L'amara resa di
Biscardi
Costretto a dimettersi, dopo 26 anni di bar sport.
Ieri è arrivato lo stop
Dopo le intercettazioni si è difeso in un'ultima paradossale puntata
Quell'ultima puntata, in onda lunedì sera, tutta su
toni accorati, l'autodifesa totale, la riproposizione pedante di vecchie
moviole per dimostrare che no, che lui era a posto, pulito, che Moggi,
in pratica lui lo prendeva in giro, promettendogli favori e attenzioni
al telefono e poi mandando in onda esattamente il contrario.
Un'autodifesa quasi da grande pièce teatrale, ma con voce rotta
dall'emozione forte, le parole che incespicano più del solito. Alla
fine, un boomerang. I vertici de La7, si dice con Marco Tronchetti
Provera in testa, e il direttore Antonio Campo Dall'Orto a sostegno, che
la prendono malissimo e pongono con decisione, ieri, la questione delle
questioni.
Alla fine, in serata, come si usa in ambiti calcistici, per esempio per
certe "dimissioni" degli allenatori, un comunicato in teoria
amichevole: è Aldo Biscardi che si dimette, l'azienda ne prende atto e
nomina seduta stante un altro al suo posto di direttore della redazione
sportiva de La7, ovvero il suo vice Darwin Pastorin, da oggi già al
lavoro per allestire un programma sui Mondiali di calcio al posto del già
previsto, annunciato e attesissimo, "processo ai Mondiali" con
Biscardi in conduzione.
E Biscardi? In un comunicato ringrazia il pubblico, ribadisce di aver
chiuso con una puntata «storica in cui ho
dimostrato la mia innocenza e raggiunto uno dei più alti ascolti di
sempre della rete (quasi il 7 per cento, ndr)»
e annuncia «d'accordo con l'editore una pausa
di riflessione in vista degli impegni futuri, continuando a vigilare su
quanto accade nel campionato di calcio».
Può essere, ma quello che traspare è la fine, triste, di un'epoca.
Quella del biscardismo applicato al calcio televisivo, quella nata negli
anni Ottanta con il Processo in tv. Passaggi quasi gloriosi, la
chiacchiera calcistica che dai bar sport d'Italia diventa un punto fermo
della settimana tv: finché il programma rimane in Rai, è il luogo
centrale del discorso calcistico e si evolve parecchio: dal Processo
passa mezza Italia che conta, il giro degli ospiti mescola alto e basso,
vi transitano con buona frequenza nomi come Gianni Brera e Giovanni
Arpino.
In una celebre puntata, Giulio Andreotti aveva confermato in diretta il
campionissimo Falcao alla Roma, Sandro Pertini viene pescato in
collegamento dalla Val Gardena (e Biscardi se ne vanterà per anni), la
vetrina è appetibile e tutto sommato dignitosa, accanto a presidenti
sulfurei chiamati a dare spettacolo (come l'ascolano Costantino Rozzi)
passano politici di primo piano, calciatori di vaglia, vip assortiti.
Ma è la contesa del calcio parlato che conta davvero, prima dei
Mondiali dell'82 Biscardi mette in piedi una serie impressionante di
puntate che dividono l'Italia sulla formazione che deve andare ai
Mondiali guidata da Bearzot. I toni iniziano a degradare, per molti anni
il presidente della Juventus Giampiero Boniperti proibisce a qualunque
tesserato bianconero l'accesso alla trasmissione.
A metà degli anni Novanta tutto si interrompe di colpo: Biscardi passa
alla pay-tv portandosi appresso un programma che non si potrà chiamare
Il processo del Lunedì (il marchio resta alla Rai): dura quattro anni,
poi l'approdo a La7 e qui, definitivamente, prende corpo il
"Processo di Biscardi" per come lo hanno conosciuto i
telespettatori più giovani: un teatrino irresistibile quanto grottesco,
i ruoli assegnati, i toni stentorei sempre, le litigate a comando e
obbligate, le battaglia "per rinnovare il calcio" (chi chiederà
ora più la moviola in campo?). Protagonisti un manipolo di giornalisti
con ruoli fissi, risse furibonde, bava alla bocca e insulti reciproci,
poi, finita la trasmissione, grandi tavolate in pizzeria da amiconi.
Un meccanismo perfetto, guidato da un Biscardi sempre più a suo agio ma
sempre intenzionato, anche in tarda età, a riprendere posizioni che
sente spettargli di diritto. Tempo fa, si affaccia addirittura l'ipotesi
di un clamoroso rientro in rai per i Mondiali di calcio. E' poco più
che una boutade, alla fine La7 - dove hanno sempre vantato gli ascolti
di Biscardi, i più alti dell'intera programmazione - era la nicchia
ideale, in cui il Rosso si muoveva a piacimento, inventandosi anche capo
della redazione sportiva, con propaggini sul digitale terrestre e
improvvisandosi anche esperto di vela per essere in prima fila alle
telecronache della Coppa America.
Poi quelle intercettazioni. Da una parte un Luciano Moggi che si
intuisce giocare un gioco sadico, quello del potente con le piccole
pedine del grande game, la credibilità, o quello che è, messa a
repentaglio, le moviole, chissà: fino a quella serata di autodifesa,
scomposta, eccessiva, tutta personalizzata. Il Biscardi che un giorno si
fece assolvere dalle denunce presentate da un gruppo di arbitri
presentando in tribunale una memoria difensiva che diceva, più o meno «Siamo
un gruppo di buontemponi che sparano facezie, mica ci prenderete sul
serio?», stavolta non ci sta: forse avrebbe dovuto ripetere
quella mossa.
Invece prende il toro per le corna, si autoesalta nella contesa per
l'ultima volta e, il giorno dopo, è l'ora delle "dimissioni".
In qualche modo va in archivio il biscardismo, quello che si è sempre
dipanato tra frasi autentiche e leggende (Biscardi avrà scritto
davvero, su Paese Sera, un pezzo da Buenos Aires che si chiudeva con "Cala
il tramonto sul Rio de la Plata. Paco dorme. Uno stormo di piranhas si
alza in volo"? E soprattutto, chi era Paco?), quello
delle polemiche che "fioccano come nespole" (autentica),
quello in cui si invitavano gli ospiti a non parlare tutti insieme,
"ma massimo due, tre per volta". Esiste qualcosa in grado di
sostituirlo? di Antonio Dipollina
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