Ultras
e calcio, strade vecchie e senza uscita
La notte di violenza del derby romano ha spinto il
movimento delle curve in un vicolo cieco dal quale sarà difficile
uscire. Ma è il calcio italiano più in generale ad annaspare tra
contraddizioni gravissime che, senza regole nuove, rischiano di uccidere
lo sport più amato dagli italiani
Gli ultras sono oggi al centro della scena. Bersagliati
da ogni parte, vivono momenti difficili. Ma è il calcio italiano più
in generale ad annaspare tra contraddizioni gravissime. Sia i primi che
il secondo sono avvitati in una spirale di crisi da cui sarà difficile
venire fuori. La cronaca ha sbattuto in prima pagina il «mostro ultras».
Paradossalmente, verrebbe da dire, perché la decisione di adoperarsi
per fermare lo spettacolo di fronte alla morte di un tifoso appare
ineccepibile. Fortunatamente non era morto nessuno, ma nel momento in
cui la notizia appariva quanto meno probabile, decine di migliaia di
persone hanno imposto, in forme tutto sommato civili, soltanto la
sospensione della partita. Mostrando un'etica ben maggiore di chi è
incapace di fermarsi di fronte a tragedie di ogni genere, dalle Torri
gemelle alla strage di Madrid, alla morte di un tifoso, perché lo show
(il business) deve andare avanti, sempre e comunque. Il problema vero,
però, è il contesto in cui questo episodio si è verificato. Intorno
allo stadio si susseguivano da ore scontri tra gruppi di tifosi e forze
dell'ordine. Nelle curve echeggiavano puntuali i cori e gli insulti
verso la polizia e i carabinieri. Striscioni e cori dal contenuto
rivoltante trovavano spazio nell'una e nell'altra curva. Nessuna
sorpresa: rimossi in fretta i progetti che nella primavera scorsa lo
stavano configurando come principale antagonista del «calcio moderno»
e della sua deriva neoliberista, il movimento ultras sembra tornato a
seguire logiche estranee al tifo calcistico propriamente detto. La
politica e la violenza sono tornate padrone delle curve. La questione,
beninteso, non riguarda soltanto la Capitale; e non riguarda neppure
soltanto l'iniziativa politica di gruppi neofascisti. Se, come sembra
possibile, Livorno e Ternana conquisteranno la serie A, ad occupare le
prime pagine il prossimo anno saranno i nomi e i simboli propri
dell'ultrasinistra, compreso Stalin et similia. Nelle curve romane però
l'egemonia incontrastata è di quel coagulo di forze che fanno
riferimento alla destra antisistema. E qui la scelta, tutta politica, è
stata quella di puntare sulla trasformazione del movimento ultras in
soggetto dell'antagonismo sociale. Una scelta che è insieme ambiziosa,
complessa e assai rischiosa. L'ambizione sembra quella di proporre il
movimento degli ultras come alternativa al movimento no-global. Rifiuto
intransigente della globalizzazione e della società multirazziale in
nome della difesa della identità culturale, razziale e nazionale;
critica del pacifismo ma opposizione ferma alla guerra delle forze
sioniste e anglo-americane: questi, in breve, i temi forti che
accompagnano, nelle fanzine, nelle radio e negli striscioni delle curve,
la comunicazione calcistica dei gruppi ultras romanisti e laziali.
L'accentuazione delle tematiche politiche, però, limita la capacità
espansiva degli ultras e li espone all'incomprensione e all'ostilità
degli altri tifosi. Insistere con la politica, la violenza, il razzismo
porterà il movimento ultras a un punto di non ritorno. Le (prevedibili)
ondate repressive dello Stato avverrebbero allora nell'indifferenza o
addirittura nel consenso generale. Chi ha a cuore davvero il mondo delle
curve deve chiedersi se perseverare sulla strada della politicizzazione
e della violenza non significhi percorrere fino in fondo una strada
senza uscita e autodistruttiva.
Il sistema-calcio da parte sua sta vivendo in Italia momenti di
straordinaria fibrillazione. Staremo a vedere se e come si uscirà dalle
attuali contraddizioni. Abbiamo letto, tra il sorpreso e il divertito,
le dichiarazioni di Galliani: «Roma e Lazio vanno protette. Ho
affrontato le due squadre in Coppa Italia, l'atmosfera magica
dell'Olimpico è qualcosa di incredibile. Non possiamo immaginare un
campionato senza queste due grandi squadre». Noi vogliamo porre questa
questione: ormai da anni nessuno in Italia è in grado di contrastare,
senza finire in rovina, la potenza economica, politica e mediatica del
Milan targato Fininvest e della Juventus della famiglia Agnelli e dei
dieci milioni e passa di suoi tifosi. L'Inter ha potuto contare su mille
miliardi e più del portafoglio personale di Moratti, finendo però
puntualmente (al di là dei propri errori di gestione) nel tritacarne
della comunicazione sportiva gestita dagli altri; la Roma invece ha
apparati egemonici (la Rai soprattutto) sufficientemente forti per
tutelare la sua immagine, ma nelle casse non c'è più un soldo; la
Lazio e il Parma, svelati i bluff Cirio e Parmalat, ormai sono due vasi
di coccio dispersi tra le acque delle isole Cayman.
In questa cornice, troviamo poco appassionante il dibattito tra
neoliberisti (di destra e di sinistra) che invocano il fallimento dei
club indebitati come molla per avviare il risanamento e protezionisti
(anch'essi bipartizan) che chiedono la tutela dei club delle grandi aree
metropolitane come condizione per tenere in vita il nostro calcio.
Ricominciare dalla serie C non è un disonore. È già toccato a grandi
club. Il problema vero è che non è più sostenibile un calcio
modellato su chi ha più soldi e più potere degli altri in misura
spropositata. Milan, Juventus e (forse) Inter oggi possono
tranquillamente «saccheggiare» tutte le altre squadre, anche a buon
mercato, semplicemente garantendo ingaggi più alti ai giocatori.
Possono tranquillamente costruire le loro «macchine perfette», battere
ogni record di punti, specchiarsi felici nei loro giornali e nelle loro
televisioni.
Quello che non possono più pretendere però è la complicità.
L'Olimpico, il San Paolo, il Franchi non sono anfiteatri in cui le folle
applaudono i fuoriclasse altrui. Gli anni `60 non tornano più. Dal
vicolo cieco in cui è finito il calcio italiano non si esce
distribuendo prebende a società da tenere sotto scacco negli anni a
venire. Se ne esce cambiando le regole, organizzando campionati in cui
sia garantito tendenzialmente a tutti almeno la possibilità di
competere per la vittoria finale. In cui la forbice delle risorse tra i
più ricchi e i meno ricchi non superi certe dimensioni. Solo così sarà
possibile evitare che il «campionato più bello del mondo» si riduca
definitivamente a una sorta di Trofeo Berlusconi che ogni anno Milan e
Juve si giocano tra loro. di Guido Liguori e Antonio Smargiasse dal
Manifesto
Il giro di vite del
Viminale
Biglietti elettronici e steward. Dopo il derby,
ecco le norme anti-ultrà chieste da Berlusconi. Pronto un pacchetto per
la prossima stagione: stadi più sicuri
Stadi ancora più blindati, con metal detector e
"tornelli" agli ingressi, biglietti elettronici, posti
numerati e a sedere e poi, come in Inghilterra, steward che
affiancheranno la polizia negli impianti. Ma niente celle negli stadi,
come succede oltre Manica: non esageriamo, siamo in Italia. Ecco pronto,
il pacchetto di misure anti-violenza chiesto da Silvio Berlusconi dopo
lo scandaloso derby di Roma. Se ne parlerà forse già oggi in Consiglio
dei ministri, anche se non è previsto nell'ordine del giorno.
