Torna all'elenco dei libriCuore di cuoio 
di Cosimo Argentina, Editore Sironi. Ambientato a Taranto nel 1977, parla del Taranto, di Iacovone e della vita nella nostra città. Gli amici, il pallone, le ragazze: una storia grintosa e divertente sullo sfondo di una periferia cittadina che non fa sconti a nessuno

I capitoli 1, 2, 3 e 12 in formato PDF

Un romanzo sulla voglia di farcela. 
«Nel ’77 passavamo le giornate tra scuola e cofani delle automobili e ci stava bene così. E se qualcuno faceva una battuta cominciavamo a ridere e spingerci solo per fare un po’ di macello. Le ragazze venivano dopo. Dopo gli amici e il pallone. Un terzo posto onorevole, direi.» 
Cuore di cuoio narra le vicende di un gruppo di ragazzi di quindici anni e in modo particolare di uno di loro: Camillo Marlo detto Krol. La storia è ambientata nel 1976/77 in un quartiere popolare di Taranto. Camillo Marlo è un ragazzino con un padre duro e fragile, una fidanzatina che non può accarezzare perché imprigionata in un busto di gesso e un gruppo di amici per la pelle. Un posto di rilievo nel cuore del protagonista ce l’ha anche il Taranto Calcio, allora militante in serie B. Camillo gioca nelle giovanili, e lo fa talmente bene da guadagnarsi un interessamento da parte della Juventus. 
Dice Camillo: «Qui dentro ci stanno i miei sogni. Diciamo che è la storia mia, dei miei compari, di Twente che era fidanzata con me, della mia città di cui si parla sempre male ma che a me piace. Questa è pure la storia dei rapporti tra me e mio padre che ogni tanto mi picchiava ma fa niente; inoltre parla del mio amore per il pallone, il mare e il treno che mi avrebbe dovuto portare a Torino nel maggio del 1977. Pensate: avrei passato le serate con Fanna e Spinosi e mi sarei portato dietro Twente. Quindi parla della mia voglia di farcela. Di riuscire a finire sull’album Panini». 
La vita del protagonista si intreccia alla storia d’Italia di quel periodo: il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro; gli attacchi delle Brigate Rosse; la crisi dell’Italsider; Montanelli che viene gambizzato. Su tutto domina la lingua, presa dal quartiere e miscelata a un codice calcistico: è lei l’altra protagonista della storia coi suoi suoni e i suoi colori mediterranei.
Cosimo Argentina è nato a Taranto nel 1963 e vive in Brianza dal 1990. Ha esordito nella narrativa nel 1999 con Il Cadetto (Marsilio) e nel 2002 ha pubblicato Bar Blu Seves per lo stesso editore. Ha pubblicato racconti e poesie in varie riviste e quotidiani.

Marlo e le sorelle West Ham
In un romanzo di Cosimo Argentina, gli anni '70 nel pallone di Taranto e i suoi tifosi. Nel `77 tutta la città sperava nella storica promozione in serie A ma la morte improvvisa del bomber Erasmo Iacovone, travolto da un auto in fuga, spense i sogni di cuoio di una generazione di adolescenti che chiamava le ragazze con i nomi dei club più misteriosi d'Europa: Dukla Praga, Tatabanya, Carl Zeiss Jena...

