Spunti di riflessioneUltras e calcio, strade vecchie e senza uscita 
La notte di violenza del derby romano ha spinto il movimento delle curve in un vicolo cieco dal quale sarà difficile uscire. Ma è il calcio italiano più in generale ad annaspare tra contraddizioni gravissime che, senza regole nuove, rischiano di uccidere lo sport più amato dagli italiani

Gli ultras sono oggi al centro della scena. Bersagliati da ogni parte, vivono momenti difficili. Ma è il calcio italiano più in generale ad annaspare tra contraddizioni gravissime. Sia i primi che il secondo sono avvitati in una spirale di crisi da cui sarà difficile venire fuori. La cronaca ha sbattuto in prima pagina il «mostro ultras». Paradossalmente, verrebbe da dire, perché la decisione di adoperarsi per fermare lo spettacolo di fronte alla morte di un tifoso appare ineccepibile. Fortunatamente non era morto nessuno, ma nel momento in cui la notizia appariva quanto meno probabile, decine di migliaia di persone hanno imposto, in forme tutto sommato civili, soltanto la sospensione della partita. Mostrando un'etica ben maggiore di chi è incapace di fermarsi di fronte a tragedie di ogni genere, dalle Torri gemelle alla strage di Madrid, alla morte di un tifoso, perché lo show (il business) deve andare avanti, sempre e comunque. Il problema vero, però, è il contesto in cui questo episodio si è verificato. Intorno allo stadio si susseguivano da ore scontri tra gruppi di tifosi e forze dell'ordine. Nelle curve echeggiavano puntuali i cori e gli insulti verso la polizia e i carabinieri. Striscioni e cori dal contenuto rivoltante trovavano spazio nell'una e nell'altra curva. Nessuna sorpresa: rimossi in fretta i progetti che nella primavera scorsa lo stavano configurando come principale antagonista del «calcio moderno» e della sua deriva neoliberista, il movimento ultras sembra tornato a seguire logiche estranee al tifo calcistico propriamente detto. La politica e la violenza sono tornate padrone delle curve. La questione, beninteso, non riguarda soltanto la Capitale; e non riguarda neppure soltanto l'iniziativa politica di gruppi neofascisti. Se, come sembra possibile, Livorno e Ternana conquisteranno la serie A, ad occupare le prime pagine il prossimo anno saranno i nomi e i simboli propri dell'ultrasinistra, compreso Stalin et similia. Nelle curve romane però l'egemonia incontrastata è di quel coagulo di forze che fanno riferimento alla destra antisistema. E qui la scelta, tutta politica, è stata quella di puntare sulla trasformazione del movimento ultras in soggetto dell'antagonismo sociale. Una scelta che è insieme ambiziosa, complessa e assai rischiosa. L'ambizione sembra quella di proporre il movimento degli ultras come alternativa al movimento no-global. Rifiuto intransigente della globalizzazione e della società multirazziale in nome della difesa della identità culturale, razziale e nazionale; critica del pacifismo ma opposizione ferma alla guerra delle forze sioniste e anglo-americane: questi, in breve, i temi forti che accompagnano, nelle fanzine, nelle radio e negli striscioni delle curve, la comunicazione calcistica dei gruppi ultras romanisti e laziali. L'accentuazione delle tematiche politiche, però, limita la capacità espansiva degli ultras e li espone all'incomprensione e all'ostilità degli altri tifosi. Insistere con la politica, la violenza, il razzismo porterà il movimento ultras a un punto di non ritorno. Le (prevedibili) ondate repressive dello Stato avverrebbero allora nell'indifferenza o addirittura nel consenso generale. Chi ha a cuore davvero il mondo delle curve deve chiedersi se perseverare sulla strada della politicizzazione e della violenza non significhi percorrere fino in fondo una strada senza uscita e autodistruttiva.

Il sistema-calcio da parte sua sta vivendo in Italia momenti di straordinaria fibrillazione. Staremo a vedere se e come si uscirà dalle attuali contraddizioni. Abbiamo letto, tra il sorpreso e il divertito, le dichiarazioni di Galliani: «Roma e Lazio vanno protette. Ho affrontato le due squadre in Coppa Italia, l'atmosfera magica dell'Olimpico è qualcosa di incredibile. Non possiamo immaginare un campionato senza queste due grandi squadre». Noi vogliamo porre questa questione: ormai da anni nessuno in Italia è in grado di contrastare, senza finire in rovina, la potenza economica, politica e mediatica del Milan targato Fininvest e della Juventus della famiglia Agnelli e dei dieci milioni e passa di suoi tifosi. L'Inter ha potuto contare su mille miliardi e più del portafoglio personale di Moratti, finendo però puntualmente (al di là dei propri errori di gestione) nel tritacarne della comunicazione sportiva gestita dagli altri; la Roma invece ha apparati egemonici (la Rai soprattutto) sufficientemente forti per tutelare la sua immagine, ma nelle casse non c'è più un soldo; la Lazio e il Parma, svelati i bluff Cirio e Parmalat, ormai sono due vasi di coccio dispersi tra le acque delle isole Cayman.

In questa cornice, troviamo poco appassionante il dibattito tra neoliberisti (di destra e di sinistra) che invocano il fallimento dei club indebitati come molla per avviare il risanamento e protezionisti (anch'essi bipartizan) che chiedono la tutela dei club delle grandi aree metropolitane come condizione per tenere in vita il nostro calcio. Ricominciare dalla serie C non è un disonore. È già toccato a grandi club. Il problema vero è che non è più sostenibile un calcio modellato su chi ha più soldi e più potere degli altri in misura spropositata. Milan, Juventus e (forse) Inter oggi possono tranquillamente «saccheggiare» tutte le altre squadre, anche a buon mercato, semplicemente garantendo ingaggi più alti ai giocatori. Possono tranquillamente costruire le loro «macchine perfette», battere ogni record di punti, specchiarsi felici nei loro giornali e nelle loro televisioni.

Quello che non possono più pretendere però è la complicità. L'Olimpico, il San Paolo, il Franchi non sono anfiteatri in cui le folle applaudono i fuoriclasse altrui. Gli anni `60 non tornano più. Dal vicolo cieco in cui è finito il calcio italiano non si esce distribuendo prebende a società da tenere sotto scacco negli anni a venire. Se ne esce cambiando le regole, organizzando campionati in cui sia garantito tendenzialmente a tutti almeno la possibilità di competere per la vittoria finale. In cui la forbice delle risorse tra i più ricchi e i meno ricchi non superi certe dimensioni. Solo così sarà possibile evitare che il «campionato più bello del mondo» si riduca definitivamente a una sorta di Trofeo Berlusconi che ogni anno Milan e Juve si giocano tra loro. di Guido Liguori e Antonio Smargiasse dal Manifesto

Il giro di vite del Viminale
Biglietti elettronici e steward. Dopo il derby, ecco le norme anti-ultrà chieste da Berlusconi. Pronto un pacchetto per la prossima stagione: stadi più sicuri

Stadi ancora più blindati, con metal detector e "tornelli" agli ingressi, biglietti elettronici, posti numerati e a sedere e poi, come in Inghilterra, steward che affiancheranno la polizia negli impianti. Ma niente celle negli stadi, come succede oltre Manica: non esageriamo, siamo in Italia. Ecco pronto, il pacchetto di misure anti-violenza chiesto da Silvio Berlusconi dopo lo scandaloso derby di Roma. Se ne parlerà forse già oggi in Consiglio dei ministri, anche se non è previsto nell'ordine del giorno. 