Il premier, martedì sera a San Siro, aveva chiesto nuove
"proposte". Eccole, sono pronte: affiancheranno le misure
attuali, scatteranno dalla prossima stagione.
Il Viminale, d'altronde, era già corso al riparo dopo i gravi fatti di
Avellino, dove morì un giovane tifoso e gli ultrà del Napoli invasero
il campo. Il primo giro di vite fu sui biglietti: proibita la vendita ai
tifosi avversari il giorno della partita. Ha funzionato, anche se è
stata contestata dal fronte ultrà.
"Siamo pronti a vietare le partite a rischio", disse, a
settembre 2003, il ministro Pisanu. Possibile inoltre per i prefetti far
giocare gli incontri in campo neutro e a porte chiuse: questa sorte
potrebbe toccare al derby di Roma, quando il giudice sportivo, martedì
prossimo, stabilirà la ripetizione.
E poi via con le nuove misure, alcune di non facile soluzione: i metal
detector, ad esempio, sono poco pratici, e costringerebbero la polizia
ad aprire i cancelli degli stadi molte ore prima delle partite. Con
lunghe file, e crescente nervosismo: forse dovrà essere accantonata.
Ma gli impianti dovranno essere modernizzati, e sugli spalti, il
prossimo anno, ci saranno anche gli stewards. Come succede in
Inghilterra: anche se lì hanno poteri, essendo gli impianti proprietà
dei club. Gli stewards italiani saranno istruiti dalla polizia, che
potranno affiancare in compiti di "accoglienza e assistenza"
ma mai sostituire, e saranno pagati dai club (non si sa ancora quanto).
Il nodo principale però è quello degli stadi: inadeguati, pericolosi,
vecchi. Basti pensare che gli impianti italiani sono stati declassati
recentemente dall'Uefa e nessuno stadio può ospitare una finale di una
Coppa europea. La può ospitare lo stadio Ataturk di Istanbul (succederà
il prossimo anno), non può farlo né San Siro e nemmeno l'Olimpico. Una
vergogna: e pensare che la Figc vuole chiedere la candidatura per gli
Europei 2012.
"Entro due anni - spiega Andrea Valentini, presidente del Credito
Sportivo - dobbiamo presentare il progetto per otto impianti: sinora
nessuno risponde ai requisiti dell'Uefa. Questa è l'occasione giusta
per risolvere anche il problema della sicurezza". Torino (Delle
Alpi con la Juve e Comunale col Toro), Messina, Perugia, Empoli, Siena e
Napoli stanno già pensando a impianti nuovi.
Ieri inoltre summit interministeriale da Gianni Letta, a Palazzo Chigi:
si è parlato di sicurezza alle Olimpiadi di Atene e agli Europei di
calcio in Portogallo. Mentre nella riunione settimanale
dell'osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive, diretto dal
responsabile dell'ordine pubblico del Viminale, Francesco Tagliente,
verranno date disposizioni ancora più rigide ai questori per domenica
(e anche stasera...): gli ultrà non potranno diventare i padroni degli
stadi. Questo è l'ordine di Pisanu e del capo della polizia, De
Gennaro. di Fulvio Bianchi da La Repubblica
Il derby di Paparelli:
«Non c'erano i cellulari...»
Domenica sera, quando all'Olimpico si è diffusa la
notizia della morte di un bambino negli scontri che hanno preceduto
l'inizio del derby, tutti hanno pensato a Vincenzo Paparelli, il tifoso
della Lazio che perse la vita nella stracittadina del 1979 dopo esser
stato colpito da un razzo lanciato dalla curva romanista. Quella volta,
nonostante tutti sapessero ciò che era successo, la partita non fu
interrotta. «Prima dell'incontro - ha ricordato ieri l'arbitro Pietro
D'Elia che diresse la sfida - ebbi un colloquio con il Prefetto e
avvertimmo i giocatori. Erano scossi e non ci fu alcun invito da parte
delle curve a non giocare. Lì il morto c'era davvero e pesò molto il
fattore tempo: allora i cellulari non esistevano...». Venticinque anni
dopo, l'ex giacchetta nera ricostruisce la domenica più triste della
sua carriera: «Ero cosciente di quello che facevo. Se non avessimo
iniziato quella partita, dopo fuori ci saremmo ritrovati con 70mila
persone impazzite che magari avrebbero sfaciato tutto. Invece, facendo
cominciare l'incontro, riuscimmo a prendere tempo per far calare la
tensione che era altissima. Ma siamo stati fortunati: non ci furono
episodi contestati, i giocatori si dimostrarono molto corretti, finì
1-1 e non successe niente». D'Elia, che tra gli anni `70 e `80 fu
arbitro internazionale, assolve il collega Rosetti che domenica scorsa
ha sospeso la partita dopo aver parlato al telefono col presidente della
Lega calcio Galliani: «Al suo posto anch'io avrei fatto la stessa cosa:
c'erano i tifosi in campo, i giocatori sotto pressione che chiedevano di
non giocare, si è ritrovato il telefono in mano: dopo quello che gli ha
detto Galliani, non poteva fare diversamente». Si è mai pentito di
aver fatto disputare una partita di calcio con un morto sugli spalti? «Non
so dire se fummo più bravi noi a gestire la situazione oppure solo
pazzi e incoscienti. E' una domanda che in tutti questi anni mi sono
fatto ripetutamente e ancora non mi sono dato una risposta. Ci potevano
essere conseguenze ben più gravi ma a giudicare da come sono andate le
cose, posso dire che abbiamo fatto bene a far giocare quel derby».
I fondamentalisti della
domenica
Lo stadio come un tempio: fra delirio e ironia
NOI TIFIAMO NOI, dice lo
striscione. Questa dichiarazione, insieme ironica e autistica, offre un
punto di partenza per chi vuole capire piuttosto che semplicemente
condannare il mondo degli ultras. Avverte che è un movimento che mette
la propria esistenza al di sopra di ogni altra considerazione. Per gli
ultras, infatti, il club e i grandi campioni/mercenari del calcio
moderno, altro non sono che un male necessario che permette lo svolgersi
del delirio collettivo domenicale nello stadio.
Nell'ambito della nostra nostalgia moderna per qualche tipo di comunità
che ci possa restituire un senso di forte e agguerrita solidarietà, gli
ultras hanno evitato i peggiori degli eccessi. Non sono una associazione
criminale, né, se si esclude qualche sgradevole coreografia, hanno
qualcosa a che spartire con il nazismo. Hanno inventato invece una forma
di fondamentalismo part-time, dentro il quale si possono godere tutte le
emozioni di una comunità in guerra, ma senza la necessità di una causa
reale riconducibile al mondo della politica o del lavoro. E' proprio
questo agire senza causa (al di là dei colori di una bandiera) che
infonde a certi gruppi di ultras la loro corrosiva ironia. Sono
l'opposto del politically correct.
