La palla passa ai migranti
Intervista al sociologo Detlev Claussen. Il calcio come fenomeno socio-culturale. Detlev Claussen insegna sociologia all'Università di Hannover. È noto come uno degli eredi più importanti del pensiero critico di Adorno. Meno noti, invece, sono stati la sua passione calcistica e i suoi studi sulla sociologia del
pallone
Com'è cambiato lo spettacolo dei mondiali di calcio nell'era della globalizzazione?
I mondiali fanno parte di una globalizzazione ben più antica di come la si suole datare. Nel primo '900 i mondiali stimolavano le ambizioni nazionali sul campo. Negli anni '30 all'accaparramento italiano di giocatori latinoamericano è seguita l'introduzione del professionalismo su scala mondiale. Dai mondiali statunitensi del '94 l'evento acquista una forte connotazione economica e commerciale. Ma è l'elemento non-economico della cittadinanza a fare dei mondiali un festival delle bandiere. Nello stesso tempo i mondiali rendono possibile un cambiamento delle tradizioni calcistiche nazionali. Le squadre di maggior successo sono sempre state quelle capaci di integrare elementi internazionali. Un buon esempio è Vittorio Pozzo, che nell'Italia fascista fondò una cultura calcistica niente affatto nazionalista, anche se fu propagandata dal regime come tale. Il calcio tedesco deve tanto al calcio italiano: nel 1990 la Germania non sarebbe potuta diventare campione del mondo senza Völler, Klinsmann, Matthäus, Brehme e altri maturati proprio in Italia.
La composizione multinazionale dei club europei è da tempo un fatto. Ma le nazionali europee - eccetto Francia e Olanda - si aprono solo lentamente ai giocatori con una storia di migrazione alle spalle. Perché?
Nelle società calcistiche tradizionali solo la concorrenza internazionale ha accelerato l'apertura ai migranti. Fino al disastro dell'ultimo campionato europeo del 2004 la federazione calcistica tedesca è stata più reazionaria delle società tedesca. Solo a partire dai cambiamenti strutturali apportati da Klinsmann si è capito che non ci si poteva più permettere di lasciare fuori i giocatori migliori provenienti dall'immigrazione. Francia e Olanda l'avevano capito molto prima. Agli outsider sociali il calcio offre ancora possibilità d'integrazione, nei paesi sviluppati lo sfondo migratorio è un terreno propizio per i talenti ambiziosi. Ma la sfera pubblica tedesca ha ancora difficoltà a capire che non è più pensabile una squadra tedesca senza migranti come Klose, Podolski e Odonkor.
Appena in tempo per i mondiali la Federazione tedesca ha cercato di elaborare il suo passato nazionalsocialista, ma sembra voler chiudere il capitolo piuttosto che rendere il calcio tedesco consapevole del suo coinvolgimento. Quanto è presente il passato tedesco in questo mondiale?
Grazie a Dio, molto poco. O forse troppo poco. La federazione tedesca cerca di comportarsi in modo politicamente corretto. Oggi vengono sventolate le bandiere nero-rosso-oro e non quelle con la svastica. Tutti sanno che si deve cantare solo la terza strofa dell'inno nazionale - anche quella è orrenda, ma fa parte del simbolico della Germania democratica. A me tutto il muggito patriottico, in positivo e in negativo, pare esagerato. La maggior parte di quelli che esibiscono la bandiera vogliono solo partecipare alla festa dei tifosi. E l'hanno imparato dai tifosi migranti italiani e turchi durante i campionati precedenti. Nei caroselli nero-rosso-oro i giovani con uno sfondo migratorio turco e arabo sono i più scatenati. La Germania è proprio un paese d'immigrazione.
Lo slogan "Il mondo a casa di amici" è quindi più che un tentativo della Germania di presentarsi con una faccia nuova e cosmopolita?
L'internazionalismo dei milioni di ospiti è un enorme divertimento. La più grande festa di tifosi a Francoforte non è stata in occasione di una partita tedesca bensì durante Argentina-Olanda: una sorta di Woodstock calcistico.
Da qualche anno tifare per una squadra africana è politically correct. Secondo me si manifesta in questo atteggiamento la stessa ambivalenza di molte concezioni politiche post-coloniali e multiculturali che restano incentrate sul principio di identificazione.
Sì, l'atteggiamento nei confronti del calcio africano mi pare paternalismo post-coloniale. I motivi per cui il calcio africano non va avanti sono da cercare nel sistema del calcio. Gli africani hanno il know how per cambiarlo, ma gli manca la capacità di imporsi politicamente.
Italia-Germania porta a galla i peggiori stereotipi nazionalisti. La stampa tedesca insulta i giocatori italiani come
"mammoni" e "mangiaspaghetti". La stampa italiana chiama i tedeschi
"panzer" e deride Klinsmann per la sua "retorica da new economy".
Gli stereotipi sulla psicologia nazionalista e reazionaria non sono mai stati veri. E oggi le partite importanti vengono decise da una sfumatura tattica, dalla fortuna e dal caso. Spesso lo sciovinismo, il razzismo e la dietrologia vengono stimolati dai media. Quanto a Klinsmann, la campagna negativa-nazionalista della stampa tedesca contro di lui è fallita di fronte alla sua competenza e alla popolarità di un calcio d'attacco non fissato sul risultato. Gli esperti brontoloni del tradizionalismo tedesco sono stati ammutoliti. Le pratiche di allenamento e di fisioterapia importate da Klinsmann dagli Stati uniti sono molto avanzati. In Germania i tradizionalisti disprezzano questo know how, ma la legge del calcio mondiale impone di imparare da tutte le parti. Nel libro su Béla Guttman ho cercato di dare un posto nella storia del calcio al sincretismo cosmopolita.
Già. Béla Guttmann è collegato ai grandi successi del Benfica ma anche alla speranza che in una partita possa succedere qualcosa che fa tremare l'ordine dato. Nel calcio di oggi rimane questa pulsione emancipativa?
Il calcio può trasmettere l'immagine di una vita migliore, anche se giocatori e spettatori rimangono spesso terribilmente delusi. La cosa più brutta dei grandi scandali sta nel fatto che al posto di fede, amore e carità c'è un iperrealismo, con il quale la gente cerca di proteggersi dalle delusioni. Il calcio fa una promessa radical-democratica: chiunque si allena può giocare in una squadra, you'll never walk alone... e se non puoi più giocare puoi continuare a tifare.
C'è una squadra o un giocatore che rappresenta la promessa di una vita migliore?
Se vedo un gol come quello dell'Argentina contro la Serbia mi viene in mente
"l'attimo più alto" di Faust, quando Goethe dice: «Fermati, sei così bello, fermati...».
di Catrin Dingler
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