Il comunista beneamato
Alla fine degli anni sessanta Augusto Rocchi parava con l'eskimo nelle giovanili dell'Inter. Oggi è il numero uno della nazionale parlamentare
«Da bambino vivevo a Greco, un quartiere periferico di Milano per il quale la storica via Gluck è praticamente in centro. Lì ho cominciato a giocare a pallone come tutti, in un campetto dell'oratorio. Facevo il portiere. Un giorno venne uno della Milanese, una piccola società del Corvetto che gravitava nell'orbita dell'Inter, chiedendomi se volevo andare a giocare con loro. Fu così che nel '65 approdai, tredicenne, in quella che allora era la squadra più forte del mondo: quella del Sarti, Burgnich, Facchetti...». Augusto Rocchi s'abbassa il cappello da baseball sfrangiato, il collo affonda nel cappuccio della felpa. Ripensa al suo passato, a quello che avrebbe potuto essere. Ci sono passioni che, covate per anni nei sogni di ragazzo, rimangono per sempre. Anche se poi le vicende della vita ti impongono altre scelte, costringendoti ad abbandonare, ma mai a dimenticare i vecchi amori.
«Arrivai all'Inter insieme ad altri ragazzi promettenti. Uno di questi era Lele Oriali, che poi finirà per vincere un mondiale da mediano. In quegli anni, però, il mondo stava cambiando. Lo capimmo brutalmente un giorno del 1967. Insieme agli altri compagni di squadra ci trovavamo in piazzale Lotto dove aspettavamo la navetta che ci doveva portare ad Appiano Gentile per gli allenamenti. Improvvisamente sentimmo dei colpi. La banda di Cavallero e Notarnicola aveva scatenato una delle più violente sparatorie che si fossero mai viste. Un mio compagno che veniva dalla Pejo Lorenteggio ebbe un polpaccio trafitto da un proiettile vagante. Ricordo che non poté più giocare ad alti livelli. Fu in quel periodo che dentro di me maturò la passione per qualcosa di ancora più dialettico del calcio: la passione per la politica».
È l'alba del 1968. Augusto Rocchi non vive di solo amore per il calcio. Dentro di sé sente che sta maturando una consapevolezza nuova, la necessità di fare qualcosa anche al di fuori del rettangolo di gioco. Abbraccia il movimento, comincia a frequentare le assemblee e i cortei, partecipa agli scontri. Apre un piccolo circolo della Figc a Greco. In breve diventa un militante dei giovani Pci. Quando gli offrono la poltrona di segretario milanese, ecco che si pone la scelta tra due mondi allora distanti migliaia di chilometri: la politica o il calcio, Greco o Appiano, la Figc o l'Inter, la leadership democratica di Massimo D'Alema o quella organica, bordighiana, del mago Helenio Herrera. «La verità è che io agli allenamenti ho sempre preferito le manifestazioni. Anche perché allora la vita politica prendeva molto tempo ed era davvero totalizzante. Non si poteva essere una cosa da una parte e una dall'altra. Così cominciai a presentarmi alla Pinetina con l'Eskimo e l'Unità sotto braccio. Poi saltai un paio di allenamenti perché ero stato arrestato durante alcuni scontri. Qualche dirigente mi fece capire che la cosa non era gradita. Era l'Inter di Angelo Moratti, sì, ma anche quella in cui Servello (missino, n.d.r.)
sedeva nel consiglio di amministrazione. Certe prese di posizioni non erano tollerate. Così feci la mia scelta. Andai a Roma per lavorare nella segreteria nazionale presieduta da D'Alema. Poi tornai al nord per diventare il segretario prima della Fiom Brianza e dopo della Fiom Milano. Trent'anni di militanza nella Cgil. Infine segretario di Rifondazione a Milano. Fino all'elezione, quest'anno, al parlamento della Repubblica».
Calma, calma, non corriamo. Il cursus honorum è importante, certo, ma a noi preme soprattutto il rapporto tra politica e calcio. Capire cosa li renda simili, appassionanti, eppure inconciliabili. Perché, una volta prese queste brutte malattie, non ce ne si liberi più.