Ma per fare i Talebani del fine settimana ci vogliono nemici. "Voi
esistete in quanto noi vi odiamo", scrive un ultrà veronese alla
sua controparte vicentina sul net. E aggiunge: "Dovreste
ringraziarci!". Ha ragione. I vari gruppi di ultras che si
picchiano a vicenda sono dei falsi nemici. Sotto sotto hanno bisogno
l'uno dell'altro. Come si fa a sentirsi profondamente milanista senza
quelli dell'Inter da odiare?
Invece, da quando si è deciso che bisogna metter fine a questi scontri
con l'intervento massiccio della polizia, ecco che tutti gli ultras
acquistano un nemico nuovo, e per lo più ben armato ed equipaggiato,
cosa che rende più intenso il conflitto e che apre la strada a un
fronte comune tra tifoserie nemiche, una nuova e più cupa identità.
La polizia merita tutto il nostro sostegno e simpatia. Ma non sempre
gestisce bene la faccenda. Ci sono atteggiamenti aggressivi anche quando
la situazione è delle più calme. Mi ricordo di un poliziotto fuori di
San Siro che ha sputato sul tifoso davanti a me, per nessun motivo. Dal
momento che il tifoso più mite può sentirsi vittima, si è creato un
clima favorevole alla violenza.
Ma neanche la polizia è il vero nemico degli ultras. Che è la
televisione. E' in questa chiave che va letto quello che è successo a
Roma domenica sera. Per presentare il calcio a un vasto pubblico
rispettabile, la tv richiede l'eliminazione degli spettacoli sgradevoli.
Gli ultras devono scomparire per proteggere un business. Aver guastato
il piacere sedentario a milioni di spettatori attraverso la fantasia di
un tifoso vittima della polizia, ecco una grande vittoria per gli
ultras.
Ma perché non distruggerli con la repressione e basta? Gli inglesi ci
sono riusciti. Pochi però fanno notare che negli anni in cui Highbury e
Anfield sono diventati sicuri come dei cinema e costosi quanto l'opera
lirica, la violenza delle gang nella periferia di Londra è aumentata in
modo vertiginoso. Si va sicuri allo stadio il sabato, ma certe strade di
notte bisogna proprio evitarle. Meno male, però, che questa violenza,
meno spettacolare e ritualizzata, miete le sue vittime lontano
dall'attenzione delle telecamere. di Tim Parks
Quando ero ultrà senza
se e senza ma
"Perché smisi di far parte della curva
nord"
Il pomeriggio di quasi trent'anni fa in cui mi sono
dimesso da ultrà si giocava Bologna-Verona, lo stadio era pattugliato
dalle forze dell'ordine ma, in una strada adiacente, trenta di noi
circondarono un ragazzo, poi qualcuno ordinò: "Barilli, vai
solo!". E Barilli si avvicinò, alzando il pugno per colpire.
Andavo alla partita con un gruppo di compagni di scuola. Facevamo il
liceo classico, leggevamo García Márquez, simpatizzavamo per l'estrema
sinistra (ma il mio amico del cuore era monarchico), consideravamo il
momento più alto dell'estetica non Hegel ma quello in cui Beppe Savoldi
rimaneva sospeso in aria un istante più dei comuni centravanti prima di
colpire di testa e insaccare. E frequentavamo la Curva Nord.
Avevamo uno striscione poco di lato rispetto a quello dei Commandos
Rossoblù. Costituivamo una cellula satellite. Indossavamo giacche
mimetiche comprate sui banchi dell'usato. Nella tasca, con il nome di
battaglia scritto a pennarello, nascondevamo un martelletto rubato sugli
autobus di linea, quello che stava accanto ai finestrini per
"rompere il vetro in caso di emergenza". Il caso, più che la
coscienza, ci evitò di farne uno sciagurato uso. Partecipavamo a
riunioni strategiche in un circolo del bowling.
I capi, che ammiravamo, avevano soprannomi poco temibili
("Bimbo" "Alderman", solo "Barilli" era
Barilli, per questo l'ho cambiato), ma una determinazione assoluta. Il
sabato sera apparivano raffinati strateghi, domenica pomeriggio arditi
guerriglieri, il lunedì lavoravano. Ne incontrai uno all'ingresso di un
bagno pubblico. Era il custode: per entrare dovetti dargli cento lire.
La sua necessità di sfogo era da manuale.
Noi, invece, studiavamo il greco. Ma la violenza, in una biografia
maschile, è un rito di passaggio. Sperimentarla, quando va bene, è il
preludio per rinunciarvi e poi combatterla conoscendola. Michael Jordan
è diventato il miglior giocatore di basket di tutti i tempi perché (è
lui stesso ad aver individuato la causa) ha "sbagliato novemila
tiri". Noi sbagliavamo spesso: aspettammo, sampietrini nella mano,
un arbitro che non aveva fischiato un decisivo rigore contro la
Sampdoria, distruggemmo un treno al ritorno da uno zero a zero a Cesena.
C'erano valori rovesciati e l'effetto era, al tempo stesso, terribile e
ridicolo.
All'uscita di un Fiorentina-Bologna, un gruppo di ultrà viola (il loro
comandante era "Pompa") ci chiuse in un angolo. Qualcuno mi
mise la mano alla gola e fiero proclamò: "Io sono molto più
figlio di puttana di te!". Non c'era possibile replica, né a
parole né a gesti. La superiorità era evidente. Come cantava
Vecchioni: "La mia paura non bastava a farmi dire basta". Si
poteva subire, non arrendersi. "Duri, ma con gioia", insegnava
Bifo, pensatore del Movimento Studentesco. Continuammo a presentarci
sugli spalti anche quando fu venduto Savoldi e il calcio ci rivelò la
sua faccia mercantile. Poi ci fu Bologna-Verona, prima del girone di
ritorno.
La partita d'andata era stata tragica, soprattutto per quello che era
avvenuto fuori dal campo (il risultato neppure lo ricordo, né
importava). C'erano stati scontri fra le due tifoserie, divise allora
anche da una rivalità politica. I giornali ne avevano data una
versione. Quella che circolava tra gli ultras era amplificata. Chi si
stupisce oggi per l'effetto valanga della falsa notizia dell'Olimpico
non sa che esattamente così funziona nell'ambiente: a ogni passaggio la
vicenda si ingrossa.
Alla fine i "veronesi" avevano teso agguati e selvaggiamente
picchiato "le nostre donne e i bambini". Tutto il girone
d'andata era stato trascorso a programmare la vendetta. Nel giorno
designato le prime ronde erano state mandate fin dal mattino alla
stazione e ai caselli autostradali. Né un treno, né un pullman. Fu
presto evidente che i "veronesi" non sarebbero venuti. Non in
massa, si disse. Ma alla spicciolata, si volle immaginare, sì. A due a
due. O soli, per meglio ingannare chi li cercava. Bisognava piantonare
gli ingressi e smascherarli. Furono formati gruppi composti da decine di
elementi. Si aggiravano intorno al perimetro dello stadio o sostavano
davanti ai cancelli, scrutando chi passava. A un certo punto, accanto
all'entrata della piscina, fu individuato un elemento sospetto. "E'
un veronese!", gridò qualcuno. La pattuglia accorse. Lui negava,
scuotendo la testa. Non riusciva a parlare, non era possibile valutarne
l'accento. Il gruppo l'accerchiò, lo spinse contro l'inferriata,
sovrastandolo. Gli chiesero un documento. Mormorò di averlo dimenticato
a casa. Giustizia sommaria fu invocata: "E' un bugiardo! E' un
veronese! Mi ricordo la faccia!", mentì qualcuno. Quel ragazzo avrà
avuto 25 anni, corporatura normale.