Il premier, martedì sera a San Siro, aveva chiesto nuove "proposte". Eccole, sono pronte: affiancheranno le misure attuali, scatteranno dalla prossima stagione. 
Il Viminale, d'altronde, era già corso al riparo dopo i gravi fatti di Avellino, dove morì un giovane tifoso e gli ultrà del Napoli invasero il campo. Il primo giro di vite fu sui biglietti: proibita la vendita ai tifosi avversari il giorno della partita. Ha funzionato, anche se è stata contestata dal fronte ultrà. 

"Siamo pronti a vietare le partite a rischio", disse, a settembre 2003, il ministro Pisanu. Possibile inoltre per i prefetti far giocare gli incontri in campo neutro e a porte chiuse: questa sorte potrebbe toccare al derby di Roma, quando il giudice sportivo, martedì prossimo, stabilirà la ripetizione. 

E poi via con le nuove misure, alcune di non facile soluzione: i metal detector, ad esempio, sono poco pratici, e costringerebbero la polizia ad aprire i cancelli degli stadi molte ore prima delle partite. Con lunghe file, e crescente nervosismo: forse dovrà essere accantonata. 

Ma gli impianti dovranno essere modernizzati, e sugli spalti, il prossimo anno, ci saranno anche gli stewards. Come succede in Inghilterra: anche se lì hanno poteri, essendo gli impianti proprietà dei club. Gli stewards italiani saranno istruiti dalla polizia, che potranno affiancare in compiti di "accoglienza e assistenza" ma mai sostituire, e saranno pagati dai club (non si sa ancora quanto). 

Il nodo principale però è quello degli stadi: inadeguati, pericolosi, vecchi. Basti pensare che gli impianti italiani sono stati declassati recentemente dall'Uefa e nessuno stadio può ospitare una finale di una Coppa europea. La può ospitare lo stadio Ataturk di Istanbul (succederà il prossimo anno), non può farlo né San Siro e nemmeno l'Olimpico. Una vergogna: e pensare che la Figc vuole chiedere la candidatura per gli Europei 2012. 

"Entro due anni - spiega Andrea Valentini, presidente del Credito Sportivo - dobbiamo presentare il progetto per otto impianti: sinora nessuno risponde ai requisiti dell'Uefa. Questa è l'occasione giusta per risolvere anche il problema della sicurezza". Torino (Delle Alpi con la Juve e Comunale col Toro), Messina, Perugia, Empoli, Siena e Napoli stanno già pensando a impianti nuovi. 

Ieri inoltre summit interministeriale da Gianni Letta, a Palazzo Chigi: si è parlato di sicurezza alle Olimpiadi di Atene e agli Europei di calcio in Portogallo. Mentre nella riunione settimanale dell'osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive, diretto dal responsabile dell'ordine pubblico del Viminale, Francesco Tagliente, verranno date disposizioni ancora più rigide ai questori per domenica (e anche stasera...): gli ultrà non potranno diventare i padroni degli stadi. Questo è l'ordine di Pisanu e del capo della polizia, De Gennaro. di Fulvio Bianchi da La Repubblica

Il derby di Paparelli: «Non c'erano i cellulari...»

Domenica sera, quando all'Olimpico si è diffusa la notizia della morte di un bambino negli scontri che hanno preceduto l'inizio del derby, tutti hanno pensato a Vincenzo Paparelli, il tifoso della Lazio che perse la vita nella stracittadina del 1979 dopo esser stato colpito da un razzo lanciato dalla curva romanista. Quella volta, nonostante tutti sapessero ciò che era successo, la partita non fu interrotta. «Prima dell'incontro - ha ricordato ieri l'arbitro Pietro D'Elia che diresse la sfida - ebbi un colloquio con il Prefetto e avvertimmo i giocatori. Erano scossi e non ci fu alcun invito da parte delle curve a non giocare. Lì il morto c'era davvero e pesò molto il fattore tempo: allora i cellulari non esistevano...». Venticinque anni dopo, l'ex giacchetta nera ricostruisce la domenica più triste della sua carriera: «Ero cosciente di quello che facevo. Se non avessimo iniziato quella partita, dopo fuori ci saremmo ritrovati con 70mila persone impazzite che magari avrebbero sfaciato tutto. Invece, facendo cominciare l'incontro, riuscimmo a prendere tempo per far calare la tensione che era altissima. Ma siamo stati fortunati: non ci furono episodi contestati, i giocatori si dimostrarono molto corretti, finì 1-1 e non successe niente». D'Elia, che tra gli anni `70 e `80 fu arbitro internazionale, assolve il collega Rosetti che domenica scorsa ha sospeso la partita dopo aver parlato al telefono col presidente della Lega calcio Galliani: «Al suo posto anch'io avrei fatto la stessa cosa: c'erano i tifosi in campo, i giocatori sotto pressione che chiedevano di non giocare, si è ritrovato il telefono in mano: dopo quello che gli ha detto Galliani, non poteva fare diversamente». Si è mai pentito di aver fatto disputare una partita di calcio con un morto sugli spalti? «Non so dire se fummo più bravi noi a gestire la situazione oppure solo pazzi e incoscienti. E' una domanda che in tutti questi anni mi sono fatto ripetutamente e ancora non mi sono dato una risposta. Ci potevano essere conseguenze ben più gravi ma a giudicare da come sono andate le cose, posso dire che abbiamo fatto bene a far giocare quel derby». 

I fondamentalisti della domenica
Lo stadio come un tempio: fra delirio e ironia

NOI TIFIAMO NOI, dice lo striscione. Questa dichiarazione, insieme ironica e autistica, offre un punto di partenza per chi vuole capire piuttosto che semplicemente condannare il mondo degli ultras. Avverte che è un movimento che mette la propria esistenza al di sopra di ogni altra considerazione. Per gli ultras, infatti, il club e i grandi campioni/mercenari del calcio moderno, altro non sono che un male necessario che permette lo svolgersi del delirio collettivo domenicale nello stadio. 

Nell'ambito della nostra nostalgia moderna per qualche tipo di comunità che ci possa restituire un senso di forte e agguerrita solidarietà, gli ultras hanno evitato i peggiori degli eccessi. Non sono una associazione criminale, né, se si esclude qualche sgradevole coreografia, hanno qualcosa a che spartire con il nazismo. Hanno inventato invece una forma di fondamentalismo part-time, dentro il quale si possono godere tutte le emozioni di una comunità in guerra, ma senza la necessità di una causa reale riconducibile al mondo della politica o del lavoro. E' proprio questo agire senza causa (al di là dei colori di una bandiera) che infonde a certi gruppi di ultras la loro corrosiva ironia. Sono l'opposto del politically correct. 

