Spunti di riflessioneDue passi avanti e uno indietro 
Prima i cori di scherno e il nazionalismo per l'omaggio ai militari di Nassiyria. Poi, domenica scorsa, gli striscioni contro la visita di Fini in Israele. La politica torna prepotentemente negli stadi italiani, complicando quel processo di sviluppo degli ultras come movimento antagonista che aveva raccolto il mondo del tifo attorno al rifiuto del calcio moderno

Strage di Nassyria, anche negli stadi si è osservato un minuto di silenzio. E l'omaggio doveroso ai militari caduti che ha unito momentaneamente il Paese ha conosciuto proprio tra gli ultras un primo momento di rottura. Paradossalmente questa frattura è avvenuto su uno dei pochi punti che accomunavano la destra e la sinistra del movimento: la storica avversione per le forze dell'ordine in generale e per i carabinieri in particolare. Una unione esplicitata dallo slogan «la disoccupazione ti ha dato un bel mestiere, mestiere di merda, carabiniere», che fino a qualche settimana fa si ascoltava in gran parte dei nostri stadi. Schematicamente, alcuni gruppi ultras di sinistra (livornesi, ternani, milanisti), terminato il minuto di silenzio, non hanno esitato a rilanciare i loro cori di insulti verso i carabinieri. Quelli di destra (laziali e interisti su tutti), invece, tacitati la rabbia e il rancore usuali (nonché l'ostilità alla guerra anglo-americana contro Saddam), tricolore al vento, braccia tese e inno di Mameli cantato a pieni polmoni, hanno cercato di colorare di nazionalismo il clima di unità nazionale presente in quei giorni. Comportamenti, del resto, gli uni e gli altri, assolutamente coerenti con le scelte che l'estrema destra e l'estrema sinistra sostengono nello scenario politico italiano. Ma il ritorno della politica in curva non finisce qui. L'ultimo fine settimana è stato caratterizzato dal dibattito intorno alla visita di Fini in Israele. Alcuni gruppi di curva hanno voluto far sentire la propria voce. Al Delle Alpi sabato sera, durante Juventus-Inter, nella Curva Scirea è stato esposto uno striscione a firma di Forza Nuova che definiva «Fini traditore d'Italia». Il pomeriggio successivo nella Curva Sud dell'Olimpico tra gli striscioni degli ultrà romanisti si leggeva «Fini Badoglio» e «Fini boia». Intervistato, un leader dei Boys ha rivendicato apertamente queste posizioni e sostenuto che il suo e altri gruppi della curva sono pronti a impegnarsi per sostenere la Mussolini nella formazione di un nuovo soggetto politico a destra di AN.

Fin qui, i fatti. Estremamente lineari e di facile lettura: la politica torna prepotentemente a determinare comportamenti e schieramenti. Esito un po' amaro, non scontato, speriamo non definitivo di un processo che la scorsa primavera sembrava dischiudere ben altre prospettive al movimento ultras. L'impressione innegabile è che i passi in avanti percorsi con fatica finiscano prima o poi ineluttabilmente per confliggere con un'inerzia che tende a riportare ogni pedina al suo posto. In Italia, nonostante negli occhi di tutti ci siano ancora le immagini drammatiche di Avellino, la questione della violenza può dirsi, tutto sommato, finalmente sotto controllo. Non risolta, attenzione, ma sotto controllo sì. Il rischio della «argentinizzazione» del tifo italiano sembra per il momento scongiurato. Il ripetersi di scontri armati tra falangi ultras, con morti e feriti, l'aggressione continua alle forze di polizia, la devastazione che segue al proprio passaggio come segno di identità della banda di appartenenza: tutto questo, che era stato il tratto specifico del movimento hooligan inglese negli anni settanta e ottanta, che ha pesato come orizzonte possibile sulla crescita dei gruppi ultras italiani in quegli stessi decenni e che oggi devasta il calcio argentino, non riesce più nel nostro Paese ad andare oltre i semplici desiderata di minoranze men che marginali. La cogestione del tifo con il coinvolgimento degli stessi gruppi organizzati e una evidente maturazione complessiva di questi ultimi hanno contribuito, assai più delle misure legislative e delle azioni repressive, che anzi continuano a tenere accesa la possibilità di processi degenerativi, a un esito di questo tipo. Le stesse manifestazioni di razzismo, più o meno esplicito, sembrano meno diffuse che in passato negli stadi italiani. Anche un semplice raffronto tra le sanzioni disciplinari comminate in questa stagione dagli organi della Federazione e quelle di anni addietro dimostra che l'ostilità verso i calciatori extracomunitari o verso le comunità più tradizionalmente discriminate (ebrei, albanesi, coloured), è divenuta assai più rarefatta. Non si può non lodare, in questo caso, l'idea di premiare il «dissenso attivo» di quei tifosi, la grande maggioranza, che intervengono per coprire i cosiddetti «ululati della vergogna».

