Spunti di riflessioneAddio Puskas, mito magiaro 
Si è spento a 79 anni il campione danubiano che scrisse la storia del calcio europeo
Una vita per il gol La morte del colonnello Basso e tarchiato, un sinistro squassante, fu il simbolo della grande Ungheria degli anni '50. Poi fuggì in Spagna e trionfò col Real

Una morte annunciata esattamente 50 anni fa, quella del colonnello Ferenc Puskas, invece deceduto ieri a 79 anni nella sua Budapest. Erano i giorni della rivolta d'Ungheria e la radio tedesca diede la notizia che il giovane colonnello, mezzo sinistro della leggendaria Honved era appena morto sulle barricate: parlava in quella falsa notizia l'ammirazione per un campione e una squadra che proprio i tedeschi avevano inopinatamente disfatto nella finale dei mondiali del '54 a Berna. Ferenc Puskas, in quei giorni confusi e drammatici, poteva sul serio somigliare ad uno di quei transfughi di cui parlerà Tibor Dery nel suo libro più alto, La resa dei conti, storia di una fuga che è nello stesso tempo liberazione, redenzione, ma anche definitiva autospoliazione. A quella data, anche gli sportivi italiani cominciavano a sapere chi fosse il colonnello: forse non sapevano ancora individuarne il tratto così poco magiaro (egli aveva un fisico atticciato, robusto, persino tozzo) ma ricordavano senz'altro l'inaugurazione dello stadio Olimpico a Roma, primavera del '63, quando proprio l'Ungheria (quella pure degli Czibor, Kubala e compagni) si era sbarazzata di un'umile Italia (quella dei rincalzi, dei ragazzi superstiti al gran vuoto di Superga) con una naturalezza, un brio e una strafottenza di gioco che dicono avesse del magico e persino del provocatorio. Si trattava dell'ultimo bagliore del calcio danubiano, caratterizzato da ferreo possesso dei fondamentali, palleggio danzato, assoluta fluidità degli schemi anche in assenza di una adeguata copertura difensiva, la quale, infatti, annunciava a quello stesso calcio l'inizio della fine.
Così come nel fisico, anche il profilo tecnico-atletico di Puskas costituiva una vistosa eccezione: ruvido nel palleggio, capace nel gioco di testa, sapeva rientrare in uno schema solo e tuttavia micidiale; piazzato per lo più a ridosso delle punte, da mezzala truccata, aspettava la rifinitura (di solito una toccatine di testa da parte di Hidegkuti) e concludeva in una sola maniera, col sinistro teso e squassante che solo Luigi Riva saprà molti anni dopo replicare alla lettera. Quando fugge dalla divisa e dalla patria in armi per approdare al Real falangista e franchista di Santiago Bernabeu, molti restano perplessi sospettando nel sovrappeso del colonnello i segni di un declino così precoce da impedirgli un gioco alla pari coi Di Stefano, i Gento, insomma con le star più celebrate di una squadra allora senza pari. E invece Puskas, senza rinunciare al sovrappeso (dicono fosse assiduo nelle osterie di Chambéry e Chamartín, un avido consumatore di tapas) continua a segnare a oltranza, a raffica: l'immenso Alfredo Di Stefano, forse il più grande giocatore di ogni tempo, gelosissimo del proprio carisma, lui che fece cacciare su due piedi Didì, è felice del fatto che il colonnello non occupi più di 20 metri di terreno; Alfredo è libero di svariare per il campo, di ricevere gli alleggerimenti, di impostare il gioco e di rientrarvi grazie alle sponde di Puskas: quando il medesimo Alfredo, in là con gli anni, deve rifiatare, allora il duetto muta repentinamente di segno, quando è Puskas a ricevere da destra una palla apparentemente morta o sporca, è lì che spara all'improvviso, e di solito è un gol. L'ultima finale del Real per ben 5 volte campione d'Europa coincide con l'apoteosi del campione ungherese, nel 1960. Siamo a Glasgow e davanti a 130mila persone il Real affronta i tedeschi dell'Eintracht di Francoforte, ancora una volta i tedeschi. Ma stavolta la partita è segnata fin dai primi minuti, la vittoria immediatamente stabilita, finisce 7-3 e Puskas segna ben 4 reti: Di Stefano ne fa 3 e dà prova del suo magistero di regista limitandosi a controllare il gioco, a uscirvi e rientravi con la leggerezza di un classico, sembra quasi voler sparire dalla scena, lasciarla al colonnello e ai suoi estri quel giorno ditirambici. E' uno spettacolo di potenza, un susseguirsi di folgori balistiche tanto più dirompenti di fronte a una compagine tedesca che dell'atletismo, forse solo di quello, aveva fatto un punto fermo. Lo scrittore Javier Marías, allora un bambino appicciacato al video, scriverà che quello fu forse il giorno più felice, più puro, della sua vita: il colonnello avrebbe forse detto la stessa cosa.