Ma per fare i Talebani del fine settimana ci vogliono nemici. "Voi esistete in quanto noi vi odiamo", scrive un ultrà veronese alla sua controparte vicentina sul net. E aggiunge: "Dovreste ringraziarci!". Ha ragione. I vari gruppi di ultras che si picchiano a vicenda sono dei falsi nemici. Sotto sotto hanno bisogno l'uno dell'altro. Come si fa a sentirsi profondamente milanista senza quelli dell'Inter da odiare? 

Invece, da quando si è deciso che bisogna metter fine a questi scontri con l'intervento massiccio della polizia, ecco che tutti gli ultras acquistano un nemico nuovo, e per lo più ben armato ed equipaggiato, cosa che rende più intenso il conflitto e che apre la strada a un fronte comune tra tifoserie nemiche, una nuova e più cupa identità. 

La polizia merita tutto il nostro sostegno e simpatia. Ma non sempre gestisce bene la faccenda. Ci sono atteggiamenti aggressivi anche quando la situazione è delle più calme. Mi ricordo di un poliziotto fuori di San Siro che ha sputato sul tifoso davanti a me, per nessun motivo. Dal momento che il tifoso più mite può sentirsi vittima, si è creato un clima favorevole alla violenza. 

Ma neanche la polizia è il vero nemico degli ultras. Che è la televisione. E' in questa chiave che va letto quello che è successo a Roma domenica sera. Per presentare il calcio a un vasto pubblico rispettabile, la tv richiede l'eliminazione degli spettacoli sgradevoli. Gli ultras devono scomparire per proteggere un business. Aver guastato il piacere sedentario a milioni di spettatori attraverso la fantasia di un tifoso vittima della polizia, ecco una grande vittoria per gli ultras. 

Ma perché non distruggerli con la repressione e basta? Gli inglesi ci sono riusciti. Pochi però fanno notare che negli anni in cui Highbury e Anfield sono diventati sicuri come dei cinema e costosi quanto l'opera lirica, la violenza delle gang nella periferia di Londra è aumentata in modo vertiginoso. Si va sicuri allo stadio il sabato, ma certe strade di notte bisogna proprio evitarle. Meno male, però, che questa violenza, meno spettacolare e ritualizzata, miete le sue vittime lontano dall'attenzione delle telecamere. di Tim Parks

Quando ero ultrà senza se e senza ma
"Perché smisi di far parte della curva nord"

Il pomeriggio di quasi trent'anni fa in cui mi sono dimesso da ultrà si giocava Bologna-Verona, lo stadio era pattugliato dalle forze dell'ordine ma, in una strada adiacente, trenta di noi circondarono un ragazzo, poi qualcuno ordinò: "Barilli, vai solo!". E Barilli si avvicinò, alzando il pugno per colpire. 

Andavo alla partita con un gruppo di compagni di scuola. Facevamo il liceo classico, leggevamo García Márquez, simpatizzavamo per l'estrema sinistra (ma il mio amico del cuore era monarchico), consideravamo il momento più alto dell'estetica non Hegel ma quello in cui Beppe Savoldi rimaneva sospeso in aria un istante più dei comuni centravanti prima di colpire di testa e insaccare. E frequentavamo la Curva Nord. 

Avevamo uno striscione poco di lato rispetto a quello dei Commandos Rossoblù. Costituivamo una cellula satellite. Indossavamo giacche mimetiche comprate sui banchi dell'usato. Nella tasca, con il nome di battaglia scritto a pennarello, nascondevamo un martelletto rubato sugli autobus di linea, quello che stava accanto ai finestrini per "rompere il vetro in caso di emergenza". Il caso, più che la coscienza, ci evitò di farne uno sciagurato uso. Partecipavamo a riunioni strategiche in un circolo del bowling. 

I capi, che ammiravamo, avevano soprannomi poco temibili ("Bimbo" "Alderman", solo "Barilli" era Barilli, per questo l'ho cambiato), ma una determinazione assoluta. Il sabato sera apparivano raffinati strateghi, domenica pomeriggio arditi guerriglieri, il lunedì lavoravano. Ne incontrai uno all'ingresso di un bagno pubblico. Era il custode: per entrare dovetti dargli cento lire. La sua necessità di sfogo era da manuale. 

Noi, invece, studiavamo il greco. Ma la violenza, in una biografia maschile, è un rito di passaggio. Sperimentarla, quando va bene, è il preludio per rinunciarvi e poi combatterla conoscendola. Michael Jordan è diventato il miglior giocatore di basket di tutti i tempi perché (è lui stesso ad aver individuato la causa) ha "sbagliato novemila tiri". Noi sbagliavamo spesso: aspettammo, sampietrini nella mano, un arbitro che non aveva fischiato un decisivo rigore contro la Sampdoria, distruggemmo un treno al ritorno da uno zero a zero a Cesena. C'erano valori rovesciati e l'effetto era, al tempo stesso, terribile e ridicolo. 

All'uscita di un Fiorentina-Bologna, un gruppo di ultrà viola (il loro comandante era "Pompa") ci chiuse in un angolo. Qualcuno mi mise la mano alla gola e fiero proclamò: "Io sono molto più figlio di puttana di te!". Non c'era possibile replica, né a parole né a gesti. La superiorità era evidente. Come cantava Vecchioni: "La mia paura non bastava a farmi dire basta". Si poteva subire, non arrendersi. "Duri, ma con gioia", insegnava Bifo, pensatore del Movimento Studentesco. Continuammo a presentarci sugli spalti anche quando fu venduto Savoldi e il calcio ci rivelò la sua faccia mercantile. Poi ci fu Bologna-Verona, prima del girone di ritorno. 

La partita d'andata era stata tragica, soprattutto per quello che era avvenuto fuori dal campo (il risultato neppure lo ricordo, né importava). C'erano stati scontri fra le due tifoserie, divise allora anche da una rivalità politica. I giornali ne avevano data una versione. Quella che circolava tra gli ultras era amplificata. Chi si stupisce oggi per l'effetto valanga della falsa notizia dell'Olimpico non sa che esattamente così funziona nell'ambiente: a ogni passaggio la vicenda si ingrossa. 

Alla fine i "veronesi" avevano teso agguati e selvaggiamente picchiato "le nostre donne e i bambini". Tutto il girone d'andata era stato trascorso a programmare la vendetta. Nel giorno designato le prime ronde erano state mandate fin dal mattino alla stazione e ai caselli autostradali. Né un treno, né un pullman. Fu presto evidente che i "veronesi" non sarebbero venuti. Non in massa, si disse. Ma alla spicciolata, si volle immaginare, sì. A due a due. O soli, per meglio ingannare chi li cercava. Bisognava piantonare gli ingressi e smascherarli. Furono formati gruppi composti da decine di elementi. Si aggiravano intorno al perimetro dello stadio o sostavano davanti ai cancelli, scrutando chi passava. A un certo punto, accanto all'entrata della piscina, fu individuato un elemento sospetto. "E' un veronese!", gridò qualcuno. La pattuglia accorse. Lui negava, scuotendo la testa. Non riusciva a parlare, non era possibile valutarne l'accento. Il gruppo l'accerchiò, lo spinse contro l'inferriata, sovrastandolo. Gli chiesero un documento. Mormorò di averlo dimenticato a casa. Giustizia sommaria fu invocata: "E' un bugiardo! E' un veronese! Mi ricordo la faccia!", mentì qualcuno. Quel ragazzo avrà avuto 25 anni, corporatura normale. 
Solo, contro trenta. La sentenza fu emessa: colpevole. Di essere "veronese". La condanna fu decisa. Fu una scelta doppiamente vigliacca. Eravamo in trenta. 

