Spunti di riflessioneIl calcio spensierato di Mister Patarca 
Per 24 anni ha allevato giovani calciatori, insegnando loro a volare col pallone e con l'istinto. Scaricato dalla Lazio, Volfango Patarca ha deciso di portare i suoi insegnamenti fino in Algeria

Farà l'emigrante di lusso nel Maghreb. «Ho ricevuto interessanti proposte dalla Federcalcio algerina. Qualcuno che mi stima ha parlato bene di me e del lavoro fatto coi giovani: lì vogliono lanciare nuovi Zidane». Per Volfango Patarca, vecchio scopritore di talenti calcistici, la vita prosegue oltre la Lazio. «Ci mancherebbe altro, sono uno che non s'arrende e detesto l'ingiustizia. So quello che valgo e per me parlano i fatti». I fatti per Patarca si chiamano Nesta, Di Biagio, Di Canio, Di Vaio e con loro volti e piedi meno noti sparsi per l'Italia. «Sono centinaia i giovani calciatori che ho avviato e fatto crescere fra i professionisti e i dilettanti. Il presidente Lotito m'ha rimpiazzato con un generale in pensione e gli chauffeur delle sue ditte che il calcio forse, e sottolineo forse, lo vedono in tivù». Patarca nel club biancoceleste era un'istituzione, patrocinava la scuola calcio dal 1980, una delle ultime gestioni Lenzini. Era passato attraverso i travagli e i fasti della società nelle presidenze dei Casoni, Chinaglia, Calleri, Cagnotti. Quello che fra alti e bassi sempre funzionava a Tor di Quinto come a Formello era la scuola dove lui svezzava i pargoli. Qualche anno fa scrisse un libro che si intitolava Sulle ali del calcio. Il succo era racchiuso in una frase. «Quando cammino sui campi erbosi rallento sempre il passo, perché so di camminare sui sogni di molti ragazzi». La lezione è sempre valida. «Un buon insegnante - ribadisce oggi - deve lasciare spazio alla creatività e all'istinto del bambino senza tarpargli le ali. Io facevo lavorare anche i talentuosi come Nesta puntando tutto sulla tecnica senza soffocarli di tatticismi che arriveranno più tardi. Invece in certe scuole calcio vedo allenatori infoiati ordinare: 'Dai la palla, fermati, vai a destra, guarda avanti'. Dietro la rete i genitori: 'Dribbla, corri, vai a sinistra, punta dietro'. Da noi non volava una mosca, se un genitore parlava il ragazzo veniva sostituito. Non per ripicca, per stabilire delle regole. Poi c'erano momenti in cui si discuteva e si lavorava sugli errori di ciascuno. Ma nel rispetto dei ruoli».
Nella sua furia di "rilancio" societario, Lotito ha deciso che si poteva fare a meno di lui. «Non sopporto i prepotenti e gli incompetenti. Lotito racchiude entrambe le qualità, così ho deciso d'interrompere la coabitazione. E' stata una scelta sofferta, un taglio a ventiquattr'anni di vita biancoceleste». Aveva iniziato come calciatore-bambino col Borgo Don Bosco, Patarca, fra il Quarticciolo e Centocelle dov'era riparato con la famiglia nel dopoguerra. L'esplosione agonistica con la Tevere Roma dal '59 al '63, mezz'ala sinistra, ottima tecnica come Picchio De Sisti col quale rivaleggiava. Lo mandarono a farsi le ossa ad Alatri, poi Lecce. Il tempo passava. «Guadagnavo in serie D 250mila lire mensili quando uno stipendio d'un impiegato era di 60mila. Certo la serie A sarebbe stato altro per conto in banca e soprattutto per la vetrina offerta. Scalpitavo, soffrivo le attese lunghe. Giunsero incomprensioni e alcune ribellioni per stipendi non pagati, forse sbagliavo ma il mio carattere non sopporta i soprusi». Così i più o meno coetanei Merlo, Juliano, Montefusco, Bertini arrivarono, lui no. «Non dico che non fossero dotati, ci mancherebbe, però nel nostro mondo non ti vengono perdonate schiettezza e determinazione. Inoltre mai mettersi contro il Palazzo. Prendiamo Rivera quando denunciò la sudditanza psicologica degli arbitri era già famosissimo. Eppure fu colpito, squalificato a lungo, la sua emarginazione come dirigente nel mondo del pallone parte da lì». L'accusa al sistema calcio è circostanziata e travalica la vicenda Lotito. «Purtroppo il nostro ambiente peggiora, io non sono un figlio ingrato, non sputo nel piatto dove mangio ma sin da giovane ho imparato a offrire rispetto e a pretenderlo. Invece l'ambiente si riempie di furbi e pressappochisti, di padri-padroni che promuovono personaggi senz'arte né parte. Cosa imparano i ragazzi nelle scuole calcio da tramvieri allenatori a tempo perso o da insegnanti Isef che non hanno mai toccato un pallone? Come si fa a puntare sul fondo atletico a nove anni tralasciando la tecnica individuale che è l'abbecedario del futuro calciatore? Oggi in club anche di rango accade questo ed è una sciagura. C'è chi applica verso i piccini metodi da adulti, ho visto bambini di dieci anni subire lezioni di tattica di tre quarti d'ora. E sbadigliare dalla noia. Così si uccide la loro voglia di divertirsi. Lasciateli giocare, dribblare, correre, sorridere».
Secondo Patarca altre figure che mandano in tilt il sistema sono i procuratori. «Gente senza scrupoli, faccendieri, speculatori. Uso termini duri e me ne assumo le responsabilità. E denuncio pratiche diffusissime di cui i personaggi di Calciopoli sono solo gli esempi più illustri. Nei settori giovanili purtroppo tante componenti del nostro mondo - presidenti, diesse, allenatori, genitori - accettano il suggerimento-ricatto dei procuratori che, curando gli interessi di alcuni giovani e cercando di sfruttarne le potenzialità, fanno di tutto per perorarne le cause al di là di oggettive qualità. Si crea un mercato di protezione che non sempre premia i più bravi e aggiunge la contraddizione di metter fuori gioco la meritocrazia. L'aspetto economico sotterra ogni altro intento sportivo. La salute, il divertimento, l'educazione non contano più nulla». Un mondo malato senza possibilità di riscatto? «Per natura non sono pessimista, però occorrerebbe un assoluto cambio di rotta che all'orizzonte non si vede affatto. Vige la prassi del tirare a campare, gli onesti devono chinare la testa o subire l'emarginazione. Non posso spiegarmi come gioielli frutto di anni di lavoro vengano lasciati andar via. Nella Lazio ultimamente è accaduto ad Angeletti convocato nella nazionale under 20 dopo che la società inspiegabilmente l'ha lasciato libero ed è finito al Lanciano. Prima era accaduto ad altre promesse che s'erano fregiate del tricolore Primavera: Minieri e Boccolini finiti ad Ascoli, Domizi a Napoli, Pisano a Palermo, Pinzi a Udine. Tutto questo ha logiche oscure che travalicano gli interessi di club. Prendiamo il derby di domani: la Lazio, che nel 2001 battè proprio i cugini fregiandosi dello scudetto tra i ragazzi di quindici-sedici anni, non riesce a schierare uno dei suoi campioncini. Dove sono finiti? Chi ha dilapidato quel patrimonio? La Roma invece manda in campo i suoi ragazzi e ha sei romani che giocano in prima squadra. Tutto questo è splendido per la società, per gli atleti e per la tifoseria».

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