Spunti di riflessioneIl derby lungo un mese 
Lazio-Roma, sospesa il 21 marzo scorso in diretta tv, è diventata una partita infinita con la partecipazione fattiva di governo e polizia. Che provano a scaricare tutte le colpe sulla violenza ultras e sulla crescita dell'attività politica in curva. Dimenticando però di aver scelto come unica risposta al caos degli stadi i lacrimogeni sparati nel mucchio

Come in un racconto di Soriano, la partita tra Lazio e Roma, iniziata il 21 marzo, non riesce a finire. Non è, non è più, una partita sospesa e rigiocata, come a volte capita. È una partita che non può finire, perché su di essa le forze politiche, del governo, della polizia hanno iniziato a giocare un altro gioco, un'altra partita, più grande e complessa. Le due tifoserie, la città di Roma, ma anche lo stesso potere del calcio (reo di aver voluto fare da sé) sono in castigo: si giocherà quando i reprobi si mostreranno pentiti, redenti, domi. Tutto ciò è assurdo. Soprattutto per due motivi. Per quello che in effetti è accaduto il 21 marzo dentro lo stadio Olimpico. E per quello che le forze dell'ordine hanno saputo fare e hanno fatto sia quella maledetta domenica, sia in passato, per affrontare il problema della «violenza nel calcio», che pure è problema reale.

Iniziamo dal derby del 21 marzo. Si è gridato al complotto, autorità di polizia hanno avanzato a caldo, senza il supporto né di prove né di una logica degna di questo nome, l'ipotesi di un piano prestabilito, ripresa poi dai mass media che hanno gridato allo scandalo, alla vergogna inaudita. Con ciò stesso chiedendo una punizione esemplare: un comportamento degno di quegli ultras della politica che sono i dirigenti della Lega (nord). In realtà, il 21 marzo all'Olimpico non vi sono stati fatti degni di tanto biasimo. L'unico fatto rilevante e nuovo, e probabilmente imperdonabile, è che una partita di cartello, trasmessa in diretta dalle tv di tutto il mondo, è stata sospesa, creando non pochi problemi, anche in prospettiva, sul fronte dei contratti televisivi e pubblicitari. Per il resto non vi è stata una vera invasione di campo, né scontri tra tifosi, o (dentro lo stadio) tra tifosi e forze dell'ordine; non sono stati buttati motorini da un settore all'altro; il deflusso è stato pacifico e ordinato. Non sottovalutiamo quello che era successo prima: gli striscioni razzisti visti in curva sud e quelli «politici» (di destra) visti in curva nord, né gli slogan contro le forze dell'ordine: fatti, però, che rimandano a un discorso più generale, che abbiamo su queste colonne più volte affrontato e su cui torneremo più avanti. Non vi era alcun piano: una falsa notizia si è propagata, si è creato un clima in cui non era possibile giocare: la gente pensava ad altro, non si sarebbe più potuta «divertire», non voleva più divertirsi. Non si può giocare davanti a un morto - hanno deciso tutti insieme gli spettatori, che non hanno dato retta alla rassicurazioni delle autorità non perché tutti improvvisamente eversori, ma perché altre volte le stesse autorità avevano deciso, in circostanze analoghe, di far giocare lo stesso, affermando anche il falso, rassicurando, mentendo.

Tutt'altro è accaduto intorno allo stadio Olimpico. Mentre la gran massa degli spettatori - molti degli ultras - dava un esempio di responsabilità, tutt'intorno scontri con la polizia, gas lacrimogeni, sortite e cariche. Un'azione violenta e indiscriminata che ha avuto come attori solo poche centinaia di uomini. Alcuni dei quali in divisa.

Non ci nascondiamo dietro a un dito. Più volte, anche su queste colonne, analizzando il fenomeno ultras, ne abbiamo raccontato il bene e il male, i lati positivi e quelli negativi. Sì, anche quelli positivi, visto che ci sono: la solidarietà, l'attività in favore degli ospedali, il rifiuto della logica del risultato a ogni costo, uno spirito comunitario che non accetta logiche di mercato. Ma abbiamo anche segnalato per tempo fenomeni recenti di pericolosa involuzione, in atto in particolare fra gli ultras romani. In primo luogo, il ritorno (sia pure minoritario) di una logica vecchia, che vede la militanza ultras come voglia di azione senza freni, rifiuto dell'omologazione come rifiuto delle leggi minime della convivenza. Accanto ai gruppi più noti (ma spesso anche con la loro complicità e il loro assenso) ne sono nati di nuovi, che rivendicano lo spirito di «indisciplina» degli anni settanta e il ritorno alla white riot.