Ma il capo ordinò: "Barilli, vai solo!". L'iniqua legge del più forte fu mascherata dietro un paravento di fasulla legittimità. Voleva sembrare uno spiraglio di lealtà, fu la meschinità senza ritorno. Uno contro uno, ma davvero, forse il "veronese" (o quel che era) avrebbe battuto Barilli. L'avrebbe, almeno, affrontato. Così, si rannicchiò per subire. Ci guardammo, io e il mio compagno di liceo. E in quel momento capimmo. Né duri, né con gioia. Non eravamo eroi e stiamo ancora cercando la nostra strada. Non avemmo il coraggio di metterci di mezzo, soltanto la sensatezza di andarsene per sempre. Buttammo le mimetiche in un cassone e riappendemmo il martelletto sull'autobus che ci riportava a casa. Comunque sia finita la partita, evitammo di perdere la nostra. di Gabriele Romagnoli da La Repubblica

Fenomenologia dell'ossessione da stadio
Il tifo, le tribù del calcio con le sue frange estreme, i suoi rituali e i suoi miti: chi sono, che cosa pensano e come agiscono. Quello che è accaduto nel derby romano mostra i caratteri arcaici e moderni della violenza

Si pronuncia ùltras, senza fisime linguistiche. Possono essere battaglioni, brigate, commandos, del sud, del nord e del centro, ma comunque con gli ultras i sociologi vanno in difficoltà, perché tutte le analisi analizzano in parte e tutte le spiegazioni spiegano parzialmente. Degrado sociale che fluisce negli stadi? Sì, ma non esclusivamente. Subalternità culturale che crea le proprie liturgie? 

Fino a un certo punto. Bacino di reclutamento di una destra borgatara e irriducibile? Perché no, ma non solo. Veniva molto più facile il vecchio ragionamento di Gianni Brera, secondo cui fra le decine di migliaia di spettatori della cerimonia domenicale era fisiologico che allignasse qualche centinaio di facinorosi, e che tutto si dovesse risolvere quindi con sobrie azioni di polizia. 

Solo che l'uso dei manganelli e delle cariche con gli scudi di plexiglas, come delle perquisizioni, delle schedature, delle telecamere, e delle condanne penali, non ha risolto i problemi sollevati dal cosiddetto "tifo organizzato". Dunque non è soltanto una questione di ordine pubblico. 

Le stesse biografie dei capi ultrà scesi sul terreno dell'Olimpico domenica sera a parlamentare con i giocatori di Roma e Lazio risultano sorprendenti, se uno pensa alle aree dell'esclusione sociale: un promotore finanziario della Mediolanum, un cameraman della trasmissione Amici. I primi arrestati appartengono per professione al terziario più o meno avanzato. Il gruppo "Tradizione Distinzione", che si richiama ai "valori" dell'estrema destra, controlla un sito internet in cui si sfiora il pensiero antimoderno di Julius Evola, con i Carmina Burana di Carl Orff come sigla. Sarebbe improprio quindi pensare astrattamente a esponenti di un'alterità sociale che si auto-organizza, a un mondo esplicitamente a parte che si costruisce un'identità in un'enclave della marginalità. 

Sembra piuttosto che i militanti ultrà siano gente che entra ed esce dal confine della collettività ufficiale. La stessa "cultura" delle fazioni organizzate è un ibrido di mitologie: fa da mastice spesso un'eco di destra, di cui sono un indizio le svastiche e i saluti romani, come pure gli slogan indegni tipo "squadra de negri, curva de ebrei", e i nomi delle bande ("Giovinezza", "Arditi"), non di rado infiltrate da movimenti ultrafascisti. L'altro aspetto notevole che si trae dalle cronache è dato, almeno a Roma, dalla contiguità dei gruppi ultrà con la criminalità comune. Ma ogni stadio ha le sue identità, e all'"eja eja alalà" può sostituirsi Che Guevara, il richiamo all'intifada, in un sincretismo politico-emotivo in cui destra e sinistra sono semplici sfumature dell'identità scelta. 

Alcune caratteristiche di fondo del comportamento ultrà sono tuttavia inconfondibili. La prima è una gerarchia fortissima, con leadership riconosciute e modalità espressive, nelle curve, coordinate con rigore militare. A seguire, un codice comportamentale basato su vincoli e criteri elementari tipici delle comunità omertose. Il legame di lealtà malavitosa induce a definire "infami" i collaborazionisti o i "traditori". Lo scontro con la polizia è un momento simbolico potentissimo, modulabile dal minimo (il coro efferato "mestiere / di merda / carabiniere") al livello massimo, cioè l'attacco, gli incendi, i vandalismi, il conflitto aperto con tecniche da guerriglia urbana. 

E' questa lealtà militante che ha indotto le fazioni organizzate del tifo, in una società di serie A del Nord, a considerare uno sgarro gravissimo il fatto che durante l'attuale campionato un centrocampista abbia osato portarsi a letto la moglie di un capotifoso: obbligando di fatto l'allenatore a concedere al colpevole alcune partite di turnover, per evitare l'insurrezione dei tifosi così collettivamente offesi. 

Alcuni anni fa uno dei più sofisticati sociologi italiani, Alessandro Dal Lago, aveva posto come titolo a un suo saggio, dedicato ai rituali del calcio, Descrizione di una battaglia. La citazione da Kafka serviva ad alludere a una certa inesplicabilità di ciò che avviene sugli spalti: la psicologia collettiva degli ultras deve trasformare ogni fatto in evento, e ogni catena di eventi in mito. Il legame con la squadra e con i giocatori-simbolo (quei pochi che restano, dopo la liberalizzazione innescata dalla sentenza Bosman) viene evocato come una unione mistica, che travalica i responsi del campo, un esserci che si perpetua nella memoria comune. 

Una "pazza fede", come l'ha chiamata lo scrittore anglo-veronese Tim Parks? Di più, un'invenzione continua della fedeltà, una mobilitazione emozionale che consente di credere nella propria religione, esattamente allo stesso modo in cui mitologizza la falsa morte di un bambino in seguito a una falsa carica della polizia. 

Facile a descriversi, il modello della comunità ultrà, con le sue commozioni corali, le delusioni rabbiose, e soprattutto la sua ostilità anti-istituzionale, diventa una nebulosa articolatissima se si pensa alle organizzazioni che controllano il piccolo merchandising calcistico, al giro delle radio romane che fanno da megafono a ogni sospiro di mercato, all'opacità perdurante, nonostante le smentite, nei rapporti fra tifoserie e società, al clima di ricatto che si instaura con presidenti, allenatori e giocatori (esemplare il caso del romanista Panucci che deve chiedere pubblicamente scusa agli ultras per essersi rifiutato di entrare in campo dalla panchina). 