Solo, contro trenta. La sentenza fu emessa: colpevole. Di essere
"veronese". La condanna fu decisa. Fu una scelta doppiamente
vigliacca. Eravamo in trenta.
Ma il capo ordinò: "Barilli, vai solo!". L'iniqua legge del
più forte fu mascherata dietro un paravento di fasulla legittimità.
Voleva sembrare uno spiraglio di lealtà, fu la meschinità senza
ritorno. Uno contro uno, ma davvero, forse il "veronese" (o
quel che era) avrebbe battuto Barilli. L'avrebbe, almeno, affrontato.
Così, si rannicchiò per subire. Ci guardammo, io e il mio compagno di
liceo. E in quel momento capimmo. Né duri, né con gioia. Non eravamo
eroi e stiamo ancora cercando la nostra strada. Non avemmo il coraggio
di metterci di mezzo, soltanto la sensatezza di andarsene per sempre.
Buttammo le mimetiche in un cassone e riappendemmo il martelletto
sull'autobus che ci riportava a casa. Comunque sia finita la partita,
evitammo di perdere la nostra. di Gabriele
Romagnoli da La Repubblica
Fenomenologia
dell'ossessione da stadio
Il tifo, le tribù del calcio con le sue frange
estreme, i suoi rituali e i suoi miti: chi sono, che cosa pensano e come
agiscono. Quello che è accaduto nel derby romano mostra i caratteri
arcaici e moderni della violenza
Si pronuncia ùltras, senza fisime linguistiche. Possono
essere battaglioni, brigate, commandos, del sud, del nord e del centro,
ma comunque con gli ultras i sociologi vanno in difficoltà, perché
tutte le analisi analizzano in parte e tutte le spiegazioni spiegano
parzialmente. Degrado sociale che fluisce negli stadi? Sì, ma non
esclusivamente. Subalternità culturale che crea le proprie liturgie?
Fino a un certo punto. Bacino di reclutamento di una destra borgatara e
irriducibile? Perché no, ma non solo. Veniva molto più facile il
vecchio ragionamento di Gianni Brera, secondo cui fra le decine di
migliaia di spettatori della cerimonia domenicale era fisiologico che
allignasse qualche centinaio di facinorosi, e che tutto si dovesse
risolvere quindi con sobrie azioni di polizia.
Solo che l'uso dei manganelli e delle cariche con gli scudi di
plexiglas, come delle perquisizioni, delle schedature, delle telecamere,
e delle condanne penali, non ha risolto i problemi sollevati dal
cosiddetto "tifo organizzato". Dunque non è soltanto una
questione di ordine pubblico.
Le stesse biografie dei capi ultrà scesi sul terreno dell'Olimpico
domenica sera a parlamentare con i giocatori di Roma e Lazio risultano
sorprendenti, se uno pensa alle aree dell'esclusione sociale: un
promotore finanziario della Mediolanum, un cameraman della trasmissione
Amici. I primi arrestati appartengono per professione al terziario più
o meno avanzato. Il gruppo "Tradizione Distinzione", che si
richiama ai "valori" dell'estrema destra, controlla un sito
internet in cui si sfiora il pensiero antimoderno di Julius Evola, con i
Carmina Burana di Carl Orff come sigla. Sarebbe improprio quindi pensare
astrattamente a esponenti di un'alterità sociale che si auto-organizza,
a un mondo esplicitamente a parte che si costruisce un'identità in
un'enclave della marginalità.
Sembra piuttosto che i militanti ultrà siano gente che entra ed esce
dal confine della collettività ufficiale. La stessa "cultura"
delle fazioni organizzate è un ibrido di mitologie: fa da mastice
spesso un'eco di destra, di cui sono un indizio le svastiche e i saluti
romani, come pure gli slogan indegni tipo "squadra de negri, curva
de ebrei", e i nomi delle bande ("Giovinezza",
"Arditi"), non di rado infiltrate da movimenti ultrafascisti.
L'altro aspetto notevole che si trae dalle cronache è dato, almeno a
Roma, dalla contiguità dei gruppi ultrà con la criminalità comune. Ma
ogni stadio ha le sue identità, e all'"eja eja alalà" può
sostituirsi Che Guevara, il richiamo all'intifada, in un sincretismo
politico-emotivo in cui destra e sinistra sono semplici sfumature
dell'identità scelta.
Alcune caratteristiche di fondo del comportamento ultrà sono tuttavia
inconfondibili. La prima è una gerarchia fortissima, con leadership
riconosciute e modalità espressive, nelle curve, coordinate con rigore
militare. A seguire, un codice comportamentale basato su vincoli e
criteri elementari tipici delle comunità omertose. Il legame di lealtà
malavitosa induce a definire "infami" i collaborazionisti o i
"traditori". Lo scontro con la polizia è un momento simbolico
potentissimo, modulabile dal minimo (il coro efferato "mestiere /
di merda / carabiniere") al livello massimo, cioè l'attacco, gli
incendi, i vandalismi, il conflitto aperto con tecniche da guerriglia
urbana.
E' questa lealtà militante che ha indotto le fazioni organizzate del
tifo, in una società di serie A del Nord, a considerare uno sgarro
gravissimo il fatto che durante l'attuale campionato un centrocampista
abbia osato portarsi a letto la moglie di un capotifoso: obbligando di
fatto l'allenatore a concedere al colpevole alcune partite di turnover,
per evitare l'insurrezione dei tifosi così collettivamente offesi.
Alcuni anni fa uno dei più sofisticati sociologi italiani, Alessandro
Dal Lago, aveva posto come titolo a un suo saggio, dedicato ai rituali
del calcio, Descrizione di una battaglia. La citazione da Kafka serviva
ad alludere a una certa inesplicabilità di ciò che avviene sugli
spalti: la psicologia collettiva degli ultras deve trasformare ogni
fatto in evento, e ogni catena di eventi in mito. Il legame con la
squadra e con i giocatori-simbolo (quei pochi che restano, dopo la
liberalizzazione innescata dalla sentenza Bosman) viene evocato come una
unione mistica, che travalica i responsi del campo, un esserci che si
perpetua nella memoria comune.
Una "pazza fede", come l'ha chiamata lo scrittore
anglo-veronese Tim Parks? Di più, un'invenzione continua della fedeltà,
una mobilitazione emozionale che consente di credere nella propria
religione, esattamente allo stesso modo in cui mitologizza la falsa
morte di un bambino in seguito a una falsa carica della polizia.
Facile a descriversi, il modello della comunità ultrà, con le sue
commozioni corali, le delusioni rabbiose, e soprattutto la sua ostilità
anti-istituzionale, diventa una nebulosa articolatissima se si pensa
alle organizzazioni che controllano il piccolo merchandising calcistico,
al giro delle radio romane che fanno da megafono a ogni sospiro di
mercato, all'opacità perdurante, nonostante le smentite, nei rapporti
fra tifoserie e società, al clima di ricatto che si instaura con
presidenti, allenatori e giocatori (esemplare il caso del romanista
Panucci che deve chiedere pubblicamente scusa agli ultras per essersi
rifiutato di entrare in campo dalla panchina).
