Addio Facchetti, terzino gentiluomo
E' morto ieri Giacinto Facchetti, bandiera nerazzurra. Aveva 64 anni e un male incurabile. Il gigante di Treviglio è stato il primo difensore fluidificante, un'invenzione di Helenio Herrera
Il primo grande difensore fluidificante dell'era moderna se n'è andato sulla fascia laterale dei sogni. Portandosi le 94 partite giocate in maglia azzurra, i tanti gol realizzati (59 solo in serie A), gli scudetti, le due coppe dei campioni e tutta una carriera, altrettanto leale e signorile, da dirigente.
«Giacinto Facchetti ci ha lasciato troppo velocemente per non confondere, in questi attimi, il dolore e la rabbia, il senso d'ingiustizia e la preghiera. Ci ha lasciato dopo aver giocato, con determinazione e stile, l'ultima partita. Spinto nel campo del dolore da un destino nascosto, improvviso, bastardo- così era scritto ieri sul sito dell'Inter- L'atleta, nella testa e non solo nel fisico, nella morale e nei riti di una vita quotidiana all'insegna della lealtà e dello sport, ha lasciato il posto all'uomo di 64 anni sorpreso, colpito, ferito, ma non vinto. Ha stretto i denti, ha combattuto sorretto dall'affetto dei suoi cari, di Massimo Moratti, di tutta l'Inter e di tutti gli interisti, mai abbandonato dal campionato infinito di amici che aveva, che ha, che lascia attoniti, storditi, in Italia e nel mondo». Malato seriamente da tempo, Giacinto Facchetti, il gigante buono, la bandiera nerazzurra per eccellenza, il menalatte secondo la felice espressione breriana, era voluto rimanere fuori dalle complicità pelose e dagli schizzi di fango di Moggiopoli, senza mai reagire alle tante contumelie.
Era fatto di un'altra pasta e doveva evidentemente trovarsi a disagio nel calcio, eccessivo e clientelare, d'oggi. Nato a Treviglio, provincia di Bergamo il 18 luglio 1942, figlio di ferroviere e casalinga, arrivato a 16 anni nelle giovanili dell'Inter (ma venne scartato al primo provino e solo a novembre riuscì ad entrare nel club nerazzurro). Alla Treviglianese giocava da attaccante, il mago Helenio Herrera ne intuì le potenzialità e lo fece debuttare in prima squadra in Coppa delle Fiere, Birmingham-Inter 3-1, trasformandolo in difensore laterale. In campionato il 21 maggio 1961 in Roma-Inter 0-2. E lo spilungone lo ripagò col suo primo gol, la domenica successiva, sbloccando la partita col Napoli, finita 3-0. Da allora in poi il terzino che galoppava in attacco (con licenza di crossare e segnare) divenne uno dei tratti distintivi della grande Inter, quella dell'inevitabile Sarti, Burgnich, Facchetti (e poi Zaglio, Guarnieri, Picchi, Jair, Mazzola, Di Giacomo, Suarez, Corso nello scudetto vinto nel 1963dove in porta c'era però Bugatti. Con Tagnin, Domenghini e Peirò in quello del 1965, in mezzo quello perso nello spareggio col Bologna. E ancora scudetto nel 1966, l'anno magico quando, per la prima volta, a Milano contro l'Urss, indossa la fascia di capitano della nazionale. Fu, per anni,il capitano-simbolo dell'Italia. Per quelle sue doti di serietà, forza, correttezza, talento che rappresentavano la faccia pulita del paese lanciato sulla strada dell'industrializzazione e del benessere (Facchetti fu anche il capitano degli azzurri campioni d'Europa, a Roma, nel 1968) ma conservando le virtù e gli ideali antichi. Il galant homme, il ragazzo dell'oratorio, il giocatore dall'eleganza naturale, dalla forza possente, dalla generosità innata. Giacinto rappresentava quell'identità, individuale e collettiva. Nei suoi gesti agonistici, un biografo ha visto la
«masochistica correttezza di difensore» che era un modo di essere Italia nel mondo.
