Spunti di riflessioneQuando l'arbitro sogna il potere 
Cinque anni fa il regista Stefano Mordini girò un documentario sul discusso microcosmo dei fischietti italiani. In controluce c'erano già i privilegi e i rapporti equivoci scoperchiati poi da Calciopoli. Un mondo di ambizione e deferenza dove la regola era restare allineati

Che non tutti gli arbitri fossero uguali davanti alla legge, il regista Stefano Mordini lo aveva intuito da tempo. Nel 2001, per girare un documentario su di loro, li frequentò per sette mesi. Arbitri divenne un film della durata di un'ora, un viaggio nel mondo fino ad allora afono, di chi con un semplice fischio può determinare il destino finale di un campionato, incoraggiare interessi, far disperare mandrie di tifosi. A 5 anni di distanza, nell'estate dei processi sportivi, delle condanne morbide e della rapida brama di restaurazione, le decine di ore di materiale accumulate da Mordini durante l'arco del suo lavoro, assumono oggi un'importanza nuova, fornendo un'esaustiva chiave di lettura di un microcosmo di privilegio esclusivamente maschile in cui a godere sono una trentina di miracolati evasi dalle pastoie di un rigidissimo meccanismo di selezione e a soffrire gli altri trentamila. Mordini si è mosso con abilità in questo recinto chiuso, restituendo la fotografia di un universo militaresco in cui la brutalità del rito d'iniziazione, per chi si affaccia alla professione, è la norma. «Noi abbiamo l'abitudine di dire a un arbitro che cresce nel giorno in cui prende le botte», afferma sicuro Raffaele Esposito, reclutatore di novizi a Napoli. Non si concede tenerezze nemmeno Roberto Armienti, omologo della sezione AIA di Bologna, quando catechizzando un arbitro dal carattere mite, con toni da Full Metal Jacket, gli suggerisce la condotta futura: «Bisogna che lo guardi in faccia il giocatore, per dirgli che è un coglione», e incerto di averlo persuaso, rincara la dose a favore di telecamera: «Hai questi problemi perché ti mancano gli attributi».
C'è cameratismo e smania di autoaffermazione fin dal princìpio. Un quindicenne aspirante napoletano, al corso arbitri della sua città, la sintetizza così : «Perché voglio fare l'arbitro? Per esprimere un'autorità». Arrivare in alto è complicato, cadere è facilissimo. Alla fine la spinta ad andare avanti è di carattere economico. Per rischiare gli zigomi fronteggiando giovanissimi bulli in un campo di periferia, il rimborso equivale a una pizza e a una birra, ma se si sale di categoria, attraverso le forche caudine delle serie inferiori, possono spalancarsi scenari invitanti. Il professionismo è una luce fioca ma il miraggio di qualche migliaio di euro, premio per chi arriva ad arbitrare nella massima categoria, è una motivazione sufficiente per inseguirla. La serie A è infatti raccontata da tutti gli eletti con toni palingenetici, descritta come l'approdo da non abbandonare a nessun prezzo. In effetti mantenerla, senza scontentare i padroni del vapore, è il problema principale. Ogni anno qualcuno viene "dismesso", come un ferro vecchio, una fabbrica improduttiva, una cosa inutile. «Mi è successo dopo anni di impegno, quando sono arrivato in Interregionale. Dispiace molto ma sappiamo che può capitare», si rammarica l'assistente di De Santis, reinventatosi guardalinee. Con premesse simili, rimanere allineati è un obbligo, essere intimiditi la prassi. Si può retrocedere di categoria, essere lasciati a bagnomaria per mesi, a causa di un errore compiuto nei confronti di una regina del campionato o essere chiusi nello spogliatoio come Paparesta, reo di aver fischiato contro la Juventus, mentre Moggi si porta via le chiavi, magnificando al telefono con gli interlocutori il senso della sua impresa: ribadire chi veramente diriga il gioco. Se poi chi ti deve difendere, il capo dell'associazione nata per tutelarti, è un uomo come Tullio Lanese che, appreso l'episodio, si affretta a chiamare Moggi per rassicurarlo sulla futura impunità («Tu, ho detto all'osservatore, non c'eri e ti fai i cazzi tuoi»), meglio si comprende la cappa di paura e di deferenza nei confronti del sistema, che emanano gli arbitri in ogni fotogramma dell'opera di Mordini.
Niente ribalta: niente privilegi, meglio quindi mostrarsi silenziosi e ubbidienti. Ci si guadagna. Si va nel grande stadio, si viene accolti da meravigliose hostess, si mangia divinamente, si viaggia anche meglio. Ai due dispensatori delle gite in paradiso, gli ex designatori Paolo Bergamo e Pierluigi Pairetto, il regista concede la ribalta dell'intervista collettiva. Il primo è teso, il secondo curiale, debordante, mieloso. Si mostra semplice Pairetto, parla per tre minuti dell'«indispensabile aiuto psicologico della famiglia nei momenti di difficoltà», ricorda i successi antichi degli anni passati in campo, alimenta l'epica dell'eroe solitario senza macchia. Ma dietro la facciata, l'immagine del film che lo descrive meglio è quella del sorteggio, liturgica normalità del male. E' nell'assegnazione della partita e nella tensione cupa dei volti degli arbitri in attesa di conoscere il proprio orizzonte che si scorge il potere. Pairetto, senza agitare l'urna tira fuori la pallina col nome di Racalbuto, non alza mai gli occhi dal tavolo, pesca la sfera con studiata sicurezza e poi ieratico sussurra al prescelto: «Hai visto?», parodiando il megadirettore generale fantozziano alle prese col carissimo inferiore.