Difficilmente la crisi del calcio nazionale travolgerà anche l'universo
ultrà. Perché finora si è vista una spettacolare capacità di
assimilare e manipolare eventi e significati globali e locali, Er
Polpetta e il culto nazista, l'agit prop radiofonico Marione e la
brigata "Charlemagne". Se domani gli "eroi" della
curva sud inventeranno una brigata Al Qaeda, sarà la dimostrazione
finale che l'ideologia del tifo è capace di fagocitare tutta l'attualità
e di assimilarla, come tutto il resto, come la banda della Magliana e i
Nar, nella "nazione ultrà". Ùltrà crede solo alla propria
leggenda. La sua guerra è talmente asimmetrica da renderlo praticamente
invincibile. di Edmondo Borselli da La
Repubblica
"A pagare sono
solo gli ultras"
Parla Carlo Balestri, responsabile di Progetto
Ultrà. "All'Olimpico non c'è stata nulla di preordinato".
"I vertici del calcio sempre assolti". "Se ci fosse stato
il morto si parlerebbe di una prova di civiltà"
"Nel momento in cui c'è
un sistema calcio che si autoassolve sempre e in cui gli unici a pagare
sono gli ultras, diventa difficile nelle curve ascoltare i vertici del
pallone che stigmatizzano la violenza". Carlo Balestri,
responsabile di Progetto Ultrà, a due giorni del derby dell'Olimpico,
legge così il clima che si respira negli stadi italiani.
Per farlo Balestri ricorda come alcune tifoserie abbiano espresso con
striscioni e cori la loro opposizione al cosidetto "decreto
spalmadebiti". Un ragionamento che potrebbe essere sintetizzato così:
società, dirigenti e Lega trovano sempre "una scappatoia" per
autoassolversi dopo aver commesso errori e illegalità. Una scappatoia
che agli ultras è negata.
E sulla serata dell'Olimpico, il responsabile di Progetto Ultrà
afferma: "Diciamo la verità, se il morto
ci fosse stato davvero, i giornali di questi giorni parlerebbero di una
grande prova di civiltà dei tifosi".
Che impressione ha avuto vedendo le immagini dell'Olimpico?
"C'era un ambiente molto teso, con alle
spalle un conflitto tra tifosi e forze dell'ordine che dura da tempo. A
questo, poi, vanno aggiunte le tensioni per la situazione societaria
della Roma e le polemiche sul decreto spalmadebiti. Insomma un mix che
ha creato una situazione esplosiva".
Un terreno fertile dove ha preso piede la notizia, falsa, della morte di
un ragazzo ad opera delle forze dell'ordine?
"Direi di sì, e in quel clima uno stadio
intero, dalla curva alla tribuna ha creduto che quelle notizia potesse
essere vera e ha invocato la sospensione".
Ma come mai non ha avuto uguale credito la smentita della questura?
"Perchè in certe situazioni uno si fida
più del vicino di posto che di un annuncio al megafono. Passa l'idea
che le autorità non la raccontino giusta, magari per far continuare la
partita".
Qualcuno parla di un piano preordinato. Lo ritiene possibile?
"No, se fosse stata una cosa decisa a
tavolino, sarebbe stata rivendicata in qualche modo. E invece non è
accaduto".
C'è chi punta l'indice sui rapporti troppo stretti tra società e
gruppi ultras.
"Non credo si possa generalizzare. Certo
in alcuni casi ci sono e servono alle prime per avere meno problemi con
la tifoseria, e ai secondi per ottenere favori e agevolazioni".
23 marzo 2004
"Estremisti
infiltrati in curva"
Le tifoserie di Roma e Lazio si sono spostate a
destra. L'allarme per gli incroci con la malavita. Ecco tutti i nuovi
padroni
L'ultimo gruppo della Curva Sud, fondato nel corso
dell'ultimo Roma-Juventus, il 4-0 diventato icona con il gesto di Checco
Totti a Tudor - "quattro gol e a casa" -, si chiama
Giovinezza, ma loro, ragazzi di Portuense con sciarpa e scooterone,
negano abbia a che fare con la mussoliniana primavera di bellezza. Prima
si chiamava "Montemario", il gruppo, e identificava un bel
quartiere residenziale della Capitale, ora Giovinezza. Max Leggeri sulla
locale Radio Incontro parla impettito di "Roma culla della civiltà"
e sostiene che tacciare la curva giallorossa di estremismo sia solo un
modo di negare la voglia di politica che alberga nei suoi giovani
frequentatori: "Non possiamo lasciare l'impegno ai politici di
mestiere", spiega in tv, infastidito, al sottosegretario Mario
Pescante.
Poi c'è Mario Corsi, per tutti il Marione. Leader, altroché. La sua
storia è pesante almeno quanto le repliche che regala agli ascoltatori
di "Rete Sport": "Ma come ve lo devo spiegà che Capello
nun conta un c... e se nun ve sta bene cambiate canale". Mario
Corsi, oggi, consiglia Totti, corre a Perugia a consegnare
all'allenatore Cosmi una maglietta con dedica, affida il suo pensiero al
sito Internet "Marione. net", carico di pubblicità, e regala
alle tv nazionali perle di saggezza romanista. Ieri, però, ha avuto una
storia di violenza neofascista. Come militate dei Nuclei armati
rivoluzionari è entrato nelle indagini per l'assassinio di Fausto e
Iaio, due ragazzi del Leoncavallo di Milano uccisi per strada: l'hanno
indagato nel '79, reindagato nel '91 su indicazioni del pentito Izzo,
quindi il gip Forleo nel 2000 l'ha prosciolto riconoscendo
"significativi elementi" a carico suo e di due camerati,
"significativi ma non sufficienti". Accusato dell'omicidio del
simpatizzante del Pci, Ivo Zini, colpito a Roma da una Vespa in corsa,
Mario Corsi è stato prosciolto in primo grado, condannato a 23 anni in
appello e riassolto in secondo grado dopo un intervento della
Cassazione. In gioventù assaltatore di scuole e cinema romani, nella
maturità, otto anni fa, viene arrestato insieme a sei ultrà di Boys
Roma e Frangia ostile: minacciava per ottenere accessi gratis allo
stadio, irrompeva nelle radio private per costringere gli speaker a
leggere i suoi comunicati.
Compagno di viaggio del Marione è "il Mortadella", Fabrizio
Carroccia, amico personale di Luciano Moggi: fu al centro di una
grottesca storia di arbitri e designazioni esplosa dopo Juve-Inter
dell'aprile '98 (la partita del rigore negato a Ronaldo). Ogni tanto
qualche ascoltatore ricorda al neoMarione, agitatore radiofonico, il suo
curriculum vitae, e lui sul passato replica: "Ci sono tanti giudici
che non mi hanno mai ritenuto responsabile di alcun omicidio".
Sbanda così, terribilmente a destra, il tifo romano del Duemila. E lo
stadio, compresi pezzi interi di curva, inizia a non sopportarlo.
Nell'autunno del '94 una spedizione di ultrà romanisti e laziali partì
unita per spezzare le reni ai leghisti di Brescia e mandò in coma un
vicequestore di polizia. Cinque stagioni fa gli storici Cucs sono stati
spodestati dalla ringhiera centrale della curva a colpi di coltello:
s'insediarono gli ultrà, "As Roma".
In questo crogiolo di passioni che è la curva dell'Olimpico, Sud e Nord
indistintamente, s'infila con spregiudicata facilità la criminalità
romana, rapinatori assoldati dalla mafia catanese per esempio. Li hanno
arrestati nell'estate 2003, dopo 33 colpi: tra loro c'era "Er
Polpetta", protagonista degli scontri con i turchi del Galatasaray.