Una vita per il gol
Il maggiore galoppante

Ferenc Puskas si è spento ieri mattina in un ospedale di Budapest per colpa di una polmonite. Aveva 79 anni e combatteva da tempo con il morbo di Alzheimer. Figlio di un calciatore del Kispest, era nato il 2 aprile del 1927 nella capitale ungherese e a 11 anni già tirava calci nella squadra del padre. Debuttò in serie A ancora minorenne, a 18 anni esordì in nazionale e subito dopo entrò nell'esercito perché il Kispest fu coscritto in blocco e trasformato nella grande Honved. Basso e tarchiato, fu ribattezzato il maggiore galoppante ma i gol e la carriera militare lo resero presto colonnello.
Mosca, Wembley e Berna
Puskas fu il simbolo della nazionale magiara che dominò il calcio europeo degli anni cinquanta, quando chi calciava di esterno collo, calciava all'ungherese. Insieme a Czibor, Kubala e Hidegkuti sconfisse l'Unione Sovietica a Mosca sotto gli occhi di Stalin e nel '53 espugnò il campo di Wembley impartendo ai maestri inglesi una storica lezione: finì 6-3 per gli ospiti, Puskas segnò dopo 25 secondi e il risultato della partita divenne il nome di un bar a Budapest che ancora oggi, ogni 25 novembre, offre birra a metà prezzo nel ricordo di qull'impresa. L'Ungheria rimase imbattuta per 4 anni, vinse le Olimpiadi di Helsinki nel '52 ma fallì l'appuntamento più importante, la finale mondiale del '54 vinta dalla Germania per 3-2 nel fango di Berna. Puskas, che giocava praticamente da fermo per colpa di un infortunio, segnò il gol del pareggio all'ultimo minuto ma l'arbitro lo annullò per un discusso fuorigioco. «Quella squadra - ha scritto Vladimir Dimitrijevic - era la meraviglia delle meraviglie, riusciva a soddisfare le esigenze della fantasia più sfrenata». Con la maglia dell'Ungheria, Puskas collezionò 84 reti in 83 partite.
La fuga e il tramonto
Nel '56, durante l'occupazione sovietica, si recò all'estero con l'Honved e decise di non far ritorno in patria. Fu squalificato per 18 mesi, trovò rifugio in Italia, a Sanremo, ma l'Inter lo scartò ritenendolo grasso e vecchio. Lo prese allora il Real Madrid e Puskas divenne Cannoncino Pum: realizzò valanghe di gol e assieme a Di Stefano e Gento guidò le merengues alla conquista di tre Coppe dei campioni. Con la Spagna, giocò senza fortuna i mondiali del '62 in Cile e chiuse la carriera nel '66, ormai quarantenne. Per un po' vendette salsicce, poi girò il mondo seduto in panchina: allenò in Grecia, Paraguay, Stati uniti, Arabia Saudita e Australia. Alla morte della madre e del vecchio compagno Bozsik, gli fu impedito di tornare in Ungheria ma dopo la caduta del Muro Puskas fu riaccolto a Budapest dove ha vissuto, in ospedale e in semi-povertà, gli ultimi anni di vita. 
Il saluto del numero dieci


Il vecchio stadio del popolo porta il suo nome e ieri il Parlamento ungherese lo ha ricordato con un minuto di silenzio. «Oggi è accaduto ciò che nel nostro cuore speravamo non accadesse mai - ha detto il primo ministro Ferenc Gyurcsany - ma la leggenda di Puskas non ci ha abbandonato e rimarrà per sempre con noi». I funerali del numero dieci si terranno il 9 dicembre nella sua città.

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