Sul campo Facchetti, nel 1967, conobbe l'altra grande pagina amara della sua carriera, questa volta con la maglia dell'Inter: dopo la gloria degli scudetti ('63,'65,'66, cui si aggiungerà quello del '71), delle Coppe dei Campioni ('64 e '65) e delle Coppe Intercontinentali ('64 e '65), la disfatta di Mantova, con il portiere Sarti che prende a testate un palo della porta per quel titolo perso all'ultima giornata. E nel 1970, in Messico, sarà lui il capitano della partita più famosa e amata della storia del calcio italiano, quell' Italia-Germania 4-3 così presente nel sentimento degli italiani da essere diventata un modo di dire. Saluta il campo a 36 anni, il 7 maggio '78 in Inter-Foggia 2-1 con un autogol: quasi una beffa del destino per il terzino goleador che aveva collezionato 475 partite in serie A con 59 gol (634 in totale con 75 gol), tutto con la maglia nerazzurra. E chiuse la carriera con la Nazionale come capitano non giocatore nel 1978. Dopo una brevissima parentesi di 9 mesi da vicepresidente dell'Atalanta nel 1980 (sempre i colori nerazzurri), Giacinto rientrò in orbita Inter come dirigente nel 1985 con Pellegrini. Dieci anni dopo arriva Massimo Moratti: il simbolo è sempre al suo fianco, nel novembre 2001 diventa vicepresidente, soffre per il 5 maggio e dal gennaio 2004 è la bandiera del club. Miglior persona non si poteva trovare come 19° presidente dell'Inter, miglior carriera nerazzurra non poteva capitare al "Cipe", come lo chiamava il Mago Herrera dopo che Buffon gli aveva storpiato il cognome in "Cipelletti" nel '60.
E così lo ricorda Massimo Moratti sul sito internet. «Caro Cipe, non sono riuscito a dirti quello che volevo, per paura di farti capire che il tempo era inesorabile e la malattia terribile. Scusami, ma credo che ti debba ringraziare soprattutto per la pazienza che hai sempre avuto con me. Per i tuoi occhi che sorridevano, fino alla fine, ai miei entusiasmi o all'ironia con cui cercavo di superare insieme a te momenti difficili. Pochi giorni fa, pochissimi, mi parlavi con un filo di voce - e con l'espressione di chi ti vuole bene - dell'Inter, proiettando il tuo pensiero in un futuro che andava oltre le nostre povere, ignoranti, possibilità umane. Qualche mese fa ti chiedevo un po' scherzando un po' sul serio come mai non riuscivamo ad avere un arbitro amico, tanto da sentirci almeno una volta protetti, e tu, con uno sguardo fra il dolce e il severo, mi rispondesti che questa cosa non potevo chiedertela, non ne eri capace. Fantastico. Non ne era capace la tua grande dignità, non ne era capace la tua naturale onestà, la sportività; intatta dal primo giorno che entrasti nell'Inter, con Herrera che ti chiamò Cipelletti, sbagliandosi, e da allora, tutti noi ti chiamiamo Cipe. Dolce, intelligente, coraggioso, riservato, lontano da ogni reazione volgare. Grazie ancora di aver onorato l'Inter, e con lei tutti noi». di Flaviano De Luca
Un grazie di tutto cuore
«Un uomo buono, campione nello sport ma soprattutto nella vita». Così monsignor Merisi ha ricordato l'amico Giacinto Facchetti, la bandiera nerazzurra ma pure l'atleta esemplare. Circa diecimila persone ieri pomeriggio a Milano hanno partecipato al funerale
«È stato un uomo buono, campione nello sport ma soprattutto nella vita». In questo passaggio dell'omelia funebre celebrata da monsignor Merisi, amico d'infanzia di Giacinto Facchetti, è racchiuso il senso della vita del presidente dell'Inter. Poche parole che spiegano per esempio perché più di 10 mila persone, in larga maggioranza gente comune, ieri hanno sentito il bisogno di scendere in piazza per tributare un ultimo sentito saluto all'uomo buono Facchetti (peccato che i vertici Rai così impegnati nel giro di poltrone non abbiano capito la statura morale dell'uomo, la sua appartenenza popolare, l'essere ormai un campione di tutti dando in diretta televisiva l'estremo saluto). Il lungo abbraccio di Milano al suo campione è cominciato a metà mattina, quando poco dopo le 11 è stato aperto il portone della Cappella San Sigismondo, dove la famiglia aveva fatto allestire una camera ardente pubblica. All'interno, ben visibili, due grandi foto di Facchetti: una in bianco e nero, l'altra a colori con una cornice nerazzurra. Ai lati del feretro, invece, erano in bella mostra due maglie da calcio indossate dal presidente nerazzurro: una dell'Inter degli Anni 60, l'altra della Nazionale.
Tantissime le vecchie glorie del calcio arrivate da ogni parte del mondo: Cesare Maldini e
"Spillo" Altobelli, Giancarlo Antognoni, Michel Platini e Rumenigge, ma anche la vedova Fraizzoli (moglie dell'ex presidente dell'Inter degli Anni 80), Franco Baresi, Josè Altafini e Armando Cossutta, che si mischiano a rappresentanti delle istituzioni, agli ultras, ai tanti curiosi:
«Da molti anni - è stato il ricordo del senatore comunista -
Giacinto mi telefonava per il mio compleanno. Questa volta non ci è riuscito, si è spento proprio il giorno della mia festa». Fuori la chiesa, il picchetto d'onore delle giovanili dell'Inter, ragazzi che non l'hanno mai visto giocare ma fortemente emozionati. E le parole del presidente del Consiglio Romani Prodi («La scomparsa di Facchetti è un dolore per l'Italia intera»), introducono quelle di Manfredi Palmeri, presidente del consiglio comunale di Milano che si è fatto promotore di un'iniziativa per una possibile tumulazione di Facchetti nel Famedio, parte del cimitero monumentale di Milano riservata ai personaggi che hanno reso illustre la città. Alla funzione, celebrata nella basilica di Sant'Ambrogio, oltre ovviamente all'Inter con il testa il patron Massimo Moratti, erano presenti un pò tutti i rappresentanti del calcio italiano: dall'amministratore delegato del Milan Adriano Galliani, al presidente della Juventus Giovanni Cobolli Gigli, all'ad della Roma, Rosella Sensi, ai fratelli Diego e Andrea Della Valle, al commissario straordinario della Federcalcio, Guido Rossi.
