Quel fantasma nerazzurro
L'Inter può finalmente festeggiare il suo 15esimo scudetto: schiacciante, pulito e multietnico. Diverso dai trionfi di Meazza, Facchetti e Trapattoni ma destinato comunque a fare modello. O moda
Nero e azzurro, i colori della notte e del giorno, quanto sentiamo antica e quasi ineffettuale ormai questa simbologia primo-novecentesca... Eppure una volta svaporati i deliri della tanto agognata conquista del campionato, la comunità interista, 99 anni dopo la fondazione - avvenuta, è bene ricordarlo, a opera di un gruppo di dissidenti del Milan -, farà bene a non trascurare i connotati storici della propria lignée, quel filo identitario che consente persino di interpretare un simpatico mostro antropologico come questo: Marco Materazzi che
"dà la mano" a Giacinto Facchetti.
Viene voglia a questo proposito di spegnere un po' le assordanti gazzarre e tirare giù dallo scaffale un vecchio testo del poeta Vittorio Sereni, il quale nel lontano 1964, con l'Inter fresca campione d'Europa e del mondo, imbastiva sulla rivista
"Pirelli" una "fenomenologia" del tifo interista - che lo aveva segnato a fuoco da ragazzo -, coniando l'immagine, persecutoria ma in fondo dolce, del
"fantasma nerazzurro": un fantasma col quale fare per sempre i conti anche da adulti, anche nella vita reale, fuori dall'ipnosi di San Siro, come si chiederebbe a un intellettuale, a un uomo. Per Sereni già allora si trattava di un problema di 'riconoscimento': nell'Inter di grido di Angelo Moratti e Herrera, di Mazzola e Suarez, quanto rimaneva dell'impronta sentimentale e dell'aura degli anni trenta? - gli anni cioè nei quali aveva preso forma in lui, ventenne folgorato da Giuseppe Meazza, la passione interista. Così, mentre si andava configurando il mitologema della Grande Inter (l'Inter moderna e difensivista sempre rimpianta poi, forte come una testuggine, e spietata), Sereni risaliva dall'attualità confessando la sua privata ricerca - tuttora in corso - del nuovo Meazza; ma partendo da quel rimpianto alone luminoso studiava altresì come mettere in relazione esistenziale
"forma del gioco", specifico psicologico del suo club e tifo (la
"malattia").
Il quid interista torna a pulsare adesso in occasione del primo vero scudetto di Moratti jr. Cosa resta, oltre quarant'anni dopo, dello stampo interista identificato gioiosamente da Sereni? E chi mai sarebbe in grado di rivedere nel dinoccolato slavo-scandinavo 'mercenario' Ibrahimovic anche solo uno spicchio della luce meazziana - cioè del primo 'tipo' calcistico (non solo nerazzurro) coniato nel Novecento? Pare impossibile proseguire oggi la vecchia quest messianica di Sereni; però qualcuno dovrà provarsi prima o poi a paragonare almeno gli effetti sull'attuale Inter di quella in vigore sino a trent'anni fa, sino allo stesso Sereni, a Brera.
Per il momento occorre ribadire almeno oggi che una certa diversità interista - non perfetta, però sempre ben riconoscibile - fonda, e staglia, anche questo nuovo scudetto (così come quello assegnato la scorsa estate fra tanti musi lunghi): ed è, anzitutto, la estraneità a quello che Moratti ha chiamato senza giri di parole «il malaffare» che ha condizionato un decennio di calcio italiano. Sùbito dopo però balza agli occhi la discontinuità dell'Inter di oggi con quella genealogia sereniana: anzitutto a causa della composizione multinazionale della rosa dei giocatori, con un solo titolare italiano (lui, Materazzi). Massimo Moratti ha difeso per tempo questo monstrum come una sua scelta aziendale, persino 'politica' (per esempio l'idea di scuole-calcio Inter collegate in vari paesi del mondo, riedizione global del vecchio vivaio); una scelta da opporre con forza al moralismo di altri club: che dopo aver contribuito a smantellare per bene il vecchio modello 'democratico' di competizione sportiva (in nome dello spettacolo iperprofessionistico televisivo riservato a pochi potenti ricchi), si sono messi ad agitare la bandierina ipocrita della carta d'identità. Moratti, certo, ha preso atto che il calcio non è più quello di suo padre, e ha via via costruito (sia pure a prezzo di molti sbagli) una propria idea di società sportiva multietnica, un'Inter 'meticcia' a forte coesione morale e stilistica: non solo stili di gioco, anche stili di comportamento se possibile, pensate a Kanu, a Taribo West, a Fadiga, non tanto ai divismi di Vieri e Adriano.
Sul piano tecnico però questo scudetto contiene almeno un altro «valore», ed è la costruzione della fisionomia interista dell'allenatore. A differenza del Trapattoni dell'ultimo vecchio scudetto dei record ('89) - un Trapattoni strappato alla Real Casa juventina per acquistarne la mentalità vincente -, Roberto Mancini si sta plasmando con Moratti, e ha la possibilità concreta di legare la propria immagine vincente a una sua
"forma-Inter" (forse sta studiando da Herrera...). Non sarà un caso che la Coppa Uefa vinta dall'Inter nel '98 al Parco dei Principi di Parigi, primo trofeo di questa proprietà - ed era l'Inter di Simoni e Ronaldo, la quale giocava molto più 'da Inter' che non quella di oggi tutta pressing e strapotere fisico -, non sarà un caso che quella vittoria travolgente arrivò al termine di una grande sfida contro la Lazio nella quale tramontava il Mancini-calciatore d'oro.
