La battaglia del
pallone
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L'incubo delle notti italiane di mezza estate è il ritorno all'età della pietra. Quando né la tv né la radio propagavano le emozioni del rito calcistico che rende palpitanti i fine settimana. Una domenica senza i brividi di "Tutto il calcio minuto per minuto", le vertigini di "Novantesimo" e le sanguigne moviole della "Domenica sportiva" è come regredire a un'era premoderna. Priva di scosse di adrenalina, inaridita dal vuoto di informazione, scondita dall'assenza di spettacolo. E gramo diventerebbe perfino il rifugio della visione tardiva (dopo le 22,30), garantita dal diritto di cronaca. Come offrire un pasto da vegetariani a un popolo di carnivori. Un'ipotesi surreale, che rischia di provocare seri scompensi nei bioritmi del costume nazionale.
Ma la minaccia, che costringerebbe l'Italia a reinventarsi il weekend, si è fatta sempre più incombente. Piange il piatto della Rai. «Gli italiani sono maturi per capire», la fa semplice il direttore generale Agostino Saccà. Lacrima anche quello delle pay tv. Mediaset, da parte sua, sbandiera la scelta dell'austerità. E la Sette ha bilanci francescani, inadeguati a tener testa alla new economy del pallone. Il calcio si è ficcato in un cul de sac. Se le società non la smettono di considerare il campionato un bene più insostituibile del petrolio (e i funambolismi di Ronaldo o Del Piero come il sorriso della Gioconda), o le emittenti non accettano di svenarsi per garantire la quiete sociale, proprio nel mondo che più prospera sull'immagine scompariranno le immagini. Il campionato diventerebbe un fenomeno clandestino, con seri riflessi sulla popolarità del giocattolo nazionale. Ne guadagnerebbero solo le società di telefonia mobile: con cronache minuto per minuto carpite al cellulare dalla viva voce di chi per combattere la crisi di astinenza non potrebbe fare a meno di recarsi in pelleginaggio negli stadi. Televisivamente, diventerebbe un fenomeno virtuale, come far l'amore su Internet. Con trasmissioni tutte incentrate sulla chiacchiera da osteria, sull'indiscrezione orecchiata, sulla polemica preconcetta, sull'assassinio della lingua italiana. Un processo di Biscardi alla ennesima potenza, in cui gli unici testimoni attendibili diventerebbero i presenzialisti delle sfide carbonare.
Il problema è che il calcio sta scoppiando, dopo essersi gonfiato a dismisura come le rane di Esopo. La corsa al campione (ma perfino al brocco) ha surriscaldato il mercato facendo lievitare alle stelle gli ingaggi dei giocatori. Un trend che per ragioni demagogiche non è mai stato scoraggiato dai presidenti, sia che appartenessero alla schiatta cabarettistica dei ricchi scemi, sia che si librassero con eleganza manageriale nell'empireo dell'alta finanza. La grande firma accendeva l'entusiasmo della tifoseria e l'attenzione dei media. Traducendosi in sponsorizzazioni più qualificate e in introiti più alti. Ma faceva contemporaneamente crescere gli appetiti dei campioni (ma anche dei raccattapalle) assistiti da procuratori con master in economia, volponi addottorati nelle tecniche di arricchimento dello star system americano.
Tale Cesar Gomez, difensore Carneade, a metà degli anni Novanta arrivò in pompa magna dai campetti polverosi della Spagna alla Roma con un contratto da faraone. Zdenek Zeman, il tecnico giallorosso allora in carica, impiegò pochi secondi a capire che di rinforzo si sarebbe potuto parlare al massimo per un torneo fra scapoli e ammogliati. Il mistero dell'acquisto non fu mai chiarito. Si ipotizzò perfino (non c'è però la conferma) che Zeman, sempre di scarse parole, durante un'amichevole in terra iberica avesse esalato un gesto di apprezzamento per uno dei compagni di squadra di Gomez. Ma la vaghezza della segnalazione avesse poi portato allo scambio di persona. Di fatto, Gomez in tre stagioni fu impiegato per una manciata di minuti, in circostanze di assoluta emergenza. Venne poi relegato, come da contratto, a stipendio pieno in tribuna. E l'ultimo anno, quando si aggirava come uno zombie nel giardinetto di Trigoria, il campo degli allenamenti dai quali era esentato, venne avvicinato da un tifoso che lo consolò così: «Ah Gomez, vie' qua che te faccio 'n'autografo».
