Spunti di riflessione

Quella prima volta azzurra a Wembley
Sei maggio 1959, l'Italia scopre il fascino dello stadio londinese tra emigranti impazziti e l'inno dei Savoia suonato per sbaglio. Uno storico pareggio nel ricordo di Sergio Brighenti

Il 6 maggio del '59, un sabato pomeriggio di sole accecante, la nazionale italiana di calcio gioca per la prima volta a Wembley contro i bianchi d'Inghilterra e, per la prima volta, riesce a strappare un punto ai padroni di casa. Gli azzurri presentano una squadra di giocatori discreti unitamente a due o tre fuoriclasse a lungo sottovalutati come la mezzala Carletto Galli, l'ala destra Amos Mariani e un centravanti navigato che infatti esordisce a ventisette anni, il modenese Sergio Brighenti, prima al Modena e all'Inter, alla Triestina e al Padova di Rocco (che per lui stravedeva) poi alla Sampdoria, ancora al Modena e al Torino dove chiude nel '65 con un tabellino di assoluto valore che include la qualifica di capocannoniere in serie A (campionato '60-'61, nella Samp, con 28 reti). Brighenti è una punta dai gesti netti ed essenziali, grande stoccatore e tuttavia buon rifinitore, forte nei contrasti e ottimo acrobata: gioca e vede il calcio già da intenditore, destinato a una lunga carriera di tecnico nei quadri federali e nella stessa nazionale maggiore.
La partita in cui entra da protagonista sembra avere un copione già scritto e, all'inizio, persino grottesco: per un equivoco nel cerimoniale la banda militare suona l'inno dei Savoia e, non bastasse, dopo una mezzora gli italiani sono sotto di due gol: segnano prima Charlton al 26', poi Bradley al 39'. Gli azzurri paiono spacciati, come e più di sempre. Brighenti, che oggi è un ragazzo di settantotto anni, se ne ricorda con precisione. Di recente, a Villa Ghirlanda di Cinisello Balsamo (Mi), per un incontro organizzato dal Comune e intitolato «Il calcio ha memoria» a cura dello storico David Bidussa, è ancora ritornato sul momento che era parso, a lui come agli altri suoi compagni, il principio della fine: «A Wembley c'erano quel giorno 90.000 spettatori, tra cui cinque o diecimila italiani, quasi tutti camerieri a Chelsea e nei quartieri del centro, che alla fine ci portarono in trionfo. Wembley mi fece un grande effetto ma gli spettatori non erano vicini al campo di gioco, come per esempio a San Siro, dunque non è che mi facessero particolare impressione, però era pur sempre un grande spettacolo. L'Inghilterra era piena di campioni che prima non si erano quasi mai degnati di giocare contro di noi, come Clayton, Bobby Charlton e Wright, il capitano, lo stopper che mi marcava, molto abile in elevazione, comunque uno molto corretto. Io, nonostante fossi nel giro della nazionale da anni, quel giorno debuttavo. Non ero così emozionato, ansioso, perché di solito lo ero prima della partita, specialmente la mattina, poi in campo mi passava tutto. Ricordo ancora, di quel giorno, il tappeto erboso, eccezionale, dove era molto facile giocare, anche perché le marcature non erano strettissime come in Italia, quindi io mi sentivo abbastanza tranquillo. Nel primo tempo, pur giocando bene, fummo travolti da due bellissimi gol e nonostante avessimo la difesa della Fiorentina, con Robotti, Castelletti e Segato, il capitano, non riuscimmo a tenere, sovrastati dalla potenza atletica degli inglesi. Alla fine del primo tempo, un dirigente, industriale farmaceutico di Legnano, nello spogliatoio ci parlò, è incredibile, dei paracadutisti della Folgore che avevano combattuto con la baionetta contro i carri armati inglesi, insomma fece un gran discorso patriottico, forse perché all'inizio della partita avevamo sentito la Marcia Reale: infatti quando la banda iniziò a suonare, parabàn parabàn parabàn, non capivamo bene che cos'era e fu Amos Mariani, in piedi accanto a me, che mi disse piano ' ma questa è la Marcia Reale, non è mica l'Inno di Mameli... Fatto sta che quel discorso nello spogliatoio impressionò in particolare proprio Mariani, l'ala destra, perché suo padre era stato ufficiale nella Guerra mondiale. Noialtri ci dicemmo: questi ci sottovalutano, ci lasciano spazi, su che ce la facciamo, diamoci dentro".
Il secondo tempo è infatti un classico del calcio all'italiana. Gli inglesi si illudono di avere chiuso la partita, premono facendo accademia e rammentando l'albagìa proverbiale che volentieri si traduce in superiority complex. Qui, esattamente all' 11' della ripresa, è proprio Brighenti a sbloccare il risultato: «All'inizio del secondo tempo su un lancio di Carletto Galli mi sono infilato tra Wright, il terzino e il portiere, quando ognuno si aspettava che si muovesse l'altro, così sono andato sulla palla e l'ho messa dentro. Poi abbiamo pareggiato con Mariani, un gran gol. Mariani, che purtroppo è mancato qualche anno fa, era un gran bel giocatore, per un centravanti come me era l'ideale dialogare con lui e infatti con lui mi sono sempre trovato benissimo, come del resto al Padova con Kurt Hamrin: la differenza è che con Mariani ero io a dover finalizzare mentre con Hamrin il mio compito era quello di appoggiare su di lui e di servirlo».
Nello stesso momento, seduto in tribuna stampa, adirato e persino furente per il fatto dell'inno nazionale, l'ex partigiano Gianni Brera così sta descrivendo ai lettori del Giorno l'ora topica di Wembley, cioè il minuto 16' di quel secondo tempo: «Bernasconi, magnifico, spara via: arresta Segato e appoggia a Galli: stupenda apertura profonda a Mariani: imperioso scatto e tiro in corsa, fra il palo e Hopkinson, folgorato. Due a due: coronarie in pericolo per tutti. Silenzio glaciale su Wembley. 'Italia, Italia' invocano i nostri». Ora Wembley è solo la voce di cinque o diecimila camerieri increduli e urlanti nel silenzio costernato dei sudditi di sua maestà, il cui regime coloniale è peraltro crollato da appena un decennio. E' qui che nel ricordo di Sergio Brighenti si insinua un rammarico ulteriore: «E pensare che dopo il pareggio abbiamo avuto almeno due occasioni per passare in vantaggio con Petris, l'ala sinistra... Dopo la partita ci fu un ricevimento ufficiale alla presenza della regina Elisabetta e lì porsero le scuse all'ambasciatore italiano per il fatto della Marcia Reale: ci dissero che era stato un errore del comandante degli ussari...».
Nel suo scranno in tribuna stampa, anche Gianni Brera era rimasto in piedi, imprecando e nel frattempo invocando gli dèi. La clausola del suo pezzo per Il Giorno, veemente e risentita, ha davvero una durezza d'altri tempi: «Gli Inglesi schiumano rabbia. Ah, buon Dio, avrei dato una mano per il terzo gol! Adesso che inno suoniamo?».

index