Difficilmente la crisi del calcio nazionale travolgerà anche l'universo ultrà. Perché finora si è vista una spettacolare capacità di assimilare e manipolare eventi e significati globali e locali, Er Polpetta e il culto nazista, l'agit prop radiofonico Marione e la brigata "Charlemagne". Se domani gli "eroi" della curva sud inventeranno una brigata Al Qaeda, sarà la dimostrazione finale che l'ideologia del tifo è capace di fagocitare tutta l'attualità e di assimilarla, come tutto il resto, come la banda della Magliana e i Nar, nella "nazione ultrà". Ùltrà crede solo alla propria leggenda. La sua guerra è talmente asimmetrica da renderlo praticamente invincibile. di Edmondo Borselli da La Repubblica

"A pagare sono solo gli ultras"
Parla Carlo Balestri, responsabile di Progetto Ultrà. "All'Olimpico non c'è stata nulla di preordinato". "I vertici del calcio sempre assolti". "Se ci fosse stato il morto si parlerebbe di una prova di civiltà"

"Nel momento in cui c'è un sistema calcio che si autoassolve sempre e in cui gli unici a pagare sono gli ultras, diventa difficile nelle curve ascoltare i vertici del pallone che stigmatizzano la violenza". Carlo Balestri, responsabile di Progetto Ultrà, a due giorni del derby dell'Olimpico, legge così il clima che si respira negli stadi italiani. 

Per farlo Balestri ricorda come alcune tifoserie abbiano espresso con striscioni e cori la loro opposizione al cosidetto "decreto spalmadebiti". Un ragionamento che potrebbe essere sintetizzato così: società, dirigenti e Lega trovano sempre "una scappatoia" per autoassolversi dopo aver commesso errori e illegalità. Una scappatoia che agli ultras è negata. 

E sulla serata dell'Olimpico, il responsabile di Progetto Ultrà afferma: "Diciamo la verità, se il morto ci fosse stato davvero, i giornali di questi giorni parlerebbero di una grande prova di civiltà dei tifosi". 

Che impressione ha avuto vedendo le immagini dell'Olimpico? 
"C'era un ambiente molto teso, con alle spalle un conflitto tra tifosi e forze dell'ordine che dura da tempo. A questo, poi, vanno aggiunte le tensioni per la situazione societaria della Roma e le polemiche sul decreto spalmadebiti. Insomma un mix che ha creato una situazione esplosiva". 

Un terreno fertile dove ha preso piede la notizia, falsa, della morte di un ragazzo ad opera delle forze dell'ordine? 
"Direi di sì, e in quel clima uno stadio intero, dalla curva alla tribuna ha creduto che quelle notizia potesse essere vera e ha invocato la sospensione". 

Ma come mai non ha avuto uguale credito la smentita della questura? 
"Perchè in certe situazioni uno si fida più del vicino di posto che di un annuncio al megafono. Passa l'idea che le autorità non la raccontino giusta, magari per far continuare la partita". 

Qualcuno parla di un piano preordinato. Lo ritiene possibile? 
"No, se fosse stata una cosa decisa a tavolino, sarebbe stata rivendicata in qualche modo. E invece non è accaduto". 

C'è chi punta l'indice sui rapporti troppo stretti tra società e gruppi ultras. 
"Non credo si possa generalizzare. Certo in alcuni casi ci sono e servono alle prime per avere meno problemi con la tifoseria, e ai secondi per ottenere favori e agevolazioni".

23 marzo 2004

"Estremisti infiltrati in curva"
Le tifoserie di Roma e Lazio si sono spostate a destra. L'allarme per gli incroci con la malavita. Ecco tutti i nuovi padroni

L'ultimo gruppo della Curva Sud, fondato nel corso dell'ultimo Roma-Juventus, il 4-0 diventato icona con il gesto di Checco Totti a Tudor - "quattro gol e a casa" -, si chiama Giovinezza, ma loro, ragazzi di Portuense con sciarpa e scooterone, negano abbia a che fare con la mussoliniana primavera di bellezza. Prima si chiamava "Montemario", il gruppo, e identificava un bel quartiere residenziale della Capitale, ora Giovinezza. Max Leggeri sulla locale Radio Incontro parla impettito di "Roma culla della civiltà" e sostiene che tacciare la curva giallorossa di estremismo sia solo un modo di negare la voglia di politica che alberga nei suoi giovani frequentatori: "Non possiamo lasciare l'impegno ai politici di mestiere", spiega in tv, infastidito, al sottosegretario Mario Pescante. 

Poi c'è Mario Corsi, per tutti il Marione. Leader, altroché. La sua storia è pesante almeno quanto le repliche che regala agli ascoltatori di "Rete Sport": "Ma come ve lo devo spiegà che Capello nun conta un c... e se nun ve sta bene cambiate canale". Mario Corsi, oggi, consiglia Totti, corre a Perugia a consegnare all'allenatore Cosmi una maglietta con dedica, affida il suo pensiero al sito Internet "Marione. net", carico di pubblicità, e regala alle tv nazionali perle di saggezza romanista. Ieri, però, ha avuto una storia di violenza neofascista. Come militate dei Nuclei armati rivoluzionari è entrato nelle indagini per l'assassinio di Fausto e Iaio, due ragazzi del Leoncavallo di Milano uccisi per strada: l'hanno indagato nel '79, reindagato nel '91 su indicazioni del pentito Izzo, quindi il gip Forleo nel 2000 l'ha prosciolto riconoscendo "significativi elementi" a carico suo e di due camerati, "significativi ma non sufficienti". Accusato dell'omicidio del simpatizzante del Pci, Ivo Zini, colpito a Roma da una Vespa in corsa, Mario Corsi è stato prosciolto in primo grado, condannato a 23 anni in appello e riassolto in secondo grado dopo un intervento della Cassazione. In gioventù assaltatore di scuole e cinema romani, nella maturità, otto anni fa, viene arrestato insieme a sei ultrà di Boys Roma e Frangia ostile: minacciava per ottenere accessi gratis allo stadio, irrompeva nelle radio private per costringere gli speaker a leggere i suoi comunicati. 

Compagno di viaggio del Marione è "il Mortadella", Fabrizio Carroccia, amico personale di Luciano Moggi: fu al centro di una grottesca storia di arbitri e designazioni esplosa dopo Juve-Inter dell'aprile '98 (la partita del rigore negato a Ronaldo). Ogni tanto qualche ascoltatore ricorda al neoMarione, agitatore radiofonico, il suo curriculum vitae, e lui sul passato replica: "Ci sono tanti giudici che non mi hanno mai ritenuto responsabile di alcun omicidio". 

Sbanda così, terribilmente a destra, il tifo romano del Duemila. E lo stadio, compresi pezzi interi di curva, inizia a non sopportarlo. Nell'autunno del '94 una spedizione di ultrà romanisti e laziali partì unita per spezzare le reni ai leghisti di Brescia e mandò in coma un vicequestore di polizia. Cinque stagioni fa gli storici Cucs sono stati spodestati dalla ringhiera centrale della curva a colpi di coltello: s'insediarono gli ultrà, "As Roma". 

