Il corpo dimenticato
L'equivoco sta nel continuare a confondere i concetti di salute e fitness
Le polemiche seguite alla messa in onda del filmato che ritraeva Cannavaro intento a farsi una flebo di Neoton, alla vigilia della finale di Coppa Uefa del giugno 1999 contro il Marsiglia, hanno ribadito per l'ennesima volta i termini del discorso sul tema dell'abuso di sostanze farmacologiche nello sport. Anche in questa occasione si è creata la classica contrapposizione. Da un lato, un "partito salutista" idealmente capeggiato da Zeman, secondo il quale ricorrere a qualsiasi sostanza farmacologica, anche lecita, comporta un rischio per la salute dell'atleta oltreché una violazione delle regole competitive; dall'altra parte, un "partito faustiano" che mescola un garantismo di maniera - appellandosi alla "non illiceità" di certe pratiche e sostanze - a pretese di scientificità sulla sostenibilità dei carichi di lavoro, e che può fare un manifesto delle desolanti parole di Carlo Ancelotti. Secondo il quale, un calciatore (e, in generale, un atleta) che competa ai massimi livelli non può essere fisicamente sano.
La più recente replica di questa contrapposizione si registrò nel corso della prima puntata della "Domenica Sportiva" andata in onda dopo la messa in onda del filmato a 'Punto e a capo', e si può condensare nel diverso atteggiamento dimostrato sulla questione da due ex campioni dello sport del calibro di Zibì Boniek e Gianni De Magistris. Nella circostanza Boniek spiegò che, se ai tempi in cui giocava gli fu affibbiata l'etichetta di "bello di notte", il motivo è che gli capitava di disputare una partita al massimo della forma (alla luce naturale o dei riflettori, non fa differenza), e di conseguenza nelle successive aveva bisogno di recuperare lo sforzo. Preferendo pagare in termini di rendimento il calo fisico, piuttosto che ovviarvi con l'ausilio di pratiche esterne al recupero energetico endogeno. Dal canto suo, De Magistris si dichiarò contrario alla posizione di Boniek; affermando che ai tempi in cui era nazionale olimpico di pallanuoto, con 9 partite in 10 giorni era impossibile combattere la stanchezza senza far ricorso all'aiuto del medico. Aggiungendo come fosse normale, in quei giorni, che il medico della nazionale praticasse ai pallanotisti azzurri delle iniezioni "di cui non sapevo nulla". Della serie: la prossima volta si appelli al Quinto Emendamento.
Spostare obiettivo - Le opposte posizioni assunte da Boniek e De Magistris sulla vicenda confermano un'impressione che da qualche tempo andiamo mettendo a fuoco: il dibattito si sta sviluppando su un piano errato, forse addirittura opposto a quello più consono. Discutendo di doping, e del confine tra pratiche e sostanze lecite o illecite, abbiamo forse per lungo tempo scambiato gli effetti con le cause. Il vero oggetto della discussione dovrebbe essere il corpo dell'atleta professionista come oggetto sociale. Esso si è progressivamente trasformato in una macchina produttrice di una specifica qualità di merce: la prestazione agonistica d'alto livello. Partendo da ciò, il corpo dell'atleta è fatto destinatario di ingenti investimenti (biologici, economici, comunicativi), calato dentro un ciclo di produzione che impone sollecitazioni e stress crescenti, e da almeno un decennio reso oggetto di processi di narcisizzazione e feticizzazione come idealtipo della silhouette socialmente desiderabile. Questa constatazione fa da premessa a una realtà tragica, della quale bisogna prendere coscienza in fretta piuttosto che lasciarsi sviare dal dibattito sulle pratiche dopanti: nello sport d'alta competizione, il corpo dell'atleta non appartiene più all'atleta stesso. Quest'ultimo, al crescere della professionalizzazione e della spettacolarizzazione, diviene vittima della forma più disumanizzante di alienazione e spossessamento. Egli non è più un tutt'uno col proprio corpo, ma fa di esso un'oggettivazione, una sorta di bene indisponibile del quale è soltanto un manutentore. L'imperativo è quello di garantire al corpo l'adeguatezza a un ciclo della competitività fisica i cui ritmi crescono a dismisura.
Salute e fitness - L'equivoco sta nel continuare a confondere i concetti di salute e fitness. Il primo riguarda una generica sanità dell'organismo e della persona, uno stato di "non malattia"; il secondo comporta invece l'adeguarsi del corpo a standard elevati di efficienza atletica e/o estetica. Riferendoci al corpo dell'atleta professionista, il concetto di salute è praticamente da sempre qualcosa di estraneo. Su un numero della International Review for the Sociology of Sport pubblicato nel 2000, leggemmo i risultati di una ricerca condotta da tre studiosi inglesi, delle università di Leicester e Coventry, attraverso interviste in profondità su un campione di calciatori militanti nella Premiership inglese reduci da infortunio. Ne emergeva un quadro secondo il quale i cicli di decorso riabilitativo risultavano enormemente abbreviati rispetto a quelli di un non-atleta. Di più: in molti casi, l'atleta infortunato veniva fatto oggetto di pratiche mobbistiche, quando non di rituali stigmatizzatori, con l'intento di colpevolizzarlo per la sua condizione di infortunato e aumentarne l'ansia da recupero. Quando c'è di mezzo il corpo dell'atleta, impera il principio di fitness, dell'adeguatezza, con la carica semantica crudamente darwiniana che esso richiama.
Quale medicina sportiva - Il discorso non sarebbe completo se non si facesse cenno alla medicina sportiva e ai particolari profili professionali che essa produce. Tutto ruota attorno a un interrogativo che nessuno ha il coraggio di affrontare: il medico sportivo deve garantire la salute dell'atleta o la sua fitness? Nei fatti, l'impressione che si ricava è che a essere privilegiata sia la fitness, e che spesso venga favorita la "riabilitazione accelerata dell'atleta infortunato", come recita il titolo dell'ultimo congresso internazionale di riabilitazione sportiva e traumatologia organizzato dall'istituto bolognese Isokinetic. E' contro questa logica, prima ancora che contro il generico concetto di doping, che il mondo dello sport deve ribellarsi. A partire dagli atleti, chiamati a riappropriarsi del proprio corpo rivendicando un "diritto alla stanchezza e all'usura" ben sintetizzato dalle parole di Boniek, e rifiutando la logica di "aiuto necessario per combattere la fatica" e della "liceità di ricorso a sostanze non proibite" propagandata dai De Magistris e dai Cannavaro di turno. Tenendo sempre in mente che l'attività agonistica è soltanto una parte della vita dell’atleta, e che il resto di quest’ultima va affrontato con quello stesso corpo di cui si è fatto "macchina da prestazione e bene indisponibile", e della cui obsolescenza pagherà in misura più o meno tragica il percorso post-agonistico dell'atleta-persona.
di Pippo Russo
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