L'esperienza della banda della Magliana sembra perpetuarsi all'infinito
in un incrocio tifo-politica-delinquenza organizzata che fa di Roma un
luogo sportivo inedito e dalla pericolosità totale.
Spiega l'ultimo rapporto Digos: "Il movimento di estrema destra
"Base autonoma" ha infiltrato militanti nei gruppi
"Tradizione e distinzione" della Roma e
"Irriducibili" e "Banda de Noantri" della Lazio
contribuendo a far superare la storica rivalità tra le due
tifoserie". Oggi il terzino Panucci deve chiedere scusa a Paolo
Zappavigna, leader dei Boys, per essersi rifiutato di entrare in campo
durante Reggina-Roma. E oggi i gruppi ultrà del centro-nord provano a
isolare il tifo estremo romano. La manifestazione contro "la
repressione e il calcio Sky" indetta nella capitale nell'aprile
2003 si trasformò, non a caso, in una lugubre sfilata di braccia tese,
Sieg Heil e cappellini "Charlemagne". Era la brigata francese
delle Ss che fino all'ultimo giorno difese Adolf Hitler assediato a
Berlino. di Corrado Zunino da La Repubblica
Ultrà a comando
A pensar male si fa peccato... Beh, davanti a quello che
è successo l’altra notte all’Olimpico e pensando a quello che
sarebbe potuto accadere pensare male è un dovere. Che sul terreno di
gioco c’erano capitifosi che dettavano legge è un fatto, testimoniato
dalle immagini televisive. Che il presidente di un’associazione
privata come la Lega calcio si sia arrogato il diritto di prendere una
decisione di ordine pubblico sulla pelle di ottantamila persone è un
altro inquietante aspetto di quella notte di follia.
Galliani nel suo delirio di onnipotenza berlusconiana non può
sostituirsi ad un prefetto, che non ha sentito neanche il bisogno di
interpellare. Esiste ancora uno Stato, esistono ancora persone che
istituzionalmente devono provvedere all’incolumità dei cittadini
oppure siamo al fai da te?. E Galliani non può consolarsi con il fatto
che non c’è scappato il morto. L’altra notte è stato dato un
inquietante segnale: è la violenza che detta legge.
L’inchiesta giudiziaria deve svilupparsi nella maniera più decisa e
approfondita senza fermarsi davanti a qualsivoglia “santuario”. Un
capo di governo, per blandire il suo potenziale elettorato, arriva a
dichiarare che il decreto spalma-debiti è necessario per salvare Roma e
Lazio («altrimenti in quella città può scoppiare la rivoluzione»).
All’interno della sua maggioranza di governo ci sono partiti che si
dichiarano nettamente contrari a questa soluzione.
Il messaggio non ha bisogno di essere decriptato. E chi con il calcio ha
costruito le sue fortune personali capisce al volo. Se Roma e Lazio
dovessero naufragare nel mare melmoso dei loro debiti che fine farebbero
i professionisti del tifo? Quelli che sulla passione del tifoso hanno
costruito un’industria. Catene di negozi, locali, radio e tv che a
Roma in maniera gigantesca veicolano consensi e camionate di pubblicità:
sono milioni di euro che girano. E se Roma e Lazio dovessero sparire
dalla scena calcistica per loro sarebbe il tracollo. Ed ecco allora la
drammatica sceneggiata della notte scorsa. Possono anche giurare sulle
loro madri che non c’era nulla di preordinato, ma è davvero difficile
credergli di fronte alla geometrica potenza che gli ultrà hanno messo
in mostra. Una sorta di prova generale dei “timori paventati” dal
presidente del Consiglio: ecco quello che potrebbe succedere se Roma e
Lazio non vengono salvate.
L’inchiesta deve fare piena luce sulla terrificante notte
dell’Olimpico. I magistrati Elisabetta Ceniccola e Silverio Piro ai
quali sono state affidate le indagini hanno da tempo sulle loro
scrivanie un fascicolo che riguarda possibili estorsioni da parte di
alcuni tifosi nei confronti di un club romano: questo è un altro fronte
dove bisogna andare a fondo. Bisogna abbattere quel muro di micidiale
omertà, anche per dare coraggio a chi ha oggettivamente paura di farsi
avanti.
E andrebbe anche analizzata l’intervista con la quale Totti ha scelto
la vigilia del derby per dichiarare che non sarebbe restato in una
“Rometta”.
Nessuna debolezza o comprensione ammantata da ragioni sociali. In un
paese dove c’è chi sostiene che non pagare le tasse è legittimo,
dove l’etica viene “insegnata” a colpi di condoni è certo
complicato mostrarsi rigorosi nei confronti del mondo del calcio. È
complicato, difficile ma bisogna farlo.
La tragedia sfiorata l’altra notte ha ottime chance di essere centrata
alla prossima occasione. Il futuro di un club che ha evaso il fisco, che
non ha i mezzi per proseguire la sua attività deve obbedire a leggi e
regolamenti. Nessuno sconto. E non si tratta di sciocco moralismo. Se
alcuni club vengono graziati, cosa potrà mai succedere con i
sostenitori di altre società che invece vengono gestite con
responsabile senso amministrativo?
La metastasi del cancro-pallone è già diffusa e chi pensa di
intervenire con degli impacchi è un folle, non meno responsabile di
quelli che hanno organizzato i fattacci dell’Olimpico.
C’è rimasto solo il bisturi. di Ronaldo
Pergolini
Se al potere vanno gli
ultrà
E così ci hanno portato via anche il derby, sospeso per
la prima volta su richiesta, diciamo così, dei tifosi di Lazio e Roma
all’inizio del secondo tempo. Non c’erano stati gol, Fiore e Totti
erano rimasti al palo, uno a testa, tutto sembrava convergere verso una
partita normale, anche troppo normale. Poi è successo qualcosa che non
ha precedenti nella storia del calcio italiano: le curve hanno detto
basta, non si gioca più. Un tam tam inspiegabile nell’era della
comunicazione ha diffuso la notizia della morte di un piccolo tifoso
della Roma durante una carica della polizia. Non si sa come abbia fatto,
ma una delegazione della curva è entrata in campo per convincere Totti
che non era proprio il caso di continuare. In campo era arrivato nel
frattempo anche il prefetto a smentire la notizia, a garantire che non
era successo nulla di drammatico. La partita era virtualmente finita, la
parola della curva vale molto di più di quella di un prefetto e di
quella di un questore.
