Spunti di riflessioneIl mito di Raggio di luna 
Nell’estate del 1958, l’attaccante svedese Arne Bengt Selmosson passò dalla Lazio alla Roma scatenando tumulti di piazza e portandosi appresso un’equivoca leggenda

L'estate del '58, una delle più calde e afose del secolo scorso, fu anche quella del trasferimento di Arne Bengt Selmosson detto Raggio di luna, attaccante svedese di estri versatili e di eleganza sopraffina, dalla Lazio nientemeno che alla Roma: centotrenta milioni di lire e tumulti di piazza (allora poco più che mugugni, o clacson delle prime utilitarie di massa) che divisero la capitale tra la malinconia del quartiere Flaminio e l'esultanza di Testaccio. Selmosson, tutt'altro che un fenomeno fisico (170 cm. di altezza per 74 kg. di peso forma), era insieme con Hamrin, Nacka Skoglund e ovviamente Nils Liedholm, un prodotto del vivaio che aveva permesso alla Svezia di disputare nel giugno dello stesso anno, a Stoccolma, la finale della Coppa Rimet tenendo testa per un'ora al Brasile in cui imperversava il fenomeno diciassettenne chiamato Pelé. A rivederlo nei filmati d'epoca, il gioco di Selmosson evidenzia la linearità dei classici: negli spazi vuoti, di preferenza in contropiede e sulla fascia sinistra, egli va in progressione, palla a terra, e tira indifferentemente coi due piedi; la sua corsa è perfettamente coordinata, nitidi risultano sia il controllo sia la battuta; tanto biondo da alludere al riflesso della madreperla, negli affondi ha qualcosa di Michelino Laudrup mentre nelle piroette sulla fascia può ricordare Martin Jorgensen, velocissimo laterale della Fiorentina di oggi.
Classe 1931 (nasce nella cittadina di Sligotene) dopo un anno trascorso all'Udinese, Selmosson approda alla Lazio nel '55 e pur di averlo i biancazzurri sacrificano un'ala destra di piede ruvido ma di gran lena e rendimento costante, il norvegese Per Bredesen infatti destinato allo scudetto col Milan di Schiaffino e di Liedholm medesimo. La Lazio di Selmosson è niente male e colleziona subito due terzi posti: non ha grande difesa, fatta eccezione per un portiere di sicura classe quale Bob Lovati, ma il centrocampo è solido (sostenuto da un lavoratore integerrimo come Luigi Fuin) e decisamente notevole l'attacco in cui si alternano, intorno allo svedese, il centravanti Bettini e due ex juventini di somma agilità, il napoletano Pasquale Vivolo e il romagnolo Ermes Muccinelli, ala destra d'altri tempi. Nelle prime due stagioni, Selmosson colleziona 64 presenze in campionato e 22 reti; calano relativamente le sue prestazioni nella terza (33 presenze e appena 9 gol) quando la Lazio precipita al quindicesimo posto, rischiando la retrocessione, e infatti decide di cederlo alla Roma sfidando la piazza.
