La politica è il cuore
dello stadio
«La politica fuori dagli stadi? Che idiozia»,
dice William Gaillard, responsabile della comunicazione. «Sono
l'odio e i suoi simboli che non devono entrarci. La politica è
democrazia». Alla seconda giornata della Conferenza Europea sul
Razzismo, l'Uefa invita i club a impegnarsi di più nella lotta contro
ogni forma di discriminazione e d'intolleranza, con chiare prese di
posizione
Cosa sarebbe successo domenica scorsa se Francesco Totti
avesse fermato il pallone, il gioco, la partita, e si fosse spinto sotto
la sua curva adorante a chiedere ai nazisti della sud di ammainare
svastiche, fasci littori e scritte antisemite? I più duri, quellicol
mito delle SS, difficilmente glielo avrebbero perdonato. I ragazzini
nascosti dietro i passamontagna probabilmente non avrebbero capito e
sarebbero rimasti spiazzati. Il resto dello stadio, è bello pensare,
avrebbe applaudito con orgoglio, tutti in piedi dalla Tevere alla
Montemario passando per lo spicchio di distinti occupato dai tifosi del
Livorno. Sarebbero seguiti dibattiti (chi gliel'ha
consigliato,Costanzo?) e forse anche polemiche infinite perché di
questi tempi, soprattutto in Italia, non si fa altro che dire che la
politica deve stare alla larga dallo sport (lo sostiene - con quale
faccia non si sa -persino Berlusconi) e che i calciatori in particolare
devono astenersi da qualunque gesto politicamente declinabile, sia esso
un braccio teso o un pugno chiuso. E' possibile che Totti, dal campo,
non si sia nemmeno accorto dell'aberrante follia che prendeva forma
sugli spalti, e con lui l'arbitro, Lucarelli, Tommasi e tutti gli altri
protagonisti della partita. Se anche gli ci fosse caduto l'occhio, tra
un colpo di tacco e uno dei mille colpi ricevuti alle caviglie, forse
non gli sarebbe neanche passato per la mente di andare a sfidare il
ventre nero della curva. Lo fece l'anno scorso a Siena per molto meno,
chiedendo agli ultras giallorossi di smetterla con i fumogeni che
avevano costretto l'arbitro a sospendere la partita perché non si
vedeva più nulla e mancò poco che quelli prendessero a fare il tiro al
bersaglio con lui. Due anni fa poi, quando tre capitifosi romanisti
invasero il campo per ordinargli di fermare il derby con la Lazio
sostenendo che era morto un bambino, Totti presel'arbitro da parte e gli
disse: «Se continuiamo a giocare, questi ci
ammazzano». Con l'ottusità di certi tifosi, specie a Roma,
meglio non scherzare.
Il dubbio, la curiosità o forse solo la speranza di vedere il capitano
della Roma abbandonare il campo per protesta contro l'intolleranza di
chi ogni domenica ne canta il nome come un dio, è arrivata fino a
Barcellona. La seconda conferenza dell'Uefa sul razzismo negli stadi
europei, tenutasi mercoledì al Camp Nou, ha ribadito la necessità di
sanzioni esemplari contro chi si diverte a invocare Hitler o fare il
verso della scimmia intorno a un campo di calcio. Ha invitato i club a
smettere la maglia nera di Pilato e a investire programmi e risorse
nella lotta antirazzista. Ha chiesto al Parlamento di Strasburgo di
approvare in fretta la risoluzione presentata dai socialisti europei
contro ogni forma di discriminazione legata allo sport. Ma più di
tutto, ha messo i calciatori di fronte alle proprie responsabilità
collettive richiamandoli a un impegno sociale che solo pochissimi, nella
storia del football, hanno dimostrato di avere.
In questo senso il discorso introduttivo del direttore generale
dell'Uefa, Lars-Christer Olsson, è stato tanto illuminante quanto
inaspettato. «Con il suo coraggio
antisegregazionista - ha attaccato il dirigente svedese -
Muhammad Ali ha cambiato la storia americana. Ora tocca ai calciatori
aiutare la società a sconfiggere l'ignoranza razzista».
Fino a qualche anno fa, paragoni simili l'Uefa non li avrebbe azzardati
neanche con una pistola puntata alla tempia. Oggi sì. Eppure, proprio
tra i calciatori, c'è chi pensa che Totti o chi per lui non potrà mai
cambiare il mondo con un gesto. Il brasiliano Leonardo, che a Barcellona
è venuto per conto del Milan, l'ha spiegato con molta franchezza. «Non
spetta a lui andare sotto la curva. I giocatori nascono poveri, provano
sulla loro pelle ogni tipo di discriminazione, crescono senza educazione
pensando solo al pallone e a 20 anninon sono in grado di prendersi certe
responsabilità. Possono dare il loro contributo ma vanno aiutati perché
da soli non saranno mai in grado di cambiare il sistema».
Nel governo europeo del calcio c'è però chi è disposto a raccogliere
la provocazione su Totti. «Beh, se avesse
fatto una cosa del genere ci saremmo trovati un po' in imbarazzo perché
fermare una partita è prerogativa esclusiva dell'arbitro e delle forze
dell'ordine. Peròmolti di noi lo avrebbero applaudito, Olsson per primo».
Le parole di William Gaillard, direttore delle comunicazioni e degli
affari pubblici Uefa, sono la prova definitiva che qualcosa è cambiato
davvero nella burocrazia del calcio, una contaminazione su temisociali
favorita dalla stretta collaborazione con le organizzazioni antirazziste
della rete Fare (Football against racism in Europe) ma anche dalla
spinta rivoluzionaria di questo sorprendente francese con un passato
trozkista. Gaillard parla perfettamente italiano perché nel '71, appena
laureato in scienzepolitiche, prese una borsa di studio alla John
Hopkins University a Bologna. Frequentò gli ambienti di Lotta Continua
e Potere Operaio, divenne fedele lettore del manifesto e raccolse fondi
per gli ospedali vietnamitibombardati dagli americani. Dopo un dottorato
ad Harward, si trasferì a Roma sul finire degli anni '70 e alla lotta
armata preferì la curva sud della Roma. Prima quella povera e gagliarda
di Bet, Santarini e Paolo Conti. Poi quella magica e scudettata di
Falcao, Di Bartolomei e Bruno Conti. Nella capitale conobbe sua moglie,
napoletana, poi un giorno ripartì alla volta di Washington, di lì a
Ginevra, le Nazioni unite, fino all'Uefa due anni fa. «La
politica fuori dagli stadi? Che idiozia. Sono l'odio e i suoi simboli
che non devono entrarci. La politica è democrazia, ieri la piazza
ateniese, oggi anche lo stadio. Non sipuò pensare di chiudere occhi e
bocca agli atleti. Come sarebbe cambiata la società senza i pugni
chiusi di Smith e Carlos ai giochi di Città del Messico'68?».
di Matteo Patrono
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