Spunti di riflessione

Nonno Ciccio e i discepoli
Nel ritiro irpino del Foggia tra ultras, orecchiette e Dik Dik

«Troppo lento. Devi immaginare difensore dietro tuo culo. Gli stai andando via come farebbe mia nonna». La voce di Zeman, cavernosa e monocorde, risuona nella silenziosa vallata di Savignano Irpino. E' la stessa frase che sussurrava a Gigi Di Biagio, quasi vent'anni fa. Strappato al Monza in C1, Gigi si presentava come un sosia di Ninetto Davoli, parlata testaccina, chioma ricciuta e coltello tra i denti. Zeman lo installò definitivamente in serie A. Oggi il Boemo ripete il suo verbo a discepoli ventenni, nel ritiro della rinata Zemanlandia. Non c'è scherno nelle sue parole. Non c'è ipertensione ostentata da «tetro ginnasiarca, carceriere dello Spielberg», come lo ribattezzò Gianni Brera. C'è la solita ironia straniata, che massaggia i muscoli stremati e rassicura: dopo il sudore e il sangue, si diventa calciatori di razza. Circondato dalle pale eoliche immense come i mulini della Mancia, si genuflette sul pallone come l'hidalgo di Cervantes prima dell'investitura. Stringe gli occhi sui suoi ragazzi che saettano tra i birilli, sul verde sintetico del campo, rossi di fatica. Sente che la creatura prende forma.
Finita la sessione mattutina affida i pupilli al preparatore atletico Paolo Danza, veterano della prima Zemanlandia. Barba canuta e sguardo da fachiro, Danza stira tendini e muscoli con mano sapiente. Per riconsegnarli rigenerati al massacro pomeridiano. Zeman, nel frattempo, girella il fischietto trotterellando per il campo. Ha la pelle rossa e il viso solcato, come un capo apache. Un manipolo di ragazzini savignanesi, avidi di imparare calcio, lo osserva dalla tribuna dello stadio «Luigino Durante». Tra di loro spicca un ottuagenario con la chioma raccolta in un lungo codino, il collo addobbato da un enorme scarabeo vitreo. Anche lui sembra sfuggito a una riserva indiana. Gli squilla il cellulare. «Nonno Ciccio, forza Foggia» è la suoneria. Nonno Ciccio è lui. Ostenta orgoglioso le mani tempestate di calli: «Faccio il contadino da sempre. Vivo qui vicino, a Sant'Agata di Puglia. La prima partita del Foggia l'ho vista a dieci anni. Era il 1937. Lo stadio si chiamava ancora Campo sportivo del littorio. Rubai la bicicletta a mio zio, fabbro ferraio che la stava riparando per un cliente. 50 chilometri di sterrato per arrivare da Sant'Agata a Foggia. Vincemmo 3-0, non ricordo contro chi. Al ritorno forai. Mi caricai la bicicletta in spalle e arrivai all'alba. Un'impresa. Ricompensata da mio zio a colpi di cinghia. Ma per il Foggia ne valeva la pena. Da allora non mi perdo una stagione e spesso vado in trasferta da solo». Poi guarda Zeman con occhio mistico: «Sono contento che sia tornato. E' un uomo vicino alla verità».
Finita la sessione mattutina, è il momento del rancio, consumato nell'altisonante «Taverna degli Artisti». Non più solo patate, come un tempo. Orecchiette al sugo e una manciata di ossa di coniglio alla cacciatora, contornate di insalata verde. Spolpate voracemente dai ragazzi. Spolpa anche Zeman, circondato da tutto il clan storico. Mentre mangia osserva perplesso i manifesti che tappezzano l'intero paese: incombe, in serata, il tour dei Dik Dik. Una volta, appena arrivato da Praga, li ascoltava anche lui. Savigano Irpino conta milleduecento anime. Balzato di recente agli onori della cronaca per la discarica di Pustarza, sorta per fronteggiare l'emergenza rifiuti. Non voluta dalla popolazione, fu teatro di sanguinose