«Facendo politica non si dimentica il calcio perché il calcio non si dimentica mai. Io infatti non ho mai appeso i guanti al chiodo, ma ho sempre continuato a giocare, nonostante le lotte, le assemblee, gli scioperi». Oggi, un politico che fa anche il portiere andrebbe su tutte le prime pagine dei giornali, alimentando chissà quali polemiche. Ma allora il calcio non era ancora un moltiplicatore della fama come oggi, non era una passione che si poteva sbandierare in campagna elettorale.
«Io ho cercato di mantenere l'amore per il calcio nei limiti che l'attività politica, intensa e totalizzante come era una volta, mi permetteva. Negli anni '80 mi occupavo di lavoro a Sesto San Giovanni ed era l'epoca delle ristrutturazioni. Difficile trovare due serate alla settimana per allenarsi. Ciò nonostante non ho smesso di giocare ad alti livelli, e nella Rhodense avrei giocato per molte stagioni se non fossimo arrivati quasi in C1, dove scattava il semi-professionismo. Io, da politico, non potevo ricevere denaro dallo sport. Ancora una volta la politica mi divideva dal calcio. Ma ho continuato a giocare. Dopo il G8 a Genova ho cominciato a parare per l'Associazione Salah, con la quale abbiamo vinto il torneo dei centri sociali a Milano. Questa associazione utilizza il calcio per portare messaggi di pace ed è andata a giocare fino a Gaza e in Palestina».
Ma è solo a Montecitorio che Augusto Rocchi, il portiere che ha dovuto abbandonare il pallone per amore della politica, ha la sua rivincita calcistica, diventando il titolare di una vera Nazionale.
«Certo, non me lo aspettavo. Appena arrivo in Parlamento salta fuori il mio passato calcistico. Vengo immediatamente contattato dalla Nazionale parlamentari e comincio gli allenamenti. La squadra è stata inventata da Cirino Pomicino per fare beneficenza. Ora non ci sono più campioni come Gianni Rivera e Massimo Mauro, ma devo dire che siamo molto seri. Ci alleniamo al campo della Cecchignola, ogni martedì sera, per due ore, accada quel che accada». Anche se c'è la Champions League in tv?
«Sì, sempre, siamo molto competitivi. Manlio Contento di An è il capitano, Felice Casson, forse perché ex magistrato, non gioca libero ma stopper, poi c'è Gioacchino Alfano di Forza Italia, che è presidente, e Salvatore Buglio della Rosa nel Pugno. Tutto l'arco costituzionale è rappresentato. Ci siamo impartiti un solo ordine di squadra: non parlare mai di politica. Di calcio, invece, parliamo, scontrandoci non poco». Anche perché da qualche tempo in Parlamento si è instaurata una nuova forma di consociativismo. Praticamente gruppi parlamentari trasversali.
«Sono i club di tifosi onorevoli. Ce ne sono della Juventus, del Milan, della Roma; io ovviamente sono iscritto all'Inter Club. Con orgoglio posso dire che la maggioranza di Rifondazione alla camera è iscritta all'Inter Club. Anche Ali Rashid è iscritto. Certo, ne fa parte anche Ignazio La Russa ma il club è costituito per la maggioranza di onorevoli e senatori del centrosinistra. Con grande dispiacere del nostro capogruppo alla camera, Gennaro Migliore, che vorrebbe fondare i 'napoletani-marxisti' ma non trova seguaci. Gli scontri accesi sono soprattutto con gli juventini dell'avvocato Pani di Forza Italia, ai quali non è andata giù l'estate di Calciopoli. Ma anche i romanisti, capitanati dal verde Cento, detto 'er Piotta di Montecitorio', sono belli tosti».
Quindi, oltre al calcio giocato anche quello tifato resta per sempre? «Certo, l'Inter non si abbandona mai. Oltre alla tessera del club di Montecitorio, ho anche quella degli 'interisti-leninisti' di Ravenna, che hanno coniato i motti
'Massimo Moratti minimo Berlusconi' e
'Ogni rivoluzione inizia nella propria area di rigore e finisce in quella
avversaria'. Poi ho quella del Social Club di Milano, l'unico gruppo di tifosi attivo a San Siro che si può dire sia davvero internazionalista».
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