioca alla playstation con Adriano, il bomber brasiliano funky che da marzo a dicembre non ha segnato un gol (ma ha fatto tante altre belle cose si spera per lui). Un altro bomber, Alberto Gilardino, si è trovato per un attimo coinvolto in una storia di foto da paparazzi, gossip e ricatti con sottofondo gay. Solo un attimo. Seguono smentite. Ma poi che importa? Se il calcio sta diventando uno spettacolo può ancora tenersi attaccato al vecchio machismo di cartapesta dei tempi che furono? Il deputato Grillini fa scalpore sulla Gazzetta: «Ci sono almeno venti giocatori gay in serie A». 
Soldi e speranze
Ronaldinho e Kakà offuscati dalla figuraccia del Brasile. L'Argentina di Messi e Riquelme, che aveva la squadra più bella dei Mondiali, piange l'occasione sprecata e i bei tempi del calcio sudamericano. Shevchenko langue al Chelsea dove pare che in campo non gli passi la palla nessuno, come i bambini al parco. Sarà per questo che il suo presidente Paperone Abramovich rompe un silenzio durato tre anni per dichiarare all'Observer: «I soldi giocano un ruolo importante nel calcio, ma non sono il fattore dominante». Infatti i prossimi anni - promette - spenderà meno negli acquisti e più nella cura del vivaio. Per la cronaca, per la prima volta dopo tre anni, il Chelsea dei miliardi e delle stelle si trova secondo in classifica. Resta un briciolo di speranza.

 

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