In questo crogiolo di passioni che è la curva dell'Olimpico, Sud e Nord indistintamente, s'infila con spregiudicata facilità la criminalità romana, rapinatori assoldati dalla mafia catanese per esempio. Li hanno arrestati nell'estate 2003, dopo 33 colpi: tra loro c'era "Er Polpetta", protagonista degli scontri con i turchi del Galatasaray. L'esperienza della banda della Magliana sembra perpetuarsi all'infinito in un incrocio tifo-politica-delinquenza organizzata che fa di Roma un luogo sportivo inedito e dalla pericolosità totale. 
Spiega l'ultimo rapporto Digos: "Il movimento di estrema destra "Base autonoma" ha infiltrato militanti nei gruppi "Tradizione e distinzione" della Roma e "Irriducibili" e "Banda de Noantri" della Lazio contribuendo a far superare la storica rivalità tra le due tifoserie". Oggi il terzino Panucci deve chiedere scusa a Paolo Zappavigna, leader dei Boys, per essersi rifiutato di entrare in campo durante Reggina-Roma. E oggi i gruppi ultrà del centro-nord provano a isolare il tifo estremo romano. La manifestazione contro "la repressione e il calcio Sky" indetta nella capitale nell'aprile 2003 si trasformò, non a caso, in una lugubre sfilata di braccia tese, Sieg Heil e cappellini "Charlemagne". Era la brigata francese delle Ss che fino all'ultimo giorno difese Adolf Hitler assediato a Berlino. di Corrado Zunino da La Repubblica

Ultrà a comando

A pensar male si fa peccato... Beh, davanti a quello che è successo l’altra notte all’Olimpico e pensando a quello che sarebbe potuto accadere pensare male è un dovere. Che sul terreno di gioco c’erano capitifosi che dettavano legge è un fatto, testimoniato dalle immagini televisive. Che il presidente di un’associazione privata come la Lega calcio si sia arrogato il diritto di prendere una decisione di ordine pubblico sulla pelle di ottantamila persone è un altro inquietante aspetto di quella notte di follia.
Galliani nel suo delirio di onnipotenza berlusconiana non può sostituirsi ad un prefetto, che non ha sentito neanche il bisogno di interpellare. Esiste ancora uno Stato, esistono ancora persone che istituzionalmente devono provvedere all’incolumità dei cittadini oppure siamo al fai da te?. E Galliani non può consolarsi con il fatto che non c’è scappato il morto. L’altra notte è stato dato un inquietante segnale: è la violenza che detta legge. 
L’inchiesta giudiziaria deve svilupparsi nella maniera più decisa e approfondita senza fermarsi davanti a qualsivoglia “santuario”. Un capo di governo, per blandire il suo potenziale elettorato, arriva a dichiarare che il decreto spalma-debiti è necessario per salvare Roma e Lazio («altrimenti in quella città può scoppiare la rivoluzione»). All’interno della sua maggioranza di governo ci sono partiti che si dichiarano nettamente contrari a questa soluzione. 
Il messaggio non ha bisogno di essere decriptato. E chi con il calcio ha costruito le sue fortune personali capisce al volo. Se Roma e Lazio dovessero naufragare nel mare melmoso dei loro debiti che fine farebbero i professionisti del tifo? Quelli che sulla passione del tifoso hanno costruito un’industria. Catene di negozi, locali, radio e tv che a Roma in maniera gigantesca veicolano consensi e camionate di pubblicità: sono milioni di euro che girano. E se Roma e Lazio dovessero sparire dalla scena calcistica per loro sarebbe il tracollo. Ed ecco allora la drammatica sceneggiata della notte scorsa. Possono anche giurare sulle loro madri che non c’era nulla di preordinato, ma è davvero difficile credergli di fronte alla geometrica potenza che gli ultrà hanno messo in mostra. Una sorta di prova generale dei “timori paventati” dal presidente del Consiglio: ecco quello che potrebbe succedere se Roma e Lazio non vengono salvate. 
L’inchiesta deve fare piena luce sulla terrificante notte dell’Olimpico. I magistrati Elisabetta Ceniccola e Silverio Piro ai quali sono state affidate le indagini hanno da tempo sulle loro scrivanie un fascicolo che riguarda possibili estorsioni da parte di alcuni tifosi nei confronti di un club romano: questo è un altro fronte dove bisogna andare a fondo. Bisogna abbattere quel muro di micidiale omertà, anche per dare coraggio a chi ha oggettivamente paura di farsi avanti. 
E andrebbe anche analizzata l’intervista con la quale Totti ha scelto la vigilia del derby per dichiarare che non sarebbe restato in una “Rometta”. 
Nessuna debolezza o comprensione ammantata da ragioni sociali. In un paese dove c’è chi sostiene che non pagare le tasse è legittimo, dove l’etica viene “insegnata” a colpi di condoni è certo complicato mostrarsi rigorosi nei confronti del mondo del calcio. È complicato, difficile ma bisogna farlo. 
La tragedia sfiorata l’altra notte ha ottime chance di essere centrata alla prossima occasione. Il futuro di un club che ha evaso il fisco, che non ha i mezzi per proseguire la sua attività deve obbedire a leggi e regolamenti. Nessuno sconto. E non si tratta di sciocco moralismo. Se alcuni club vengono graziati, cosa potrà mai succedere con i sostenitori di altre società che invece vengono gestite con responsabile senso amministrativo? 
La metastasi del cancro-pallone è già diffusa e chi pensa di intervenire con degli impacchi è un folle, non meno responsabile di quelli che hanno organizzato i fattacci dell’Olimpico.
C’è rimasto solo il bisturi. di Ronaldo Pergolini

