Pizzaballa, l'acrobata della figurina mancante
La figurina numero uno, i mondiali del '66, le sfide con Hamrin e la compromettente intervista su Sofia Loren. Segreti e ricordi del portiere più ricercato sugli album Panini, che oggi fa volontariato e insegna calcio
Cèlo, cèlo, manca. Sono state le figurine Panini, cui chiunque ami il calcio non può che essere eternamente debitore, a fornire ai giocatori una faccia stabilmente riconoscibile, una piccola biografia personale e un valore di scambio indipendente dalla diversa bravura pedatoria. Anche un carneade poteva diventare un mito nel grande mercato della fantasia fanciullesca. Perché a forza di cèlo, cèlo, manca, il prezzo di quei piccoli rettangolini di carta mutava secondo l'andamento della domanda e dell'offerta, come si conviene al più chiuso modello di microeconomia. Poi è arrivato Pierluigi Pizzaballa da Bergamo, mestiere massimo difensore, soprannome "angelo biondo". La sua figurina, coi colori falsi su una faccia antica, per anni è stata la più rara dell'album, praticamente introvabile. Strana sorte la vita di Pizzaballa. Numero uno dell'Atalanta, vale a dire la prima squadra in ordine alfabetico della serie A, numero uno dell'album Panini, numero uno nelle ricerche spasmodiche dei bambini. Che smacco per chi "faceva l'album" vedere il buco proprio sullo spazio del primo giocatore. Cèlo, cèlo, manca. Ma a mancare era sempre lui. L'acrobata.
22 anni di calcio, 16 di serie A, eppure essere ricordato solo per una figurina non è un cruccio per il "Ligi", come ancora lo chiamano i numerosi fratelli e la moglie Luci. Lui, discepolo del grande Carlo Ceresoli, lui, che nel 63'-64' aveva vinto il premio Combi, di questi illustri predecessori ha l'aplomb del vecchio saggio, da filosofo del calcio. Oggi ha 67 anni e ci svela, dopo tanto tempo, il segreto di quel mito.
«C'è un motivo di quella rarità», dice serafico.
«In quei tempi non è che i fotografi venissero ai campi tutti i giorni. Venivano a inizio stagione e poi a metà. Capitò che un paio di volte non mi trovassero. Una volta ero infortunato, un'altra ero militare. Poi non so se la Panini ci marciò sopra per scopi commerciali. Fatto sta che a fine stagione la mia figurina era la più richiesta alla casa editrice».
Fu così che nacque il mito di Pizzaballa. Per questo il suo nome ancora oggi è ricordato. Su e-bay la sua figurina è battuta a 11 euro. «Non nascondo che mi fa un certo piacere. Soprattutto per i più giovani che grazie alle vecchie collezioni hanno modo di ricordare giocatori che altrimenti verrebbero dimenticati. Ma sia ben chiaro che io non ero solo la figurina mancante. Sono stato in nazionale, convocato per l'infausta trasferta in Inghilterra nel 66». Certo, Londra, i Beatles, i capelli lunghi, la ribellione. E una moglie a casa che aspetta preoccupata.
«No, no, si sbaglia. Noi quella trasferta l'abbiamo vissuta come dei collegiali allo sbaraglio. Un po' perché una volta i ritiri erano molto più rigidi, un po' perché per uno come me che veniva dalla provincia non era facile percepire il cambiamento che era in atto». Ma è vero o no che ci fu il guaio dell'intervista?
«Ci fu quel giornalista. Mi chiese che attrice mi piaceva. Risposi la Loren. Io intendevo come attrice, lui scrisse come donna. Apriti cielo. Mia moglie si arrabbiò talmente che mi voleva lasciare. La chiamai immediatamente per chiarirmi. L'amore è fatto così. E non è un caso che ancora oggi siamo sposati».
L'incubo di una carriera si chiama invece Kurt Hamrin, che una volta rifilò a Pizzaballa una storica quintupletta in un 7-1 con la Fiorentina.