Nei 63 minuti di Arbitri, gli elementi della malattia (protervia, ambizione, rapporti equivoci, necessità di fare parte della casta a tutti i costi) erano già sul tavolo, come in ballo erano i protagonisti di un regime ancora molto forte all'epoca e i comprimari come Meani, il dirigente addetto agli arbitri del Milan che si prodigava per avere i guardalinee fidati, immortalato mentre accompagna Galliani nello spogliatoio. Nell'immagine è l'ultimo sullo sfondo, cammina timidamente, ha una busta sotto il braccio, ma intanto arriva con la corte del capo e non sembra un imbucato o il millantatore precario dipinto dai legali rossoneri quest'estate, nella disperata ricerca di una via di fuga dall'evidenza delle intercettazioni. E' un vero brivido da voyeur, più forte della lettura di qualunque telefonata, osservare gli imputati di oggi, a loro agio nel sistema di ieri. Non hanno dubbi, non li sfiora la paura di essere scoperti. Vivono in province meccaniche, distillano contentini per la truppa, approfittano di meccanismi fraudolenti oliati alla perfezione. Onnipotenti nei confronti dei sottoposti, fieri dei successi nella vita precedente e principali cantori di sè stessi nella presente. Il ridicolo involontario è sempre in agguato. Lanese ad esempio, recita un curriculum stanco che prende forma nel '65 e si conclude con l'apogeo della sua elezione alla direzione Aia e quando il regista prova a cambiare argomento, interviene la claque, nella voce fuori campo dell'onnipresente Maria Grazia Fazi, la segretaria della Can che incontrava clandestinamente Moggi al santuario del Divino Amore e tentava di prolungare la collaborazione precaria di suo figlio in Federcalcio. «Ma il presidente non ha finito di rispondere alla domanda! C'è ancora molto da raccontare sui criteri della sua elezione». Lanese la tacita: «Poi assembliamo», ma non manca di seguire l'indicazione, arricchendo l'eloquio di sublimi incidenti linguistici. Scambia corollario per coronamento e quando si emoziona nel dipingere la vocazione del carneade coinvolto dagli amici nella passione per il fischietto, parla di "effetto trascenimento" aggiustato poi in "trascinimento". Si aggiusta la giacca, asciuga il sudore, controlla la cravatta e profetizza magnifiche sorti progressive per la sua creatura: «Che sapremo portare al massimo livello del panorama italiano e internazionale». L'autosospensione dall'incarico del 14 maggio, non gli evita una squalifica di due anni e sei mesi per violazione dei principi di correttezza e lealtà sportiva.
Anche Massimo De Santis si presta volentieri all'indagine di Mordini e si capisce perchè. E' l'unico arbitro ad aver pagato quasi per intero il prezzo di Calciopoli (inibizione di 4 anni, era stata chiesta la radiazione: gli altri fischietti coinvolti tutti prosciolti o con pene di pochi mesi). Quando viaggia alla volta di Tripoli nel settembre 2001, dove la federazione italiana lo ha spedito a dirigere la non prestigiosissima finale di coppa nazionale, l'ex arbitro viene da un periodo difficile. In una gara decisiva per lo scudetto tra Juventus e Parma, crea scandalo l'annullamento di un gol di Cannavaro parso a tutti regolare. Fin dall'arrivo l'agente penitenziario De Santis, sembra un altro. Forse è lo stesso. Resta stupito dalle guardie assiepate agli angoli delle strade: «Non c'hanno pè niente i fucili qua i poliziotti», commenta verace e regala tocchi di colore da cinema italiano anni '50 durante la gita serale nella città vecchia, in cui cammina tre passi avanti ai guardalinee, firma autografi e commenta l'artigianato: «Guarda che camicetta, aho!». Poi passa alle pubbliche relazioni con i locali dirigenti calcistici, cui offre un apprezzamento entusiasta per la cucina indigena: «When i go out of Italy, i don't like to eat italian food». Il purgatorio libico è per De Santis il necessario lavacro per attenuare le polemiche che in patria sono degenerate in scontri di piazza tra tifosi. Ritornerà ad arbitrare prima che faldoni di intercettazioni alti come un grattacielo, lo fermino sulla scaletta dell'aereo che avrebbe dovuto portarlo al mondiale tedesco, dando esatta forma alle sensazioni avute per anni e assestando un duro colpo a persone serie come Maurizio Mattei, all'epoca designatore di C, che nella "missione" credevano a tal punto da salmodiare con partecipazione, durante un raduno a Sportilia, un'indimenticabile giuramento degli arbitri: «Se ogni uomo avrà per te un valore ma nessun uomo conterà troppo, se saprai sognare senza fare dei sogni i tuoi padroni, se assistendo alla distruzione di quanto da te costruito con passione, saprai pazientemente ricominciare a edificarlo, allora tuo sarà il mondo e sarai finalmente un uomo ed un arbitro». Titoli di coda. di Malcom Pagani

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