I funerali di Giacinto Facchetti si sono conclusi con le parole del figlio Gianfelice, che ha citato un passo tratto da
"Fahrenheit 451" di Ray Bradbury. «Ognuno deve lasciarsi qualcosa dietro quando muore, diceva sempre mio nonno -ha detto il figlio del presidente dell'Inter scomparso due giorne fa-
un bimbo o un libro o un quadro o una casa o un muro eretto con le proprie mani o un paio di scarpe cucite da noi. O un giardino piantato col nostro sudore. Qualche cosa insomma che la nostra mano abbia toccato in modo che la nostra anima abbia dove andare quando moriamo, e quando la gente guarderà l'albero o il fiore che abbiamo piantato noi saremo là». «Non ha importanza -ha aggiunto Gianfelice Facchetti-
quello che si fa, diceva mio nonno, purchè si cambi qualche cosa da ciò che era prima in qualcos'altro che porti poi la nostra impronta. La differenza tra l'uomo che si limita a tosare un prato e un vero giardiniere sta nel tocco, diceva. Quello che sega il fieno poteva anche non esserci stato, su quel prato; ma il vero giardiniere vi resterà per tutta la vita».
All'uscita della basilica di Sant'Ambrogio i tifosi della curva nord hanno aspettato il loro presidente per l'ultimo saluto. Quando il feretro è uscito, fra bandiere nerazzurre che sventolavano, il sagrato della Basilica romanica si è trasformato in un pezzo di stadio, con i cori, i battimani ritmati, le bandiere della sua Inter. L'ultimo saluto è stato al grido di un capitano, c'è solo un capitano e Giacinto facci un goal, ricalcata sulle note di When the saints go marching in, la popolare canzone gospel.
Quel terzino gigante in bianconero
Ma come si fa a dare l'addio a Giacinto Facchetti? Persone così sono una perdita secca per molti, ma nel caso di Facchetti è un'intera generazione a trovarsi di colpo con ricordi a brandelli. E' la generazione Inter, nata sul finire dei '50 o giù di lì, cresciuta a pane e scudetti nerazzurri e sparpagliata nella penisola calcistica - chi l'aveva vista allora, Milano? chi sapeva di quel tifo sanbabilino nazista e basta? - che si innamora di una squadra ... bianconera solo per la televisione di quegli anni. Ci vuole l'album Panini per dipingere il vero colore di Facchetti e dei suoi compagni, e Jair e Corso e Mazzola, andiamo random per facce e gambe, mai imparata a memoria la celebre cantilena Sarti Burgnich e...
E' la Coppa Intercontinentale di cui si impossessano i nostri che ci fa sognare grandi viaggi quando porteremo i pantaloni lunghi, è la Coppa dei Campioni da lui afferrata che ci dipinge bello, bellissimo il calcio di allora e forse da allora per sempre. Per questa generazione, Facchetti in bianconero era il giocatore più alto del mondo, il gigante buono di noi bambini, l'unico che nelle telecronache ci facesse competere alla pari con i lunghi tedeschi e del nord Europa. E quanto sembrava correre (accidenti a noi abituati ai piccoletti da stendere ogni tanto) leggero e velocissimo dentro la tv e lontani da San Siro, con quel 3 cucito sulla maglia, un numero impossibile da ritrovare fra i ragazzini con un pallone per strada (un tempo si giocava sempre per strada, o al campetto), se non appunto su una maglietta interista, nerazzurra o bianca con la striscia bicolore che fosse. Terzino, chi giocava terzino se non perché ti ci mandavano i più grandi, già il 3.
Al liceo, al nostro liceo Facchetti è ancora lì e con la maturità non lo perdiamo più, anche se non è uno che andrà in televisione seppure ormai a colori, a farsi vedere, a commentare, nell'unico bar sport che non chiude mai. Spento tutto con il telecomando, lo ritroviamo al fianco di Massimo Moratti, altra bella statura d'uomo. Facchetti è il dirigente dell'Inter cui una generazione non avrebbe osato sperare, la partita perfetta, ma c'è stato, c'è e perché mai bisogna dirgli addio. di Francesco Paternò
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