Spunti di riflessioneCarosio, il pioniere elegante del quasi gol 
Un francobollo delle Poste italiane ricorda il primo radiocronista del calcio italiano nel centenario della sua nascita. Un testimone d'atmosfere sul conto del quale è fiorita una letteratura fitta di luoghi comuni. Una voce che non si adattò mai alla tv ma che è ancora rimpianta

Un volto ossuto, i baffi e tanto di borsalino, preso di profilo mentre parla davanti a un microfono e intorno a lui si espandono per cerchi concentrici, sopra un rettangolo da football, le onde della vecchia radio: è questo il francobollo, a firma di Gaetano Ieluzzo, che le Poste Italiane emettono in occasione del centenario della nascita di Nicolò Carosio (Palermo, 15 marzo 1907-Milano, 27 settembre 1984), leggendario pioniere della nostra radiofonia calcistica. Di padre genovese e madre inglese, giovanissimo funzionario della Shell, si era appassionato alle trasmissioni di Herbert Chapman (l'ex allenatore nonché inventore del cosiddetto Sistema o WM) proponendosi all'Eiar; dopo la radiocronaca simulata del derby torinese, nel gennaio del '33, era stato assunto e da allora avrebbe ininterrottamente raccontato fino al 1970 oltre mille partite, compresi i Mondiali di Roma del '34 e quelli di Parigi '38 prima di passare, nel '54 alla televisione, che peraltro non gli era esattamente il mezzo più congeniale. Chiunque abbia almeno cinquant'anni sa tuttavia di che cosa parliamo quando parliamo di Carosio: un voce pastosa, suggestiva senza essere stentorea, il tratto elegante e mai affannato, una serie di invenzioni linguistiche, più o meno intenzionali, che si riassumono nel celeberrimo "quasi gol".
Su di lui presto è fiorita una letteratura fitta di luoghi comuni. In primo luogo, si dice che non vedesse le partite di cui stava raccontando il gioco e che anzi tendesse ad inventarle: come in Italia-Inghilterra del '52, a Firenze, ultima gara di Silvio Piola in azzurro, la cui inversione percettiva sarà immortalata da Paolo Villaggio in un passo del primo libro di Fantozzi (più o meno: «...palla da Amadei a Boniperti, a Piola, ancora a Boniperti, tiro, rete!... ha segnato Broadis per l'Inghilterra...»). In secondo luogo, che fosse un esteta segnato dalla retorica fascista e dalla propaganda littoria; niente di più discutibile, per quanto almeno concerne il secondo rilievo, e basta andare adesso in Internet, ascoltarlo in alcuni frammenti d'epoca conservati nelle TecheRai: il suo dettato è sobrio, lineare, con poche concessioni nel lessico e nelle figure (ad esempio gli "stendardi", il loro "garrire" al vento, gli "spalti") ma la sintassi è ferma, molto più asciutta di quanto mai si crederebbe, a partire dall'incipit immutabile, quasi una sua sigla, con cui amava annunciarsi ai radioascoltatori: «Amici sportivi italiani in ascolto, qui è Nicolò Carosio che vi parla e vi saluta...». Mai un urlo, mai uno sbalzo di tensione che non fosse immediatamente riassorbito con eleganza e sostanziale fair play. (Qui verrebbe da rovesciare il luogo comune e rilevare come fascistoide sia piuttosto lo stile vigente, con poche eccezioni, fra gli attuali radiotelecronisti, in effetti latori di un'enfasi sciamannata, plateale, letteralmente volgare, ovvero infarcita di ammicchi che si vorrebbero spiritosi, di lenocinii retorici d'accatto, di banali trouvailles pescate nella feccia mediatica. Con quante "o" dicono gol? Quanto dura, di solito, quella logorrea scalmanata? Altro che Carosio. Forse non lo sanno o ritengono di non doverlo rammentare ma il loro stile, non a caso importato dal Sud America a cavallo degli anni Settanta, è il medesimo stile con cui i cronisti brasiliani e argentini già raccontavano le meraviglie del calcio ai sudditi del generale Medici e del generale Videla). 
Se un fatto si può retrospettivamente imputare a Carosio è di non essere mai stato un critico di calcio e nemmeno, alla lettera, un cronista (se non a volte di partite immaginarie, da lui immaginate) ma esclusivamente il testimone di un'atmosfera, una voce che ogni volta evocava un mito nello stesso momento in cui lo occultava e perciò lo traduceva in mitologia. Il mito per lui, nomen omen, si celava nei nomi che costellavano la radiocronaca, una sorta di scialo nomenclatorio, di infinita enumerazione, di poetica e solenne sillabazione: a riascoltarlo in Italia-Corea (mondiali inglesi del '66, sconfitta epocale) quando nomina Pak Doo Ik, il marcatore coreano, sembra evocare con riserbo e serietà costernata dall'Eneide lo spettro di Ettore, onusto di polvere e sangue. Se gli era dunque negato lo sguardo critico di Brera, suo compagno di cento trasferte, complice di fumate e bevute, sospettava però di dismisura, e appunto di eccessi retorici, tutti i dannunziani, specie Bruno Roghi, in compagnia dei quali si era formato. Nella linearità espositiva somigliava, invece, a taluni giornalisti della vecchia scuola piemontese, come Carlo Bergoglio detto Carlin e poi, della generazione successiva, Giglio Panza. Non ha avuto eredi diretti, Carosio. Le due prime voci di Tutto il calcio minuto per minuto, trasmissione nata sei anni dopo il suo passaggio in tv, gli sono infatti diametrali: Enrico Ameri è un cronista puro, un sismografo della partita di calcio che di rado si concede esplicite valutazioni; viceversa Sandro Ciotti, letterato e musicologo, indugia nei rilievi critici, sintetizza le fasi di un gioco che sembra sempre un po'annoiarlo per tradurle in metafore impreviste e splendidi paradossi cognitivi. (Tanto meno Carosio ha nipoti. Il più dotato fra gli attuali radiocronisti, Riccardo Cucchi, è lontano anni luce da lui e dai suoi effetti d'atmosfera. Tecnicamente impeccabile, molto nitido nel porgere, Cucchi sembra l'ideale intermedio fra Ciotti e Ameri, di cui assomma pregi e difetti, e cioè la sicurezza del giudizio critico ma anche la tendenza a correre un po' troppo dietro alla palla).
Quindici anni è durato il tramonto di Nicolò Carosio, tanti quanti ne ha passati al servizio della televisione, un mezzo di per sé negato sia all'evocazione di un'atmosfera sia alla costruzione di una mitologia nomenclatoria. Carosio si presta, ma non si adatta. La sua voce incupisce e perde il ritmo, né del resto è fatta per le didascalie e i fuori campo. Lì l'anziano ex radiocronista dà il peggio di sé. Il suo addio, quanto di più penoso e malinconico si possa immaginare, coincide con una partita del girone eliminatorio ai mondiali messicani del '70, Italia-Israele 0-0. Capita che un guardialinee etiope faccia annullare due gol di seguito a Gigi Riva segnalando il fuorigioco e capita che Nicolò Carosio se ne esca in diretta con un incredibile, impensabile, «Ma cosa vuole quel negraccio?». L'imbarazzo generale e la protesta dell'ambasciata etiope a Roma davanti a un simile rigurgito razzista e colonialista inducono la Rai a cacciarlo dal Messico e a pensionarlo seduta stante. Per quanti lo amavano e avevano appreso da lui l'abecedario del calcio fu quello, in ogni senso, il giorno della sua scomparsa.

La voce di Niccolò Carosio

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