L'ascesa scriteriata degli ingaggi fece apparire naïf gli anni Settanta, quando un fuoriclasse come Gianni Rivera suscitò sensazione violando per primo la barriera degli ultrasuoni dei 100 milioni l'anno. Una decina di anni dopo, mettendo all'incasso il trionfo azzurro ai mondiali di Spagna, già Paolo Rossi ne portava a casa 500. E nel '90 Gianluca Vialli si arrampicò sulle soglie del miliardo. Il fenomeno è schizzato fuori controllo nell'ultimo decennio, con l'ingresso in scena delle pay tv ('93) che ai presidenti calcistici parve la scoperta della pietra filosofale. Lo show della pedata tirava sempre di più. Sembravano non esserci limiti alla bulimia delle tifoserie. Il calcio venne spalmato ad ogni ora del giorno e della notte, tutti i sacrosanti giorni dell'anno. In versione illustrata, o spettegolata. Pescando nei momenti di stanca anche tra gli scampoli delle bancarelle straniere. In modo che ai patiti venisse garantita la scorpacciata quotidiana. All'occorrenza con spezie turche o boliviane. Una spirale inarrestabile, di cui beneficiavano di pari passo sia i protagonisti che gli impresari. Gli ingaggi annui dei calciatori si impennarono fino ai dieci miliardi di Del Piero e Vieri, ai 12 di Batistuta, ai 15 di Recoba e di Rivaldo. Ma salirono a dismisura (vedi box) anche gli introiti dei diritti televisivi, fra le trasmissioni in chiaro e quelle criptate.
Le prime avvisaglie di tempesta risalgono alla scorsa stagione. Le società, incalzate dai piagnistei delle pay tv (coi bilanci in rosso) e dall'inattesa disaffezione della Rai per il prodotto calcio, accettarono di limare le richieste: da 539,6 a 522 milioni di euro (88,8 per il chiaro, 433,2 per il criptato). Ma per chiudere la trattativa con la Rai, difendere pezzi di storia contemporanea ("La domenica sportiva " nasce nel '54, "Tutto il calcio" nel '60) fu necessario che dispiegasse tutta la sua soavità di tratto Gianni Letta, il supermediatore delle italiche beghe. Anche quest'anno le sorti delle nostre domeniche (la differenza fra domanda e offerta è di quasi 40 milioni di euro) sono legate alle virtù diplomatiche dell'uomo che incarna il berlusconismo dal volto umano. L'unico che può superare l'imbarazzo di dover trattare da un lato con Adriano Galliani, presidente della Lega ma anche (nel Milan) dipendente illustre del Cavaliere; e dall'altro con la Rai, concorrente di quella Mediaset meramente posseduta dal presidente del Consiglio. Non un conflitto, ma un groviglio di interessi. Ma può mai un governo disinteressarsi di un problema sociale così serio? Altro che patto con l'Italia: su quell'impegno solenne si può anche temporeggiare. Ma come si fa ad assistere inerti al malessere di un Paese che si vede sottrarre da un giorno all'altro il suo giocattolo nazionale?
Neanche la mediazione di Kofi Annan riuscirebbe invece a ridurre a più miti consigli il pool delle otto provinciali che disdegnano le briciole di Telepiù e Stream. Che per garantirsi la sopravvivenza allargano i cordoni della borsa solo davanti a audience certificate come quelle degli squadroni. In questo guazzabuglio finisce nelle nebbie il calendario del campionato. Addio a una delle poche certezze della nostra realtà quotidiana. Prima che Letta si inzuccherasse per levigare le tensioni, Galliani aveva proposto di rinviare il gala inaugurale all'11 settembre. Non c'è data più simbolica per rappresentare lo stato comatoso del calcio italiano.
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