«Da quel giorno ogni volta che mi vedeva mi salutava con la mano ben distesa. Era un bel peperino, Hamrin, ma anche un grande giocatore. Agile e furbo, viveva sui mezzi rimpalli, con un grande senso della posizione e dello smarcamento, uno dei più abili a giocare negli ultimi 7-8 metri, nei quali arrivava dopo un lungo lavoro sulla fascia. Comunque è capitato a tutti i portieri di prendere sette gol. A me è capitato anche di prenderne tre in dieci minuti. Era un derby contro l'Inter: pim pum pam e andiamo sotto. Finì 5-1». Il Milan di allora non doveva avere un gran bel ricordo di Pizzaballa. La stagione prima gli aveva fatto davvero un bello scherzetto. «Al Milan ero arrivato timidamente perché l'anno prima, quando giocavo nel Verona, fui protagonista della sconfitta che ai rossoneri costò lo scudetto della stella. Fatal Verona la chiamarono. La realtà è che pensavano di aver già vinto. E invece vincemmo noi. Nel calcio non si deve mai dare niente per scontato». Ma a un altro record l'ex portiere tiene particolarmente.
«Certo, quello dei due rigori parati in un minuto. Penso sia difficile che ricapiti, queste sono le casualità del calcio che poi si tramandano e diventano storia. Eravamo a Firenze. De Sisti calcia un rigore e io gli blocco la sfera. La rilancio il più lontano possibile ma in un attimo me la ritrovo in area. Ancora fallo, ancora Picchio che si presenta dal dischetto. Forse non avrebbe dovuto: ricordo come fosse ieri le sue mani sui capelli quando gli respinsi la palla».
Una carriera lunga, quella di Pizzaballa: Atalanta, Roma, Verona, Milan, ancora Atalanta. Sempre accompagnato da grandi allenatori. Suo maestro fu Carlo Ceresoli, grande portiere della Nazionale di Pozzo, eroe ad Highbury nel '34, il primo a insegnargli che non c'era tiro imparabile, che un attaccante poteva fregare un portiere ben allenato solo sulla velocità, perché con un buon posizionamento si poteva coprire tutto lo specchio della porta. Altri allenatori gli sono rimasti nel cuore.
«Ho cominciato con Adamek a Bergamo. È stato il primo ad adottare un sistema di allenamenti basati sulla rapidità. Ma senz'altro il più innovativo è stato Helenio Herrera che ho avuto alla Roma. Oggi si parla tanto di pressing, ma il primo a introdurre un sistema del genere è stato lui. Lo chiamava tacalabala. Si dovevano aggredire gli avversari non singolarmente, ma in tre, quattro insieme, muovendosi come un tutt'uno per impedire loro di cominciare l'azione. Rubare palla per ripartire. Oggi si utilizza la zona, la difesa in linea, però tutto è cominciato con quel concetto di portare la squadra a giocare a tutto campo, coprendo gli spazi, con uomini abili a fare il contropiede. Cambiano i nomi alle cose ma di fatto non cambia mai molto».
Il calcio è cambiato, non in campo ma fuori. Dopo tanti anni come dirigente del settore giovanile dell'Atalanta, la società affiancò a Pizzaballa un altro dirigente. Uno di quelli che al Ligi non piacevano. O lui o me, disse alla società. Da allora lavora per una piccola società bergamasca. Fa volontariato, come dice lui. Insegnando ai giovani il calcio come valore e non come mezzo di arricchimento.
«A cambiare nel calcio è stato il giro di denaro, gli interessi economici. Una volta i dirigenti, gli allenatori, gli addetti ai lavori erano motivati dalla passione. Oggi no. Le persone oneste pian pianino sono state allontanate. Calciopoli non è stato altro che il risultato di questa epurazione. Per questo ho vissuto molto male lo scandalo, anche se non posso certo dire che non me l'aspettassi. Un altro problema è la televisione, che in Italia è diventata troppo ingombrante. Dopo ogni partita stanno lì a parlare per ore, facendo vedere moviole su moviole. Ora le vogliono mettere anche in campo. Così si deresponsabilizza chi deve prendere le decisioni senza risolvere i problemi. Il calcio è stato inventato così e io non vedo perché lo si debba cambiare». Il campo è sempre quello. Le figurine, pure. Intorno, però, pare che tutto cambi velocemente. Cèlo, cèlo, manca.
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