Spunti di riflessioneIl sogno americano da Best a Beckham 
Trenta anni prima di Becks, il quinto Beatles nordirlandese sbarcò a Los Angeles convinto da Elton John. Si sposò a Las Vegas, comprò un bar e vinse il campionato segnando il gol più bello della sua carriera. Prese l'America "seriamente" e tornò a casa senza un cent

Dicono che David Beckham vada a giocare coi Los Angeles Galaxy seguendo il consiglio del suo amico Tom Cruise, e il profumo dei soldi del petroliere Philip Anschutz - un petroliere di destra, noto finanziatore di Bush. Non sappiamo se ci sia di mezzo pure Scientology, ma la compagnia non è delle più confortanti. Però è davvero curioso che esattamente trenta anni fa George Best abbia percorso la stessa strada di Beckham per l'America, e sia sbarcato come lui a Los Angeles. Best e Beckham sono stati idoli del Manchester United. Becks aveva addirittura vestito la stessa maglia numero 7 del "quinto Beatles", come allora veniva soprannominata l'ala nata a Belfast, in Irlanda. Un giorno del febbraio 1976 Best, cacciato dai Red Devils quando cominciava a non poter più nascondere le sue abitudini alcooliche, scese in campo al Coliseum con la bellissima maglia bianco-arancio dei Los Angeles Aztecs. Aveva 29 anni.
Le circostanze furono del tutto diverse. Fu Elton John a convincere Best a giocare nella Nasl, come allora si chiamava la lega professionistica Usa. Lo portò a Los Angeles sul suo aereo privato. Addirittura, il cantante appassionato di calcio e futuro proprietario del Watford, investì molto denaro nella squadra californiana finanziariamente al collasso pur di realizzare l'affare. Va aggiunto che la cosa espose subito Best a parecchie battutine da spogliatoio. Elton «voleva vederlo nudo nella doccia», si legge ancora da qualche parte. Una foto sgranata mostra i due, in campo quel giorno. Il cantante, che allora era al picco della sua carriera (Crocodile rock e Daniel spopolavano nelle hit parade di tutto il mondo), indossa la maglietta degli Aztecs. Palleggia con addosso gli occhialoni enormi e gli zatteroni coi quali si mostrava sempre in giro. «Best - leggo su un sito di fan - avrebbe preferito non essere considerato un partner di Elton, in quei giorni». Bah. 
Non era la prima volta che George Best era stato tentato dal sogno americano. E, di conseguenza, dalle stesse favole che si ripetono da 30 anni: aiutare il soccer a crescere nella patria del basket, del baseball e bla bla. I New York Cosmos, di proprietà della Warner Bros., lo avevano invitato tre anni anni prima a firmare un contratto con loro. Era stato per tre giorni a New York. Aveva partecipato a due conferenze stampa coi dirigenti del club ricchissimo e in procinto di diventare strafigo da tutti i punti di vista. L'accordo economico si trovò alla buona, non disprezzabile per i tempi: 10.000 sterline ad ogni apparizione in campo. Ma senza dire niente a nessuno, Best una sera aveva ripreso l'aereo per l'Europa. «Non ce l'avrei fatta a vivere lì», spiegò anni dopo in una delle sue biografie. E stop. I Cosmos l'anno dopo ebbero in squadra Pelè.
Il fantasma del brasiliano si ripresentò appena Best mise piede a Los Angeles. «Possiamo dire che sei il Pelè bianco?», chiese un giornalista. E lui: «Semmai lui è il Best nero». Erano grandi battutari, i calciatori di una volta. Ma c'è un'altra battuta che riassume una buona parte della vita di Best a Los Angeles. Dice così: «Abitavo in una casa vicino al mare, ma sulla strada c'era un bar. Non ho mai visto il mare». Effettivamente il giocatore prese casa ad Hermosa Beach, in compagnia di un ex calciatore inglese che aveva conosciuto frequentando le sale da gioco. Il bar c'era: si chiamava Hard Times Tavern e qualche anno dopo Best ne diventò il proprietario ribattezzandolo Bestie's. Non si fece mancare nulla. Nelle biografie ricorda spesso le «ragazze sullo skateboard in bikini» che gli ronzavano attorno. «Ti lasciavano un bigliettino con su scritto il numero di telefono, e se non le chiamavi venivano a bussare alla porta». Tra le sue conquiste si contano 7 miss Mondo più una madre e una figlia, insieme, sulla spiaggia.
Best era scapolo, e quello era - parole sue - «il paradiso degli scapoli». Più tardi, a Los Angeles, trovò anche una moglie: un'insegnante di ginnastica inglese, all'epoca personal trainer di Cher. Le cronache di quel matrimonio occupano un altro capitolo della sua trimalcionesca biografia. Fu a Las Vegas, con attorno i compagni di squadra. L'anello, dimenticato a casa, lo fornì uno dei testimoni togliendoselo dal dito. Best perse quello che aveva tutto al casinò e si risvegliò dopo tre giorni nei quali manco sapeva dov'era stato. La moglie lo lasciò di lì a poco. Maliconicamente, quello fu l'inizio della sua fine. «Era come gli ultimi giorni dell'Impero romano», scrisse da qualche parte ricordando quei giorni.
Eppure le statistiche dicono che Best segnò una cinquantina di gol giocando quattro anni e mezzo nel campionato Usa. I Los Angeles Aztecs, con lui in squadra vinsero anche un titolo. Chissà come. «Avevo preso l'America seriamente», amava ricordare. Certo, nemmeno con Best ci fu l'effetto sperato: allo stadio non c'erano mai più di 7-8000 persone (a Los Angeles qualche anno più tardi giocò anche Cruyff). La Nasl di Pelè, Beckenbauer, Moore, Chinaglia fallì nel 1984 avendo infranto a sue spese una delle regole che governa da sempre lo sport professionistico Usa: lo spettacolo sta prima dell'equilibrio tra le squadre, poi possono venire i grandi campioni. Ma di questo Best non aveva colpa. E neppure Beckham, nel caso, l'avrà. Non si dica però che Best andò negli Stati uniti soltanto per i soldi. Indossando la maglia del Fort Lauderdale, nel 1981, segnò quello che molti ritengono il gol più bello della sua carriera: quattro giocatori dribblati e in porta con la palla. Quando rimise piede in Inghilterra non aveva più un cent.

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