Spunti di riflessione

Il futuro del pallone

Non è vero che Luciano Moggi abbia deluso nella sua prima sortita pubblica dall'inizio dello scandalo. Il maggiore degli imputati conferma le conclusioni di Francesco Saverio Borrelli, il "poliziotto". Nel calcio, l'illecito è strutturale. Per dirla con le parole di Moggi, è un mondo abitato da "diavoli", dove soltanto manovre "indiavolate" permettono di vincere o pareggiare contro le molte lobbies che condizionano i campionati, la spartizione dei diritti televisivi, il Parlamento, l'accesso al credito bancario, la terzietà degli arbitri, la trasparenza della Federazione, la gestione della Lega. Se quella di Borrelli è la conclusione di un'indagine, le parole di Moggi sono l'analisi della patologia del calcio italiano, e coincidono. È un paradosso soltanto per i cantori dello status quo. 
In realtà, è la conferma che il calcio non è il "mondo a parte" che si è voluto costruire, ma una delle facce di un'anomalia nazionale: come in molti angoli del capitalismo italiano, nell'industria del football si è cristallizzato un sistema organico di poteri costituiti, professioni e lobbies che hanno interesse a eludere le leggi anziché rispettarle. 

Nel giorno in cui, allo stadio Olimpico, comincia dinanzi agli occhi del mondo il processo al calcio, la domanda è dunque questa: quale processo dobbiamo attenderci? Il dibattimento può essere il primo passo per avviare un rigoroso risanamento capace di eliminare per la convenienza di tutti l'illecito strutturale oppure il giudizio potrà diventare il consueto (e maramaldo) rito di degradazione di alcuni "diavoli". Le società imputate (sono quattro in questa prima fase) potranno farsi carico della responsabilità dell'interesse collettivo di una ricostruzione o imporre (come è loro diritto, peraltro) una "riduzione del danno" perché lo spettacolo deve continuare, perché ci sono troppi soldi in ballo (5 miliardi di euro), perché la passione di milioni di italiani lo invoca. Non c'è da illudersi che la malattia sia curata con la terapia necessaria. Cioè sul serio. Qualche indizio di una tendenza al saldo, allo sconto, alla semplificazione è sotto gli occhi. 
Stefano Palazzi, l'accusatore in aula, ridimensiona l'invasività dell'illecito frazionando gli episodi e gli attori. Non accetta di cogliere gli uni e gli altri nelle connessioni strutturali e oscure che sono il fondo fangoso dell'industria del football. La decisione è giuridicamente corretta, ma moderata fino alla debolezza, perché svela una politica della giustizia sportiva che si ferma sempre sull'uscio del sacrario dei poteri dove sono custoditi gli interessi più forti. 
Le difese dei quattro club (Juve, Milan, Lazio, Fiorentina) non sono da meno in leggerezza. Non pare che i consigli di amministrazione di queste società abbiano scelto una coraggiosa trasparenza. Non condividono la scelta di fondo, la necessità di dar pulizia alla casa dalle cantine alla soffitta. Sostengono che non deve essere un processo al "calcio", ma un processo ad alcuni dirigenti "infedeli" che, nella ignoranza di azionisti e proprietari, hanno taroccato il gioco per ambizione personale. La Juventus si candida a guidare la pattuglia dei "minimalisti". Il collegio difensivo del club bianconero mette in dubbio che se il direttore generale di una società "compra" una partita, il club ne debba rispondere oggettivamente e direttamente. È la contestazione di uno degli articoli chiave della giustizia sportiva. L'articolo 2: "Le società rispondono direttamente dell'operato di chi le rappresenta ai sensi delle norme federali e sono oggettivamente responsabili degli effetti disciplinari dell'operato dei propri dirigenti, soci di associazione e tesserati". È una norma che si può definire costitutiva della giustizia sportiva. Non accettarla o interpretarla in maniera riduttiva può significare che vanno a ramengo, nel momento del giudizio, anche quelle poche regole condivise. Se la Juve apre la strada, dietro la società bianconera gli stessi argomenti si colorano di farsa. È il caso della Lazio che punterà a separare le responsabilità del presidente Claudio Lotito da quelle della società, come se la Lazio non vivesse del denaro, delle iniziative, dei maneggi, dei debiti, dei "contatti" di Lotito. Come se Lotito non fosse la Lazio e la Lazio Lotito. 

In questa aria di banalizzazione del dramma, un ruolo rilevante svolge come sempre l'informazione. La Gazzetta dello Sport pare aver già chiuso i conti con il passato. Appena sabato scorso ha spiegato che il finale di questa brutta partita non sarà poi così devastante e le sentenze saranno "commestibili". Juventus in B e soltanto penalizzazioni per le altre. 13/20 punti per il Milan. Almeno 21 punti per la Fiorentina. Per la Lazio addirittura meno: in fondo, Lotito si accordava con Carraro e Mazzini, presidente e vice della Figc, dunque con le "istituzioni". La strategia della "riduzione del danno" ha reso necessario un interprete pubblico. Chi meglio di Massimo De Santis, arbitro con la faccia di cuoio? Registrazioni televisive alla mano, spiega a "Matrix" di Enrico Mentana che no, non è vero che in Fiorentina-Bologna ha ammonito tre giocatori diffidati del Bologna per farli squalificare e avvantaggiare la Juventus. Che cosa poteva fare se Zagorakis (Bologna) compie quattro falli consecutivi su Chiellini (Fiorentina) a 5', al 6', al 7' e al 46'? Come se gli episodi delle partite siano il tema della decisione. Sorprendentemente, anche il brillantissimo Mentana si smarrisce e dimentica che l'illecito sportivo non si consuma se la truffa riesce (e il risultato in campo muta). C'è illecito anche se la truffa è tentata o soltanto progettata. Articolo 6: "Il compimento, con qualsiasi mezzo, di atti diretti ad alterare lo svolgimento o il risultato di una gara ovvero ad assicurare a chiunque un vantaggio in classifica costituisce illecito sportivo". Anche questa regola è fondativa del codice di giustizia sportiva che il "calcio" si è voluto dare e che oggi contesta, trascura, addirittura rifiuta. 

Nel corso del tempo è apparso chiaro che il mondo del football non è stato capace di gestire l'autonomia che i pubblici poteri gli hanno assegnato. Ogni istituzione, territorio, regola o legge, che è stata sfiorata dal calcio, si è deprezzata, si è squalificata, è diventata inattendibile. La Borsa, la finanza, le banche, i bilanci, la giustizia, la sanità, la fiscalità, i pronostici, l'informazione, la reputazione internazionale del Paese. Tutto quello che ha toccato il calcio ne è uscito compromesso. Al di là del processo e delle sue regole, ci si attende che tutte le parti coinvolte (imputati, collegi di difesa, società) siano consapevoli del passato catastrofico che si lasciano alle spalle. Che dimostrino di aver finalmente capito che soltanto una radicale mutazione "genetica" proteggerà il calcio, la sua credibilità e l'autonomia che chiede e pretende. Da quel che si vede in giro alla vigilia del processo, non sembra che il mondo del football - abitato certamente da "diavoli", ma anche da troppi "bambini" - abbia la maturità per darsi carico della patologia che lo affligge. Come i bambini, infatti, tutti gli attori di questa storia sembrano dire oggi: non l'ho fatto apposta, perché devi punirmi? di Giuseppe D'Avanzo

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