Un gruppo di quattordicenni amici per la pelle, la comune allergia alla scuola, la strada, il quartiere, la città di Taranto. Ma soprattutto la condivisione dell'amore per il calcio: da una parte il Taranto, la passione di sempre, e la Juventus, quel sogno a lungo accarezzato dal protagonista del romanzo, Camillo Marlo. Il linguaggio è quello popolare, alternato al più stretto dialetto tarantino: crudo, immediato e folkloristico. Cuore di Cuoio (ed. Sironi, 13 euro), scritto dal tarantino Cosimo Argentina, oltre ad essere un atto d'amore nei confronti di Taranto, concepito nei ricordi dell'adolescenza, è una fotografia affatto parziale della Taranto fine anni `70. Il lettore scorre le pagine e osserva gli usi e le abitudini della città. Lo fa «da dentro», respirando l'olezzo dei vicoli e l'acre odore dei fumogeni allo stadio, partecipando insieme ai protagonisti alle risse e alle partitelle di pallone. In questa storia semplice, dolce e cruda allo stesso tempo, l'unico appunto da muovere ad Argentina sono forse i troppi pezzi in dialetto (chi non è di Taranto fatica un attimo). Argentina dipinge la quotidianità dei ragazzini, i veri protagonisti di del libro. Rituali, monomaniaci, calciodipendenti al punto da affibbiare a ogni ragazza, come soprannome, il nome di una squadra di calcio. Nessun Real Madrid per le belle e Grasshoppers per le brutte, sarebbe troppo banale. Bensì Twente, Dukla Praga, Legia Varsavia, Schalke 04, Stella Rossa e Tatabanya; le sorelle West Ham, Ipswich Town e Queen's Park Rangers; Sporting Gijon, Fortuna Dusseldorf, Arsenal e Carl Zeiss Jena. Nomi altisonanti di squadre forse non vincenti, ma sicuramente ricche di tradizione e mistero (specie per un quattordicenne degli anni `70), bandiere di un calcio che non esiste più se non negli album dei ricordi. Le ragazzine «meritano» solo se masticano di calcio e lasciano liberi i fidanzatini la domenica pomeriggio. «Non perché siamo tutti ricchioni - sottolinea Marlo, il personaggio centrale della storia - ma perché tali pulzelle minano la stabilità e la coesione del gruppo [...]. Le ragazze venivano dopo gli amici e il pallone. Un terzo posto onorevole, direi...». Siamo alla fine degli anni `70, e Italia faceva rima con lotte operaie, fermenti di massa, stragi di stato. Eppure questo romanzo poteva benissimo essere collocato in qualsiasi altro periodo storico, dal momento che poco o niente filtra fino al quotidiano dei protagonisti. L'autore però non cade nel tranello di abbattere le ovvie barriere di un adolescente quattordicenne che separano una partitella di pallone per strada dalla gambizzazione di un Montanelli. Lascia Marlo reale e spontaneo. Cuore di Cuoio è anche un piccolo saggio pregno di memoria storica spicciola. Dal pallone SuperTele rosso e nero, ai pantaloncini «Enne Erre», al tempo il top del top; dagli Ultrapaz, gli ultrà della curva rossoblu, alla birra Raffo, due simboli della «tarantinità» più schietta. E a proposito di simboli, miti, istituzioni, Argentina non poteva certo dimenticare la figura di Erasmo Iacovone, il giocatore che più di ogni altro è entrato nel cuore dei tifosi rossoblu. Il solo nome evoca nel tifoso tarantino immagini in bianco e nero, fortissime emozioni legate ad un gol in un periodo in cui il calcio sembrava poter rappresentare l'occasione di riscatto di un'intera provincia.

Nato a Caprocotta (Isernia) nel 1952, Iacovone era arrivato tardi al calcio che conta. Dopo una infelice esperienza in serie C con la Triestina vissuta a vent'anni, andò a giocare in serie D col Carpi, tornando in C, al Mantova, nel campionato 1974/75 (20 gol in due stagioni). Lo scoppiettante inizio del suo terzo campionato consecutivo con i virgiliani (sei gare e quattro reti) gli valse il passaggio al Taranto nel novembre del `76. L'allora presidente rossoblu Fico lo acquistò cedendo alle pressioni del tecnico Seghedoni. Costò al Taranto la bellezza di 450 milioni di lire: un'enormità per un giocatore che in serie B era soltanto una promessa. «Mi auguro di non aver commesso un errore che non mi perdonerei mai», sentenziò il presidente a fine trattativa. Dei 32 gol realizzati dal Taranto nella stagione 1976-1977, otto portarono la firma del bomber molisano. L'anno seguente il Taranto, preso per mano dalle prodezze del trio Gori-Selvaggi-Iacovone, sembrava davvero poter regalare alla città il sogno di una vita, quella serie A mai giocata. Alla fine del girone di andata era secondo dietro all'Ascoli dei record. Il 6 febbraio 1977, una notizia svegliò Taranto nel cuore della notte. Tra frasi che si rincorrevano e sguardi che si incrociavano, una certezza: un'auto rubata che sfrecciava a duecento all'ora, inseguita dalla polizia, si era andata a schiantare sulla fiancata sinistra di una Diane-6. L'impatto fu tremendo al punto che il conducente della Diane venne ritrovato su una cunetta ad una cinquantina di metri. Era il corpo di Erasmo Iacovone. La morte era avvenuta sul colpo.