Se al potere vanno gli ultrà

E così ci hanno portato via anche il derby, sospeso per la prima volta su richiesta, diciamo così, dei tifosi di Lazio e Roma all’inizio del secondo tempo. Non c’erano stati gol, Fiore e Totti erano rimasti al palo, uno a testa, tutto sembrava convergere verso una partita normale, anche troppo normale. Poi è successo qualcosa che non ha precedenti nella storia del calcio italiano: le curve hanno detto basta, non si gioca più. Un tam tam inspiegabile nell’era della comunicazione ha diffuso la notizia della morte di un piccolo tifoso della Roma durante una carica della polizia. Non si sa come abbia fatto, ma una delegazione della curva è entrata in campo per convincere Totti che non era proprio il caso di continuare. In campo era arrivato nel frattempo anche il prefetto a smentire la notizia, a garantire che non era successo nulla di drammatico. La partita era virtualmente finita, la parola della curva vale molto di più di quella di un prefetto e di quella di un questore. 
Così il presidente della Lega Galliani, reduce da una bella comparsata nel salotto di Simona Ventura, ha preso la decisione di sospendere la partita e l’ha comunicata via cellulare all’arbitro Rosetti, che ha ovviamente obbedito. Se non ci fossero i telefoni cellulari, tutto questo forse non sarebbe accaduto: niente tam tam, niente comunicazione all’arbitro. Nella sua esternazione pomeridiana, guarda tu i casi della vita, Galliani si era impegnato in una accorata difesa del calcio romano: «Impensabile - aveva detto - un campionato senza Lazio e Roma ad alto livello». Chissà se la pensa ancora così dopo quello che è accaduto in questa domenica surreale che segna forse uno dei momenti più malinconici e avvilenti per il nostro calcio. Che non si è fermato dopo la morte di Paparelli e dopo la tragedia dell’Heysel; che ha fatto finta di niente l’11 settembre prima e l’11 marzo poi; e che si blocca, scoprendosi incredibilmente vulnerabile, davanti a una falsa notizia, di fronte a un gruppo di persone che dovrebbe limitarsi ad assistere a una partita in cambio del prezzo del biglietto e invece decide anche per gli altri, magari dopo avere giocato alla guerra con le forze dell’ordine.Non si poteva più giocare, con la gente in campo e con il clima che si era creato, anche se sospendere la partita ha comunque comportato serissimi rischi di ordine pubblico. La partita era finita, i calciatori non avevano più la testa e se avessero accettato di continuare, avrebbero dato vita a una recita, non a un confronto sportivo, per non parlare del rischio d’invasione che era piuttosto forte. Non è questo il punto. E’ lo svolgimento, la sequenza dei fatti, le cause e gli effetti che sono davvero allarmanti. Che non ci sia stato il morto è la sola bella notizia che ha chiuso questa serata allucinante. Per il resto il calcio esce con le ossa rotte proprio nei giorni in cui chiede, quasi pretende, una mano dal Governo per uscire dalla crisi finanziaria nella quale si dibatte. 
Dice di essere disgustato e anche impaurito il portiere dell’Atalanta Massimo Taibi, colpito ieri a Messina da una pietra che avrebbe potuto ucciderlo. Lui, siciliano che gioca a Bergamo, vecchio zingaro del pallone, lui che ne ha viste tante ma che ancora non aveva visto il derby romano, stavolta confessa di non capire ed è un’ altra pietra sull’immagine del calcio malato. Malato di che? Malato di tutto e ormai terribilmente ansiogeno se chi va allo stadio non deve preoccuparsi più soltanto del risultato, che nel suo piccolo era già tanto. Adesso tutto diventa precario dalle maglie che non rappresentano più i colori della tua squadra, alle bandiere che non esistono più, alle squadre che non sai se si iscriveranno al campionato, alle classifiche che possono dipendere dai tribunali dello sport. E da oggi anche dall’umore di qualche centinaio di persone che può stabilire quanto deve durare una partita di pallone. La nafta è finita, la barca affonda, i sorci scappano, c’era scritto su uno striscione laziale. Erano belli i tempi in cui lo sfottò era quasi un’arte. di Enrico Maida dal Messagero

Se il calcio finisce in mano agli ultras
Una sospensione allucinante per una voce incontrollata

Allucinante quel che è successo all'Olimpico. Senza precedenti, ma la sospensione del derby è già un precedente. Nell'intervallo di Lazio-Roma si sparge la voce che un bambino è morto, travolto da un'auto della polizia, negli incidenti del prepartita. I tifosi delle curve, all'inizio del secondo tempo, invocano la sospensione. L'arbitro ferma il gioco. Qualche capotifoso entra in campo a parlare coi giocatori. Una parte dello stadio grida "assassini". Un portavoce della questura all'altoparlante smentisce la notizia: non è successo niente di grave, non è morto nessuno. 

Ma i conciliaboli sul campo continuano per una ventina di minuti. Rosetti parla al telefonino con la Lega (col presidente Galliani) ed è autorizzato alla sospensione. Di sfuggita, ci si può chiedere dove fossero quelli della Federcalcio, o i dirigenti arbitrali, e perché Rosetti parli con Galliani. Poi uno si dà la risposta che vuole. Sky fa un buon servizio di copertura, molto responsabile. Si sente Cassano dire all'arbitro "facciamo una figura di merda" (continuando a giocare). E quindi tutti a casa, e adesso parliamo di una sospensione (allucinante, ripeto) per voce incontrollata. 

Basta questo? Purtroppo sì, questo è bastato. Strano contrappasso: il calcio non s'è fermato per le stragi, nemmeno l'ultima di Madrid. Il calcio non s'è fermato con decine di morti dentro lo stadio, all'Heysel, né con un morto ammazzato dentro lo stadio o appena fuori (Paparelli, Spagnolo). Il calcio si ferma per una notizia falsa, per un bambino mai morto, per una leggenda metropolitana fatta circolare. Da chi e perché, il vero punto è questo, e non è il solo. I giocatori (più quelli della Roma che quelli della Lazio, è parso in tv) hanno deciso di non giocare e, a quel punto, era una decisione logica, perché la partita non aveva più senso, era stata sequestrata, chi si ricordava più del palo di Fiore e del palo di Totti. 

Il calcio si scopre estremamente fragile. È in ostaggio. Lo stadio è un luogo di svago, nel migliore dei casi, ma è anche un luogo pericoloso. I calciatori non sono criticabili, questo va detto. Con le informazioni che avevano (un misto di sommarie, ufficiali, urlate, contrastanti) non potevano fare diversamente. Tante volte sono stati accusati di insensibilità, di vivere sulla torre d'avorio, di ignorare la realtà che li circonda. Non l'hanno ignorata e non era la realtà, ma non è colpa loro. 

Sono stati minuti lunghissimi, tesi, aspri. E hanno portato alla sospensione per volontà popolare. Ma si può definire volontà popolare un'isteria collettiva? Chi era a casa ha vissuto la situazione come quelli che erano alla stadio. Sarà morto o no il bambino? Sarà vera la smentita o lo dicono per motivi di ordine pubblico? Col tempo si è capito che la smentita era vera. Ma restano altre preoccupazioni. Nei brutti tempi che viviamo, col terrorismo che colpisce ovunque, si è al riparo da una voce incontrollata che parla di una bomba in uno stadio o si dovranno contare le vittime della reazione a una bomba che non c'è? Dopo la partita ci sono stati scontri, per le strade di Roma, e già allo stadio si respirava non un clima non di violenza (non autorizzato da una partita corretta, finché è durata) ma di voglia di violenza, fatta o subìta non importa. Come se un morto, non già un gol, fosse il valore aggiunto della serata. E poi ci sono altre possibile conseguenzi: quanti avranno voglia di portare un bambino allo stadio, dopo quei minuti d'angoscia? 

È andata bene, dicono quelli della polizia, poteva andar peggio. 
Probabilmente è così, poteva andar peggio. Per un difetto di comunicazione, un equivoco, una voce fatta circolare ad arte (e se sì, con quale obiettivo?). È già stata aperta un'inchiesta. Non occorre un'inchiesta invece per dire che il nostro calcio (l'immagine ma anche la sostanza) ne esce più fragile, sporco e malato. Si è tanto parlato, e giustamente, di bilanci. Si è parlato meno, però, di una violenza che c'era e continua a esserci, anzi è ancora molto forte e incontrollata. Talmente forte da autogiustificarsi col nulla. di Gianni Mura da La Repubblica

"Nessun complotto, solo un equivoco"
Gli ultras difendono le loro scelte. Il giorno dopo il derby sospeso, diversi capi delle tifoserie intervengono nelle radio per spiegare il loro punto di vista: "Impossibile che ci sia stato un accordo"

Negano che ci sia stata alcuna predeterminazione, spiegano che un accordo tra tifosi di Roma e Lazio nel giorno del derby è semplicemente impossibile, assicurano che a causare lo stop del derby è stato solo un moto di solidarietà fra curve di fronte alla voce (poi rivelatasi falsa) di un bambino morto per colpa della polizia. Parlano alle radio "tutto calcio", intervengono, si fanno sentire, mentre alcuni di loro (quelli che sono entrati in campo per convincere Totti a smettere di giocare) vengono interrogati in questura e rischiano l'arresto. 