C'è poi ancora un'osservazione psicologica che si può fare sul legame di questo scudetto con l'antica e recente 'diversità' dell'Inter, ed è una certa coscienza della propria tradizione. Non è tanto un fatto di caserma, come accade alla Juventus. Non va trascurato per esempio che proprio Mancini domenica abbia associato ai suoi meriti il contributo, oggi opaco, dei meno fortunati predecessori Simoni e Cúper; e in certe dichiarazioni a caldo dei giovani leoni si è còlto lo sforzo di riallacciarsi non solo al peso dei prolungati digiuni di vittorie, ma anche a quello del patrimonio: introiettato chissà alla Pinetina o a San Siro attraverso le testimonianze dei
"vecchi", Moratti, Facchetti, Oriali, lo 'stoico' Javier Zanetti, fino all'anziano Materazzi-Matrix.
Il tempo dirà se quest'Inter ritrovata, che ora incede spavalda - ma con raro senso dell'umiliazione e della sconfitta - nelle contraddizioni dello sport-spettacolo, saprà scolpire un suo contributo anche di tipo antropologico: se sarà modello, se farà moda. Intanto la 'prigioniera' dell'antico fantasma è ora una generazione di interisti nuovi, compresi i ragazzi blog che fino a domenica pomeriggio non avevano mai potuto festeggiare uno scudetto e smarcarsi, così, dalla morsa Milan-Juve. Massimo Moratti dal canto suo non ha mai nascosto la sua volontà di investire non solo per vincere, ma anche per 'spendere' l'identità storica del proprio club nel confronto con le emergenze e i linguaggi dello sport globale. Oggi egli dispone di una squadra multietnica che s'è guadagnata già diverse simpatie. Persino il fantasma di Meazza può servire a dare del tu, e non importa se lui e tutti gli altri trapassati non capirebbero.
Il pacchetto teleguidato della felicità nerazzurra
Nessuno, neanche i tifosi sventolanti bandiere con colori diversi dal nero e l'azzurro, può rammaricarsi che l'Inter abbia vinto il campionato 2006-2007. Non fosse altro perché è stata una vittoria ampiamente annunciata e strameritata. C'era solo d'aspettare l'inappellabile certezza matematica, perché con la pazza Inter, avvezza ad ogni eccentricità, non si sa mai. La sconfitta di mercoledì scorso contro la Roma ha fatto rialeggiare vecchi fantasmi. Timidi, però, come assai tenue è stata l'ansia (per i tifosi interisti) e la speranza (per gufi, avvoltoi e d'ogni specie) che la squadra di Moratti non ce la facesse un'altra volta, precipitando in uno di quei vortici d'amnesia affollata da incubi confusi frequentati da Philipe Marlowe ogni qualvolta gli capita di prendere una randellata in testa. No, stavolta non sarebbe potuto accadere. Troppi i punti di distacco della seconda in classifica, troppo palese la superiorità nei confronti degli avversari, con quella rosa di campioni sufficiente ad allestirne due di squadre
"da scudetto". Non era granché saporito il titolo dell'anno scorso, assegnatole a tavolino dopo lo svelamento dei maneggi di Calciopoli. Giusto, dunque, festeggiare con enfasi la conquista del
«primo scudetto del calcio pulito», ottenuto sul campo con ben 5 giornate d'anticipo, con una supremazia mai così schiacciante, condita da record culminanti con le 17 vittorie consecutive. Può sorprendere, semmai (ma solo fino a un certo punto, visto l'andazzo), l'insensatezza con cui i festeggiamenti interisti sono stati seguiti dai media. C'è stato molto tempo per preparare l'evento e i conseguenti commenti, ma le cronache televisive hanno scelto la simulazione della sorpresa, fingendo di lasciarsi andare sulla scia dell'emozione per teleguidarla anziché limitarsi a coglierla, mostrarla, ritagliare dettagli significativi. Tutto ciò che c'era da dire sull'Inter di quest'anno è stato detto nel corso dell'anno intero. A scontato risultato raggiunto, non ci sarebbe stato che lasciare che le immagini della liberazione da 18 anni di esilio dalla vittoria parlassero da sole. Ma la logorrea televisiva è incontenibile, impietosa, assassina. Porta a strozzare la gioia cacciandole un microfono in gola.
«Cosa si prova ad essere felici?». Troppo educati giocatori e dirigenti interisti per rispondere:
«Ma sei scemo?». Troppo educato l'allenatore Mancini - sudato per i tanti abbracci dati e ricevuti, lui, sempre così composto, con la maglietta messa al rovescio per meglio evidenziare la scritta
"campioni" - per non mandare dove si meriterebbe l'intervistatore di Sky che gli chiede quando metterà la firma sul nuovo contratto, insinuando un tormentone nella beatitudine. Ma ti sembra il momento? Troppo stravolti tutti per non restituire il microfono al mittente quando arriva ammorbante la fatidica domanda:
«A chi dedica questa vittoria?». Oddio.
La tv invadente, vorace, egocentrica vieta di essere felici in pace. Obbliga a spiegare la gioia, a motivarla, decodificarla, metterla in un pacchetto con indirizzo che etere, cavo o satellite si incaricano di recapitare con zelo ineffabile. Questo è per lei, fidanzata del tale, presidente del tal'altro, o mamma e parentela tutta, tifosi, amici, compagni di campo e/o di baldoria, bella ballerina ucraina di una notte, psicologo di fiducia, cane fedele. Come se nessuno fosse in grado di portare a mano il suo
"pacchetto", quando gli va e se gli va, impedito, comunque, di mangiarsi tutti i cioccolatini che contiene da solo.
di Roberto Duiz
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