Davanti all'ospedale, i vigili urbani cercarono di calmare la folla che si era radunata davanti all'ospedale. Si racconta perfino che il secondo portiere, lo slavo Zelico Petrovic, volesse cercare il colpevole per «fare giustizia». Il funerale si svolse allo stadio «Salinella», per l'occasione gremitissimo, sotto una pioggia battente. Chi c'era racconta che mai, a Taranto, si erano viste tante donne allo stadio. Il calcio, specie al sud, era ancora monopolio maschile. Ma in questo caso era diverso: Iacovone era il simbolo di Taranto, l'illusoria speranza di riscatto; il calcio, il Taranto, le sue maglie rossoblu erano l'espressione sociale più vissuta e condivisa. Anche le donne, pur non andando al Salinella, seguivano le vicende della squadra. Racconta un vecchio tabaccaio del centro storico che il giorno del funerale si respirava un clima irreale. «In quasi 80 anni di vita, non ricordo alcun evento luttuoso vissuto dalla cittadinanza in maniera più tragica della morte di Iacovone».

Ogni anno, a distanza di oltre un quarto di secolo dalla sua morte, durante la prima partita casalinga del mese di febbraio, tutto lo stadio (a lui intitolato appena due giorni dopo la sua morte) omaggia la sua memoria con un coro cantato all'unisono. Lo cantano tutti, i più anziani e i tanti giovani che non lo hanno mai visto giocare. Un po' quel che accade tuttora in un'altra città di mare, anch'essa di forte tradizione portuale: Liverpool. Là, i tifosi dei Reds continuano a ricordare il mitico Bill Shankly (l'allenatore dell'invincibile squadrone degli anni `70), con cori e striscioni in ogni partita del Liverpool. di Tommaso Tintori dal Manifesto

...Taranto romanica 

Elio Paoloni, Corriere del mezzogiorno, 12.10.2004

Nell’annosa contrapposizione Lecce-Bari, si tratti di tifoseria calcistica, distinguo tra scrittori salentini e scrittori “genericamente” pugliesi (cioè baresi) o corsa turistico-immobiliare al trullo piuttosto che alla costa gallipolina, sembra essere scomparsa una città, anzi una provincia intera. Di Taranto, nonostante il tentativo di riparazione di Winspeare, che lì ha ambientato il suo Miracolo, ci si ricorda solo quando c’è da additare i veleni del siderurgico o rammentare le malefatte di Cito, il sindaco più impresentabile in società (oltre che il più efficiente, sussurrano in tanti). Anche i provinciali degli altri due capoluoghi avrebbero da lamentarsi ma i tarantini hanno un motivo di lagnanza in più: la loro provincia resta fuori fuoco anche quando si affronta l’argomento principe, quell'esplosione di vini salentini che il più delle volte salentini non sono. Il fatto è che buona parte della provincia magnogreca viene considerata (non a torto, geograficamente parlando) territorio salentino. Ma non lo è. Culturalmente Taranto è somigliantissima a Bari: il porto, la mistica del pesce crudo, la città vecchia intesa come zona malfamata. Anche la parlata, con i suoi scoppi sordi, è molto più vicina a quella barese che alla leccese. Martina Franca, punto di riferimento dei tarantini, è già Puglia nord: il suo barocchetto non ha nulla a che vedere con quello leccese. 
E lo stile dello scrittore tarantino Cosimo Argentina è quanto di più lontano dalla fluidità - dalla inarrestabilità - di scrittori come Livio Romano o Francesco Lanzo. Altro che barocco, qui siamo nel romanico, nella struttura a vista, nel rifiuto meticoloso dell’ornamento. Scabro, tagliente, questo Cuore di cuoio edito da Sironi, (con soli 13 euro avrete diritto, oltre alle 204 pagine, anche a una bellissima copertina di Pintér). Chissà perché, volendo a ogni costo cercare accostamenti, lo scrittore che mi viene in mente è Hemingway. Sarà per i dialoghi secchi, sarà perché i ragazzi di questo quartiere popolare tarantino negli anni '70 inscenano una sorta di parodia del machismo (chi non conosce il dialetto pur essendo di Taranto è considerato ricchione; chi non mangia le cozze crude col limone è ricchione; chi chiude la porta delle docce quando si lava è ricchione), relazionati al mondo solo attraverso lo sport, con le ragazze che vengono solo dopo il pallone e gli amici (un terzo posto onorevole, direi) e portatori di un sovradimensionato quanto inconsueto concetto dell'onore (a volte il giovedì alcuni di noi vengono chiamati per giocare con la prima squadra. Quello è un onore. E' come quando giochi sotto casa e tu fai le squadre: anche quello è un onore). 