Accanto e più di questo, la politicizzazione crescente di alcune curve. Dopo i tempi lontani della pseudomilitanza di sinistra, la curva giallorossa è da diversi anni dominata (manu militari, quasi) da formazioni vicine alla destra antisistema. Gli ultras laziali, a loro volta, da anni egemonizzati da elementi dell'estrema destra, dopo un periodo di evoluzione che lasciava ben sperare, hanno costretto ad allontanarsi chi - tra l'altro con un consenso mediatico clamoroso - aveva cercato di superare una connotazione politica troppo marcata. Ne abbiamo già scritto. Da allora una spirale di slogan e manifestazioni sempre più decise. Basti leggere la fanzina venduta allo stadio per rendersi conto di come il sostegno alla squadra funzioni da veicolo per un discorso politico fatto di lotta alla società multietnica e di nostalgie filofasciste.

Intendiamoci. Gli ultras sono solo una minoranza degli spettatori delle curve. E non sono gruppi politici: il loro interesse primo, la loro attività fondamentale ruota intorno al tifo. Ma tra di loro, in alcune curve, non è difficile vedere che vi sono soggetti meno interessati al calcio che alla politica. Certo, una minoranza, che però con la forza e il consenso, la capacità organizzativa e l'attivismo, dirigono i molti. Non è difficile, così, sentire slogan contro i carabinieri anche quando la propria squadra sta soffrendo e andrebbe incitata. E non è difficile capire che sventolare in gruppo una ventina di bandiere italiane (quando non gioca la nazionale!) o cantare l'inno di Mameli (per di più a braccio teso) vuol dire lanciare un messaggio inequivocabile.

Dalla duplice spinta del ritorno alla «purezza» ultras e della crescita dell'attività politica in curva viene la spirale della violenza contro le forze dell'ordine. Che sono - dagli anni settanta - tra i primi bersagli della destra antisistema. E anche di parte degli ultras. Spirale alimentata - occorre dirlo - anche dal modo inadeguato con cui le stesse forze dell'ordine hanno affrontato il problema della «violenza negli stadi»: senza capacità di prevenzione, senza capacità di filtri agli ingressi (dove si sequestrano gli accendini ma non si riesce a intercettare i razzi), senza una risposta ai violenti che salvaguardi il 99% degli spettatori, assolutamente pacifici; senza saper evitare eccessi repressivi anche contro cittadini inermi. Insomma, rispondendo alle poche centinaia di violenti solo con le cariche e i lacrimogeni, non con un'opera di intelligence, con un uso delle tecnologie «moderne» che permetta di individuare i responsabili. Senza saper colpire con capacità investigativa la forza dei gruppi pericolosi.

Di cosa si lamenta il ministro dell'Interno? Di cosa accusa gli spettatori del derby del 21 marzo? Sono le decine di migliaia di spettatori presenti quella sera e in cento altre occasioni analoghe ad accusare lui e la polizia di incapacità preventiva, di rozzezza nella attività repressiva, di inesistenza di una efficace opera investigativa e di intelligence. Forse della stessa mancanza di volontà di colpire determinati gruppi. Non serve inasprire le pene o arrestare alla cieca nel gruppo o sbattere in galera qualche leader forse solo troppo conosciuto. Servirebbe dire in maniera chiara che nelle curve non c'è spazio per fare politica in forma mascherata o per trasformarle in luoghi (come già sono) in cui con la violenza si cancellano i diritti di libertà sanciti dalla Costituzione.

Se questo discorso venisse fatto in modo intelligente, non esasperato, senza prevaricazioni e ingiustizie, senza spirito di vendetta, avrebbe il consenso della grande massa degli spettatori e dei tifosi, a Roma come altrove. Ma questo Stato, questo governo, questa polizia sono capaci oggi di fare ciò, o sanno solo sparare lacrimogeni nel mucchio?

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