Così il presidente della Lega Galliani, reduce da una bella comparsata
nel salotto di Simona Ventura, ha preso la decisione di sospendere la
partita e l’ha comunicata via cellulare all’arbitro Rosetti, che ha
ovviamente obbedito. Se non ci fossero i telefoni cellulari, tutto
questo forse non sarebbe accaduto: niente tam tam, niente comunicazione
all’arbitro. Nella sua esternazione pomeridiana, guarda tu i casi
della vita, Galliani si era impegnato in una accorata difesa del calcio
romano: «Impensabile - aveva detto - un campionato senza Lazio e Roma
ad alto livello». Chissà se la pensa ancora così dopo quello che è
accaduto in questa domenica surreale che segna forse uno dei momenti più
malinconici e avvilenti per il nostro calcio. Che non si è fermato dopo
la morte di Paparelli e dopo la tragedia dell’Heysel; che ha fatto
finta di niente l’11 settembre prima e l’11 marzo poi; e che si
blocca, scoprendosi incredibilmente vulnerabile, davanti a una falsa
notizia, di fronte a un gruppo di persone che dovrebbe limitarsi ad
assistere a una partita in cambio del prezzo del biglietto e invece
decide anche per gli altri, magari dopo avere giocato alla guerra con le
forze dell’ordine.Non si poteva più giocare, con la gente in campo e
con il clima che si era creato, anche se sospendere la partita ha
comunque comportato serissimi rischi di ordine pubblico. La partita era
finita, i calciatori non avevano più la testa e se avessero accettato
di continuare, avrebbero dato vita a una recita, non a un confronto
sportivo, per non parlare del rischio d’invasione che era piuttosto
forte. Non è questo il punto. E’ lo svolgimento, la sequenza dei
fatti, le cause e gli effetti che sono davvero allarmanti. Che non ci
sia stato il morto è la sola bella notizia che ha chiuso questa serata
allucinante. Per il resto il calcio esce con le ossa rotte proprio nei
giorni in cui chiede, quasi pretende, una mano dal Governo per uscire
dalla crisi finanziaria nella quale si dibatte.
Dice di essere disgustato e anche impaurito il portiere dell’Atalanta
Massimo Taibi, colpito ieri a Messina da una pietra che avrebbe potuto
ucciderlo. Lui, siciliano che gioca a Bergamo, vecchio zingaro del
pallone, lui che ne ha viste tante ma che ancora non aveva visto il
derby romano, stavolta confessa di non capire ed è un’ altra pietra
sull’immagine del calcio malato. Malato di che? Malato di tutto e
ormai terribilmente ansiogeno se chi va allo stadio non deve
preoccuparsi più soltanto del risultato, che nel suo piccolo era già
tanto. Adesso tutto diventa precario dalle maglie che non rappresentano
più i colori della tua squadra, alle bandiere che non esistono più,
alle squadre che non sai se si iscriveranno al campionato, alle
classifiche che possono dipendere dai tribunali dello sport. E da oggi
anche dall’umore di qualche centinaio di persone che può stabilire
quanto deve durare una partita di pallone. La nafta è finita, la barca
affonda, i sorci scappano, c’era scritto su uno striscione laziale.
Erano belli i tempi in cui lo sfottò era quasi un’arte. di
Enrico Maida dal Messagero
Se il calcio finisce in
mano agli ultras
Una sospensione allucinante per una voce
incontrollata
Allucinante quel che è successo all'Olimpico. Senza
precedenti, ma la sospensione del derby è già un precedente.
Nell'intervallo di Lazio-Roma si sparge la voce che un bambino è morto,
travolto da un'auto della polizia, negli incidenti del prepartita. I
tifosi delle curve, all'inizio del secondo tempo, invocano la
sospensione. L'arbitro ferma il gioco. Qualche capotifoso entra in campo
a parlare coi giocatori. Una parte dello stadio grida
"assassini". Un portavoce della questura all'altoparlante
smentisce la notizia: non è successo niente di grave, non è morto
nessuno.
Ma i conciliaboli sul campo continuano per una ventina di minuti.
Rosetti parla al telefonino con la Lega (col presidente Galliani) ed è
autorizzato alla sospensione. Di sfuggita, ci si può chiedere dove
fossero quelli della Federcalcio, o i dirigenti arbitrali, e perché
Rosetti parli con Galliani. Poi uno si dà la risposta che vuole. Sky fa
un buon servizio di copertura, molto responsabile. Si sente Cassano dire
all'arbitro "facciamo una figura di merda" (continuando a
giocare). E quindi tutti a casa, e adesso parliamo di una sospensione
(allucinante, ripeto) per voce incontrollata.
Basta questo? Purtroppo sì, questo è bastato. Strano contrappasso: il
calcio non s'è fermato per le stragi, nemmeno l'ultima di Madrid. Il
calcio non s'è fermato con decine di morti dentro lo stadio,
all'Heysel, né con un morto ammazzato dentro lo stadio o appena fuori
(Paparelli, Spagnolo). Il calcio si ferma per una notizia falsa, per un
bambino mai morto, per una leggenda metropolitana fatta circolare. Da
chi e perché, il vero punto è questo, e non è il solo. I giocatori
(più quelli della Roma che quelli della Lazio, è parso in tv) hanno
deciso di non giocare e, a quel punto, era una decisione logica, perché
la partita non aveva più senso, era stata sequestrata, chi si ricordava
più del palo di Fiore e del palo di Totti.
Il calcio si scopre estremamente fragile. È in ostaggio. Lo stadio è
un luogo di svago, nel migliore dei casi, ma è anche un luogo
pericoloso. I calciatori non sono criticabili, questo va detto. Con le
informazioni che avevano (un misto di sommarie, ufficiali, urlate,
contrastanti) non potevano fare diversamente. Tante volte sono stati
accusati di insensibilità, di vivere sulla torre d'avorio, di ignorare
la realtà che li circonda. Non l'hanno ignorata e non era la realtà,
ma non è colpa loro.
Sono stati minuti lunghissimi, tesi, aspri. E hanno portato alla
sospensione per volontà popolare. Ma si può definire volontà popolare
un'isteria collettiva? Chi era a casa ha vissuto la situazione come
quelli che erano alla stadio. Sarà morto o no il bambino? Sarà vera la
smentita o lo dicono per motivi di ordine pubblico? Col tempo si è
capito che la smentita era vera. Ma restano altre preoccupazioni. Nei
brutti tempi che viviamo, col terrorismo che colpisce ovunque, si è al
riparo da una voce incontrollata che parla di una bomba in uno stadio o
si dovranno contare le vittime della reazione a una bomba che non c'è?
Dopo la partita ci sono stati scontri, per le strade di Roma, e già
allo stadio si respirava non un clima non di violenza (non autorizzato
da una partita corretta, finché è durata) ma di voglia di violenza,
fatta o subìta non importa. Come se un morto, non già un gol, fosse il
valore aggiunto della serata. E poi ci sono altre possibile conseguenzi:
quanti avranno voglia di portare un bambino allo stadio, dopo quei
minuti d'angoscia?
È andata bene, dicono quelli della polizia, poteva andar peggio.
Probabilmente è così, poteva andar peggio. Per un difetto di
comunicazione, un equivoco, una voce fatta circolare ad arte (e se sì,
con quale obiettivo?). È già stata aperta un'inchiesta. Non occorre
un'inchiesta invece per dire che il nostro calcio (l'immagine ma anche
la sostanza) ne esce più fragile, sporco e malato. Si è tanto parlato,
e giustamente, di bilanci. Si è parlato meno, però, di una violenza
che c'era e continua a esserci, anzi è ancora molto forte e
incontrollata. Talmente forte da autogiustificarsi col nulla. di
Gianni Mura da La Repubblica
"Nessun complotto,
solo un equivoco"
Gli ultras difendono le loro scelte. Il giorno
dopo il derby sospeso, diversi capi delle tifoserie intervengono nelle
radio per spiegare il loro punto di vista: "Impossibile che ci sia
stato un accordo"
Negano che ci sia stata alcuna predeterminazione,
spiegano che un accordo tra tifosi di Roma e Lazio nel giorno del derby
è semplicemente impossibile, assicurano che a causare lo stop del derby
è stato solo un moto di solidarietà fra curve di fronte alla voce (poi
rivelatasi falsa) di un bambino morto per colpa della polizia. Parlano
alle radio "tutto calcio", intervengono, si fanno sentire,
mentre alcuni di loro (quelli che sono entrati in campo per convincere
Totti a smettere di giocare) vengono interrogati in questura e rischiano
l'arresto.