Qui Raggio di luna ha già il fascino del mito e su di lui aleggia un'equivoca leggenda. (Risale al dicembre del '55 il debutto della commedia musicale di Garinei e Giovannini La padrona di raggio di luna con Andreina Pagnani, Ernesto Calindri e Lauretta Masiero. Nonché la satira di quelli che un tempo si chiamavano i "ricchi scemi", è la storia molto verosimile della moglie di un principe che si trova, alla morte del marito, a dover ereditare anche un fuoriclasse straniero, quasi che il calciatore fosse un ninnolo in carne ed ossa. A parte la suggestione del titolo, Selmosson non c'entra affatto. La commedia, di tono agrodolce, musicata da Kramer, allude invece alla triste vicenda del principe Raimondo Lanza di Trabia, presidente del Palermo, e di un calciatore dai grandi mezzi tecnici ma un po' troppo bon vivant, la punta danese Helge Bronée, non più giovanissimo, che giocò pure nella Roma e per un anno, appunto nel '54-55, in una Juve di seconda fila da cui lo fece subito cacciare Boniperti perché seccato dal fatto che costui non lo servisse a tempo debito e pretendesse anzi di segnare più di lui). La Roma cui arriva Selmosson in quell'estate '58 è per proverbio la Rometta, una squadra incapace di progettare seriamente un campionato e di dare solidità, vale a dire continuità, al proprio gioco: buona ad imbroccare la partita, cioè una partita, contro lo squadrone del nord ma buona anche a farsi ripetutamente battere dalle comprimarie. La Roma di quegli anni è ancora una squadra "dialettale", legata in esclusiva, con accenti di aperta demagogia, al tifo dell'Urbe: talora diverte, più spesso delude. Vi si assommano grandi nomi di calciatori in disarmo e giovani talenti che scalpitano, già in procinto di salire al nord. Per esempio Alcide Ghiggia (l'ala uruguagia col fisico da airone che ammutolì il Brasile nel 1950) oppure l'argentino Ramon Lojacono, di classe assoluta, la cui vita privata tuttavia moltiplica al quadrato quella di un Bronée; o, all'opposto, i giovani terzini Mario David e Giacomo Losi (bandiera giallorosa degli anni più grami, quest'ultimo) ma anche due attaccanti di straordinaria caratura atletica: Giampaolo Menichelli, romano di Portuense (fratello di Franco, il ginnasta olimpionico), poi ala sinistra nella Juve di Heriberto Herrera, e soprattutto Alberto Orlando, romano anche lui: con un fisico statuario (lo ritrarrà Corrado Cagli e dicono Pier Paolo Pasolini lo volesse in Accattone) Orlando sarà un tipico calciatore di ventura e passerà per molte squadre, senza mai attingere però i risultati che il suo potenziale prometteva.
Selmosson trascorre in giallorosso tre stagioni con un tabellino ancora ottimo, 87 gare di campionato e 30 gol: mentre i laziali si mangiano le mani, l'Olimpico gli decreta speciali ovazioni, il suo nome è osannato e variamente storpiato in dialetto (segno di gloria conclamata: pare che l'adolescente Massimo D'Alema, che pure è difficile associare a simili mitologie, stravedesse per lui e che grazie a lui sia divenuto un tifoso della Roma). Nel novembre del '61 lo svedese, ormai sul viale del tramonto come allora si diceva, torna alla squadra che l'aveva chiamato in Italia nel '54, l'Udinese del giovanissimo Dino Zoff, di Armando Segato, di Canella, Rozzoni e Bonafin; prima di lasciare vi rimane, con alterni risultati, per altri tre anni testimoniandole una fedeltà che non recede nemmeno di fronte alla caduta in serie B. Non è dato sapere che vita abbia fatto successivamente Selmosson. I suoi vecchi compagni di squadra lo ricordano come un uomo disponibile, cortese, naturalmente elegante. (Sì, amava bere, specie i vini bianchi austroungarici conosciuti al suo esordio in Friuli, ma certo non ha mai bevuto nei modi autodistruttivi con cui poteva farlo l'altro fuoriclasse, Nacka Skoglund, morto nel '75 a soli 46 anni, forse suicida). Arne Selmosson si è spento nell'ospedale di Gotene, nei sobborghi di Stoccolma, la mattina del 22 febbraio 2002, esattamente cinque anni fa. E' stato Kurt Hamrin a dare la notizia ai giornali; e così ha voluto salutare per un'ultima volta l'amico che era stato con lui ai Mondiali del '58 e poi per tanto tempo sui campi italiani: «Giocava mezzala. Oggi esterno sinistro. Con lui non ho giocato mai. Contro di lui, sì. Che tipo di giocatore? Lo avessi avuto in squadra, mi sarei messo tranquillamente lassù, davanti, ad aspettare i suoi passaggi».

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