manganellate della polizia rifilate alla popolazione dissidente. L'arrivo del Foggia, invece, è stato salutato con grande euforia. Il sindaco ha sveltito l'erezione di un hotel in costruzione da tre anni, la «Casa Albergo Sant'Anna». Una costruzione su cui campeggia una lapide. «Inaugurato il 6 agosto 2010», giusto in tempo per l'avvento del Foggia. Zeman e i suoi si infilano in una sala appartata dell'albergo. Stemperano la digestione accanendosi nel ciapanò rituale. I calciatori si abbandonano sulle brande. E' la controra. Non vola una mosca.
Un gamba qua, una gamba là, gonfi di vino locale, quattro pensionati si consumano in un tressette secolare, ai tavolini del locale New York Bar. Finchè, a squassare la quiete da basilischi, non arriva un orda da Foggia. Ultras dai torsi nudi e istoriati, sbucati dal nulla, annunciati da grugniti gutturali indistinti. Gli anziani indigeni, favoriti dalla sordità incipiente, non subiscono traumi e rimangono immersi nel loro quieto tressette. Intorno a loro i vivaci supporters cominciano a trangugiare casse di birra gelata, condite da hashish squagliato con allegra disinvoltura. Il New York Bar si trasforma rapidamente in un coffee shop di Amsterdam, animandosi di un'inedita frenesia. Tra i gorgoglii si intrasentono slogan contro la tessera del tifoso, urlati dagli ultras come un mantra.
Sbrigata la pratica del Ciapanò, Zeman sbuca sul sagrato della casa albergo sant'Anna. Come i ramapitechi kubrickiani davanti al monolite nero, gli ultrà rossoneri gli si fanno intorno, timorosi e affascinati. Rigido come un totem, Zeman si concede alle foto di rito. Poi esce l'attaccante nigeriano Agodirin, ventisette anni, adornato di dreadlocks incipienti. L'orda lo investe di urla strazianti, gravide di entusiasmo. Unico fonema riconducibile al ceppo indoeuropeo, l'appellativo «Africa», emesso con verve colonialista. Agodirin sembra una divinità d'ebano, sbucata dall'Orestiade africana di Pasolini. Additato dagli abbrutiti come una belva esotica, trattiene a stento un moto di ribrezzo e si concede rassegnato alle foto ricordo.
Si ritorna in campo. La falange degli ultras, continua ad alimentare la propria euforia artificiale, combinando canne e birra in quantità pantagrueliche, coadiuvate dai benefici effetti del sole a picco. Stonati, straziano corde vocali e uditorio. Trincerandosi dietro un striscione minaccioso, scritta bianca su nero pece: «Fuggi da Foggia». Sull'erba sintetica del campo, nel frattempo, si accende la partitella pomeridiana. Lorenzo Insigne, nomen omen, si conferma il Sivorino tascabile di Fratta maggiore. Salta uomini, pennella cross con piede di velluto e segna gol pregevoli. Ma è il collettivo che comincia a ingranare. Verticalizzazioni, incroci, trappole del fuorigioco che scattano come tagliole. Si intravedono lampi di flipper zemaniano. Il boemo gongola senza averne l'aria. Poi concede alla truppa esausta il rompete le righe. Un altro giorno è andato, si ritorna alla quiete monastica del Sant'Anna.
Dopo la cena e qualche mano di ciapanò, è facile immaginare il Boemo che saluta tutti e si rintana nella quiete della sua camera, la numero sei. Immerso nelle sue meditazioni tattiche, finalmente tornato alla vita che più ama, verrà turbato da un violento evento traumatico: la voce amplificata di Giancarlo Sbriziolo detto Lallo, vocalist ultrasessantenne dei Dik Dik. Che urla lacerato la sua brama di California, dal palco di Savignano Irpino.

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