"Se il governo strumentalizza le curve, vuol dire che è alla canna
del gas". Così 'Marione' Corsi capotifoso e conduttore di una
delle radio dei tifosi romanisti, Rete Sport, commenta su Sky, nel corso
di "C'è Diaco" l'ipotesi del ministro Maroni secondo il quale
quanto accaduto ieri sera all'Olimpico "appare gestito per fare
forte pressione sul governo" che deve decidere sul 'salvacalcio'.
Anche Marione sostiene la tesi della casualità e dell'equivoco che si
è inserito in una situazione di pessimi rapporti tra tifosi ultras e
polizia.
"Non c'è stato nessun piano preordinato". A parlare ai
microfoni di una radio romana è Fabrizio detto Toffolo, uno degli
indiscussi leader della Curva Nord laziale, che ripercorre i fatti di
ieri sera: "La storia è questa - sostiene - Ieri sera verso le ore
19,30 ho ricevuto la telefonata di alcuni ragazzi già all'interno della
Curva Nord, io ero a casa e cercavo di rendermi utile per la coreografia
prima della gara, ai quali era stata fatta una telefonata dalla Curva
Sud per comunicare la presunta morte di un tifoso".
"Fino alla fine del primo tempo - prosegue Toffolo - erano solo
voci. Quando poi alla fine del primo tempo sono stati ritirati gli
striscioni e la Curva Sud non ha fatto la prevista coreografia per il
secondo tempo, è stato il segnale che era successo qualcosa di grave.
In Curva Nord sono stati tolti gli striscioni per solidarietà nei
confronti della curva opposta. Era solo solidarietà. A chi poteva dare
profitto una cosa simile? Era un derby molto tranquillo prima della gara
così come ha dichiarato il Prefetto. Perché parlare di terrorismo o
dell'11 Settembre del calcio italiano? Non c'è stata nessuna
premeditazione, ma solo un gesto di solidarietà verso i tifosi della
Curva Sud. Abbiamo tolto gli striscioni per solidarietà, tutto
qui".
"Ma quale predeterminato, il derby è odio calcistico, vi pare che
mi metto d'accordo con i tifosi della Lazio...". Nega l'ipotesi di
incidenti concordati tra le due tifoserie Paolo Zappavigna, uno dei capi
ultras della curva della Roma intervistato dal Tg1.
"Avevamo preparato per lungo tempo una coreografia per il derby, ma
quale accordo... - ha spiegato il tifoso - Perchè non siamo restati
quando hanno annunciato che la notizia della morte di un bimbo era
falsa? Anni fa anche di Vincenzo Spagnolo dissero che non era
morto...", ha concluso Zappavigna, riferendosi all'omicidio di
Vincenzo Spagnolo il 29 gennaio 1995, che determinò la sospensione di
Genoa-Milan. da La Repubblica
"Basta, il calcio
per me è morto"
Il giorno dopo la paura sulle radio della
Capitale. L'indignazione del tifoso qualunque. "Anch'io sono
arrabbiato ma non vado allo stadio a picchiare". L'appello:
"Perché non dite chi sono questi capi ultrà?"
Esiste un termometro per misurare la temperatura della
Roma del calcio. Le radio locali. Soprattutto il lunedì. Soprattutto
questo lunedì. Dopo il derby sospeso per volere degli ultrà. Dopo le
immagini da guerra civile viste in televisione, auto incendiate,
famiglie che scappavano tra il fumo dei lacrimogeni. Il derby che ha
fatto sprofondare una città nella vergogna. Qualcosa si è spezzato
ieri nei romani, nei tifosi normali. Ecco una voce rapida e asciutta che
spiega questa sensazione a Radio radio, una delle emittenti romane più
seguite: "Ieri sera sono scappato dallo stadio, sono tornato a casa
e ho abbracciato mia moglie. Poi ho strappato l'abbonamento. Per me il
calcio è finito ieri".
Sono emittenti piccole ma seguitissime, queste radio. Si parla per il 90
per cento di calcio. Di Roma e di Lazio. Microfoni aperti, telefonate
degli ascoltatori ma non solo. Anche i politici sanno quanto sono
seguite e per esempio stamattina il presidente della Regione Lazio
Francesco Storace (tifoso giallorosso) si è fatto sentire per dire la
sua su quanto avvenuto ieri sera all'Olimpico. "Avrei una richiesta
- dice il governatore rivolgendosi ai conduttori - per favore,
stemperate i toni il più possibile". E poi: "Ieri volevo
portare mia nipote di nove anni allo stadio. Meno male che ho cambiato
idea all'ultimo momento".
Quando si aprono i microfoni, le voci che si sentono si assomigliano
tutte. Stupore e paura della sera prima lasciano il posto alla rabbia.
Come per Salvatore (tifoso della Roma): "Io ho tanta rabbia dentro.
Tutti nella vita di tutti i giorni siamo arrabbiati. Ma io non vado alla
stadio a picchiare nessuno. La rabbia me la tengo per me. Dicono che con
questi ultras bisogna dialogare... Ma con chi vuoi dialogare?"
E Stefania, 46 anni, tifosa della Lazio, che ha iniziato ad andare allo
stadio prima di andare a scuola prova a raccontare quello che ha passato
ieri sera. "Ero in curva nord (la curva dei sostenitori laziali
ndr). Volevamo andar via, quando abbiamo visto che le cose si mettevano
male. Ma i cancelli della curva erano chiusi. Eravamo chiusi dentro. Si
poteva uscire dalla tribuna Monte Mario, molti dalla Nord hanno
scavalcato per fuggire. Quando sono riuscita a uscire mi sono messa a
correre per sfuggire al gas e i poliziotti ci hanno caricato perché
correvamo. Solo perché correvamo".
E Marco, tifoso ed ex arbitro: "Non avete idea di che cosa succede
nei campi di calcio delle serie minori. Ho restituito la tessera perché
non ce la facevo più. Il calcio è in mano ai tifosi estremisti.
Bisogna togliere la ribalta e il potere ai capi ultrà. I ragazzi più
giovani sono manipolati in un insospettabile giro di soldi e di potere.
Se ieri polizia e carabinieri avessero perso la testa sarebbe successa
un'ira di dio".
Mauro: "Ma questi capi ultrà sono identificabili, abbiamo le
immagini televisive. C'è un capo ultrà che dice a Totti: 'l'ho vistò
riferendosi al bambino dato per morto. E il reato di procurato allarme
è un reato penale. Perché non li fermano?"
Claudio, tifoso della Roma: "Abbiamo visto subito io e mio figlio
che stava succedendo qualcosa di brutto. Ma noi avevamo biglietti per la
tribuna, mi sentivo tranquillo. Alla fine del primo tempo è iniziata a
circolare quella notizia del bambino morto. E anche da alcune radio
private la notizia è stata rilanciata. Tanto che il questore ascolterà
tutte le registrazioni".
Ambrogio: "Ma chi ha aperto le porte ai capi ultrà per farli
entrare in campo? Ma è normale che la polizia permetta a quei signori
di parlare con i capitani delle squadre per riferire loro una notizia
falsa".
E la denuncia rivolta ai conduttori della radio: "Questi capi hanno
molti precedenti penali. Perché non dite anche questo?"
di Dario Olivero da La Repubblica
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