C'è bisogno di una chiave per dare un senso alle cose. I ragazzini, come gli scrittori, ne vanno in cerca e i quindicenni di Argentina l'hanno trovata nel cuoio del pallone da calcio, l'unico oggetto che può ammorbidire il loro muscolo cardiaco, anch'esso (almeno apparentemente) indurito: perciò non solo si affibbiano alle ragazze i nomi delle squadre di calcio straniere (dall'inevitabile Benfica a Dukla Praga) ma si finisce per intravedere un tiro all'incrocio di Pruzzo perfino nelle macchie sul pavimento. Le guerre d'indipendenza acquistano importanza perché si son fatte contro gli antenati di Prohaska e il tempo è scandito dai calendari di campionati, coppe e tornei, vere feste comandate. Delle feste canoniche si onora un po' la Pasqua, perché Natale è bello con la neve ma a Taranto la neve non si sa cos'è e poi (se proprio si vuol buttarla sulla religione) a Pasqua c'è il "salto di qualità", che "tutti so' capaci a nascere ma pochi sanno risorgere, soprattutto se per farlo devi spostare 'na cazz' di chianca". Le bombe che attraversano i notiziari non fanno più rumore dell'accostamento del Taranto, nel girone finale di Coppa Italia, a "Milan, Napoli e, udite udite, Juve" e solo alla notizia del rapimento Moro i ragazzi del rione restano sgomenti: ritengono si tratti di Adelio Moro, centrocampista dell'Ascoli. 

Il rione Italia Montegranaro è così autoreferenziale che non sembra neanche far parte di un gran porto di mare - anzi di mari - (il mare è là e noi qua, nel quartiere, e 'u pap' ste a Roma: punto e basta") ma Bari resta un punto di riferimento: lì, a nemmeno ottanta chilometri, già si ascoltano Chet Baker e Rolling Stones, "aqquà invece se la fanno con Rosanna Fratello". Certo non ci si sognerebbe mai di imitare la scelta della birra (quelli di Bari si fanno di Peroni) perché la birra Raffo non sarà una gran birra ma è di Taranto (è 'na birra rossoblu). Presto, in ogni caso, le sfere di cuoio si sgonfieranno e il mondo circolare del quartiere sarà rimesso in quadro dalle presenze femminili, coscienziosamente suddivise in dieci categorie. Nel libro c'è forse qualche termine dialettale di troppo ma le scelte lessicali sono rigorose, sempre vere, sempre colorite (le chiappe sono come due enormi pagnotte di pane di Laterza). Quando c'è da usare un registro appena più alto, Argentina ricorre a Panzerotto, l'unico personaggio acculturato, e se non è disponibile sulla scena lo fa evocare dall'io narrante, col sarcasmo di chi diffida del linguaggio forbito: "mi viene il bagno quando la gente non parla chiaro… poi IL TEMPO PARLA CHIARO: anno dopo anno diventano tutti come i miei . E' allora che partono l' pird', i rutti, le bestemmie, le chiattone comprano i vestiti nuovi e i mariti arrazzano per le femmine giovani e le chiatte pensano di risolvere tutto facendosi bionde o comprando quelle mutande da pugnetta a due mani". 

Bisogna essere grati a Cosimo Argentina: in un paese malato di calcio come il nostro la quantità di romanzi con palla al centro è scandalosamente bassa. Figurarsi che tra i migliori ce n'è uno scritto da un inglese (benché veronese adottivo). Sarà perché da noi chi scrive si è sempre nutrito di libri, snobbando o addirittura demonizzando sia l'attività fisica (muscoli e competitività, che orrore) sia la campanilistica, oppiacea fruizione passiva. Finora ci si era potuti rivolgere solo a uno sport nobile e rigorosamente tifo-esente come la maratona (vedi l'eccellente A perdifiato di Mauro Covacich). Ma qualcosa si muove: di cuoio sono anche i Sogni del titolo di un film uscito in questi giorni e prodotto da una società salentina. 

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