Torna all'elenco dei libriLa squadra spezzata 
Autore Luigi Bolognini, editrice Limina, pp. 149, €. 14,00



Puskas e la squadra spezzata che salvò la rivoluzione ungherese
In un romanzo di Luigi Bolognini, la storia della grande nazionale magiara che vinse tutte le partite tra il 1950 e il 1956 tranne una: la finale della Coppa Rimet contro la Germania

Talvolta il calcio assomiglia alla vita e talvolta addirittura assurge a metafora della Storia: negli anni più recenti ce l'hanno dimostrato potentemente libri come La vita è un pallone rotondo di Vladimir Dimitrijevic o Il mio nome è Nedo Ludi di Pippo Russo. Ma il calcio ha mille declinazioni e qui il giornalista di Repubblica Luigi Bolognini ce ne offre una nuova e molto suggestiva, tutta racchiusa, forse, in una frase pronunciata ad un certo punto, quando ormai il destino sta compiendosi, da Gusztàv Sebes, commissario tecnico della grande nazionale di calcio ungherese cui è dedicato questo piacevole libro, La squadra spezzata (Limina, pp. 149, € 14): «Se avessimo vinto due anni fa, non ci sarebbe stata alcuna rivoluzione». Anche questo può essere il calcio: il tentativo di riscatto dalla Storia, fallito il quale non rimane che affrontare la vita vera. Ecco, il calcio non può riscattare la vita, sembra insegnare la parabola della grande Ungheria e sembra voler dire Bolognini attraverso la descrizione di questa parabola: può appena consolarla, ma comunque poco e non a lungo.
Tutto ciò che racconta Bolognini è reale: sono realmente accaduti gli eventi e sono realmente esistiti i personaggi, che hanno realmente respirato il clima che Bolognini descrive. Non è reale - ma potrebbe esserlo - solo il protagonista del libro: Gàbor, che ha dieci anni all'inizio del racconto e sedici alla fine e che semplicemente e dolcemente ci offre il suo sguardo sulle cose. La storia ha la forma del romanzo ma i contenuti del saggio calcistico e storico: Gàbor ci mostra la Budapest di quegli anni - dal 1950 al 1956 - durante i quali la grande Ungheria di Puskàs vinceva dappertutto, tutte le partite, contro tutte le squadre, anche contro l'Inghilterra di Matthews e Mortensen, battuta a Wembley nel 1953, nel match del secolo, 6-3, e poi battuta ancora, nel secondo match del secolo, a Budapest, pochi mesi dopo, 7-1. Quella grande Ungheria vinse tutte le partite giocate dal 1950 al 1956 e vinse l'Olimpiade del 1952; vinse tutte le partite tranne una, la finale della Coppa Rimet del 1954, contro la Germania Ovest già battuta nel girone iniziale 8-3.
Fino a quella finale, la bellezza del calcio aveva consolato Gàbor della Storia; anzi lo aveva illuso - com'erano illusi molti e come pure molti probabilmente lo saremmo stati, se non fossimo venuti dopo - che la Storia non fosse ciò che era e che il comunismo fosse ciò che avrebbe potuto essere. Fino a quel momento, l'invincibilità della grande Ungheria aveva invece fatto credere a Gàbor che anche il comunismo fosse destinato a vincere, entro breve; e Budapest sembrava meno grigia di quel che era, la mancanza di cibo sembrava meno assillante e persino il vuoto dell'avvenire sembrava pieno. Ma quel giorno tutto cambiò e fu proprio dopo quella sconfitta che Budapest conobbe la prima contestazione e che Gàbor passò la propria linea d'ombra, nel dialogo rivelatore con il suo miglior amico, Sàndor: «Serviva perdere la Rimet per ribellarsi. Per la dittatura non protesta nessuno», dice infatti Sàndor; «La dittatura del proletariato, però», ribatte Gàbor; e Sàndor: «Proletariato? Apri gli occhi, Gàbor. Dove lo vedi il proletariato al potere? Io, tu, noi, tutti siamo proletari. E nessuno di noi ha il potere, anzi nessuno di noi ha nulla e basta».
È vero: quella contestazione durò il lampo di una notte e la nazionale continuò a vincere tutte le partite anche nei due anni successivi e Puskàs continuò a fare gol. Ma tutto ormai era crollato, perché troppo enormi erano le speranze: era crollato il senso dell'ineluttabilità di tutti i destini, individuali e collettivi. E tutto precipitò. La rivoluzione del '56 fu improvvisa come la rimonta della Germania Ovest nella finale della Coppa Rimet e tuttavia Gàbor l'aveva percepita nell'aria come aveva presentito la rimonta; e fu e significò molte cose, e fu l'inizio di alcune e la fine di altre. Per quel che qui interessa, fu e significò la fine della grande Ungheria, che in quei giorni era all'estero a giocare delle amichevoli e la cui gran parte dei giocatori mai più fece ritorno in patria. Puskàs vi tornò soltanto nel 1992, dopo essere stato ancora grande nel Real Madrid e dopo essere stato meno grande come allenatore di tante squadre fra quattro continenti; e vi è morto pochi mesi fa. Soprattutto, a Gàbor è sempre rimasto il brutto dubbio che sia stato più grande come calciatore che come uomo; ma forse questa considerazione è solo romanzesca, perché troppo tortuosi sono certi destini per concluderli in un giudizio definitivo. di Niccolò Nisivoccia

index