"Se il governo strumentalizza le curve, vuol dire che è alla canna del gas". Così 'Marione' Corsi capotifoso e conduttore di una delle radio dei tifosi romanisti, Rete Sport, commenta su Sky, nel corso di "C'è Diaco" l'ipotesi del ministro Maroni secondo il quale quanto accaduto ieri sera all'Olimpico "appare gestito per fare forte pressione sul governo" che deve decidere sul 'salvacalcio'. Anche Marione sostiene la tesi della casualità e dell'equivoco che si è inserito in una situazione di pessimi rapporti tra tifosi ultras e polizia. 

"Non c'è stato nessun piano preordinato". A parlare ai microfoni di una radio romana è Fabrizio detto Toffolo, uno degli indiscussi leader della Curva Nord laziale, che ripercorre i fatti di ieri sera: "La storia è questa - sostiene - Ieri sera verso le ore 19,30 ho ricevuto la telefonata di alcuni ragazzi già all'interno della Curva Nord, io ero a casa e cercavo di rendermi utile per la coreografia prima della gara, ai quali era stata fatta una telefonata dalla Curva Sud per comunicare la presunta morte di un tifoso". 

"Fino alla fine del primo tempo - prosegue Toffolo - erano solo voci. Quando poi alla fine del primo tempo sono stati ritirati gli striscioni e la Curva Sud non ha fatto la prevista coreografia per il secondo tempo, è stato il segnale che era successo qualcosa di grave. In Curva Nord sono stati tolti gli striscioni per solidarietà nei confronti della curva opposta. Era solo solidarietà. A chi poteva dare profitto una cosa simile? Era un derby molto tranquillo prima della gara così come ha dichiarato il Prefetto. Perché parlare di terrorismo o dell'11 Settembre del calcio italiano? Non c'è stata nessuna premeditazione, ma solo un gesto di solidarietà verso i tifosi della Curva Sud. Abbiamo tolto gli striscioni per solidarietà, tutto qui". 

"Ma quale predeterminato, il derby è odio calcistico, vi pare che mi metto d'accordo con i tifosi della Lazio...". Nega l'ipotesi di incidenti concordati tra le due tifoserie Paolo Zappavigna, uno dei capi ultras della curva della Roma intervistato dal Tg1. 

"Avevamo preparato per lungo tempo una coreografia per il derby, ma quale accordo... - ha spiegato il tifoso - Perchè non siamo restati quando hanno annunciato che la notizia della morte di un bimbo era falsa? Anni fa anche di Vincenzo Spagnolo dissero che non era morto...", ha concluso Zappavigna, riferendosi all'omicidio di Vincenzo Spagnolo il 29 gennaio 1995, che determinò la sospensione di Genoa-Milan. da La Repubblica

"Basta, il calcio per me è morto"
Il giorno dopo la paura sulle radio della Capitale. L'indignazione del tifoso qualunque. "Anch'io sono arrabbiato ma non vado allo stadio a picchiare". L'appello: "Perché non dite chi sono questi capi ultrà?"

Esiste un termometro per misurare la temperatura della Roma del calcio. Le radio locali. Soprattutto il lunedì. Soprattutto questo lunedì. Dopo il derby sospeso per volere degli ultrà. Dopo le immagini da guerra civile viste in televisione, auto incendiate, famiglie che scappavano tra il fumo dei lacrimogeni. Il derby che ha fatto sprofondare una città nella vergogna. Qualcosa si è spezzato ieri nei romani, nei tifosi normali. Ecco una voce rapida e asciutta che spiega questa sensazione a Radio radio, una delle emittenti romane più seguite: "Ieri sera sono scappato dallo stadio, sono tornato a casa e ho abbracciato mia moglie. Poi ho strappato l'abbonamento. Per me il calcio è finito ieri". 

Sono emittenti piccole ma seguitissime, queste radio. Si parla per il 90 per cento di calcio. Di Roma e di Lazio. Microfoni aperti, telefonate degli ascoltatori ma non solo. Anche i politici sanno quanto sono seguite e per esempio stamattina il presidente della Regione Lazio Francesco Storace (tifoso giallorosso) si è fatto sentire per dire la sua su quanto avvenuto ieri sera all'Olimpico. "Avrei una richiesta - dice il governatore rivolgendosi ai conduttori - per favore, stemperate i toni il più possibile". E poi: "Ieri volevo portare mia nipote di nove anni allo stadio. Meno male che ho cambiato idea all'ultimo momento". 

Quando si aprono i microfoni, le voci che si sentono si assomigliano tutte. Stupore e paura della sera prima lasciano il posto alla rabbia. Come per Salvatore (tifoso della Roma): "Io ho tanta rabbia dentro. Tutti nella vita di tutti i giorni siamo arrabbiati. Ma io non vado alla stadio a picchiare nessuno. La rabbia me la tengo per me. Dicono che con questi ultras bisogna dialogare... Ma con chi vuoi dialogare?" 

E Stefania, 46 anni, tifosa della Lazio, che ha iniziato ad andare allo stadio prima di andare a scuola prova a raccontare quello che ha passato ieri sera. "Ero in curva nord (la curva dei sostenitori laziali ndr). Volevamo andar via, quando abbiamo visto che le cose si mettevano male. Ma i cancelli della curva erano chiusi. Eravamo chiusi dentro. Si poteva uscire dalla tribuna Monte Mario, molti dalla Nord hanno scavalcato per fuggire. Quando sono riuscita a uscire mi sono messa a correre per sfuggire al gas e i poliziotti ci hanno caricato perché correvamo. Solo perché correvamo". 

E Marco, tifoso ed ex arbitro: "Non avete idea di che cosa succede nei campi di calcio delle serie minori. Ho restituito la tessera perché non ce la facevo più. Il calcio è in mano ai tifosi estremisti. Bisogna togliere la ribalta e il potere ai capi ultrà. I ragazzi più giovani sono manipolati in un insospettabile giro di soldi e di potere. Se ieri polizia e carabinieri avessero perso la testa sarebbe successa un'ira di dio". 

Mauro: "Ma questi capi ultrà sono identificabili, abbiamo le immagini televisive. C'è un capo ultrà che dice a Totti: 'l'ho vistò riferendosi al bambino dato per morto. E il reato di procurato allarme è un reato penale. Perché non li fermano?" 

Claudio, tifoso della Roma: "Abbiamo visto subito io e mio figlio che stava succedendo qualcosa di brutto. Ma noi avevamo biglietti per la tribuna, mi sentivo tranquillo. Alla fine del primo tempo è iniziata a circolare quella notizia del bambino morto. E anche da alcune radio private la notizia è stata rilanciata. Tanto che il questore ascolterà tutte le registrazioni". 

Ambrogio: "Ma chi ha aperto le porte ai capi ultrà per farli entrare in campo? Ma è normale che la polizia permetta a quei signori di parlare con i capitani delle squadre per riferire loro una notizia falsa". 

E la denuncia rivolta ai conduttori della radio: "Questi capi hanno molti precedenti penali. Perché non dite anche questo?" di Dario Olivero da La Repubblica

 

index