Una evoluzione positiva del movimento ultras è evidente anche nella qualità del tifo oggi proposto dalle curve. Nella sostanza, sostegno alla maglia, alla bandiera e ai suoi colori. Che sono altra cosa dall'apprezzamento per i risultati che accompagnano le vicende agonistiche. Ci sono tifoserie di squadre dal passato più o meno prestigioso che, dopo anni o addirittura decenni di andamento quasi fallimentare, grazie alla determinazione e all'impegno degli ultras continuano a mantenersi piene di calore e di entusiasmo. Del resto, la sottrazione della propria passione alle fluttuazioni del mercato calcistico (dove a primeggiare peraltro sono sempre gli stessi) è un elemento fondamentale perché il campionato italiano di calcio continui ad avere una sua storia. La «resistenza» (nessuno si offenda) di genoani e torinisti, di veronesi, napoletani, fiorentini, cagliaritani e così via, in un tempo per loro tanto avaro di soddisfazioni, è una delle precondizioni per impedire che una tradizione calcistica secolare come la nostra sfoci in un minuetto repellente - vinco io, vinci tu, rivinco io - tra chi in questi decenni ha saputo e potuto concentrare ricchezza, potere e strumenti di controllo (mediatici in particolare) tali da asfissiare anche la semplice aspirazione ad ogni reale competizione.

Intorno alla parola d'ordine «no al calcio moderno» gli ultras avevano avviato la costruzione di una sorta di movimento antagonista, ben determinato nel contrastare lo strapotere delle pay-tv nell'organizzazione dei campionati, gli abusi di potere di una legislazione che trasforma la lotta alla violenza nella limitazione delle libertà individuali (di spostarsi senza biglietto, di seguire la squadra in trasferta, ecc), gli eccessi nel mercato e nei compensi dei calciatori, l'affarismo dei presidenti mossi unicamente dalla voglia di business. E tanto altro ancora. Quella parola d'ordine, a nostro parere, era più che discutibile; soprattutto perché sembrava rinviare alla memoria di un'età aulica del nostro calcio. Un'età immaginaria, in realtà, ché il campionato italiano nella sua storia si è ben pasciuto di ogni genere di schifezze. Basti pensare alle indagini in corso nella Procura di Torino o alla vicenda del calcio scommesse. E tuttavia, pur con i suoi limiti, l'abbozzo di una piattaforma contrattuale e i germi di una organizzazione unitaria collocavano il movimento dei tifosi su un terreno straordinariamente avanzato, capace di esercitare una pressione non indifferente nei processi attuali di ristrutturazione del calcio italiano.

Adesso tutto si fa più complicato. Aver ripreso a strutturare la soggettività e l'antagonismo ultras intorno alle identità ideologiche e politiche porta, inevitabilmente, da un lato a rendere pressoché impossibile un qualsiasi processo unitario; dall'altro a spostare fuori dalla curva, fuori dallo stadio, fuori dal calcio l'obiettivo autentico della propria attività «militante». Il progetto di costruzione di una «conflittualità riformatrice» rischia così di lasciare il passo a una visione dello stadio come palestra d'ardimento, come luogo eletto per la costruzione di battaglioni destinati a combattere altrove nel tempo e nello spazio (per intenderci, sul modello degli ultras della Stella Rossa di Belgrado o della Dinamo di Zagabria e del loro ruolo nella guerra interetnica dei Balcani: senza arrivare a ipotizzare contesti tanto drammatici, il modello è quello). La voracità insaziabile della plenipotenziaria Sky o del G14 (lobby inattaccabile dei club calcistici più ricchi e potenti del mondo), le ambizioni delle associazioni di procuratori e mediatori vari che tengono in pugno il mercato o quella delle banche che governano i destini delle squadre unicamente in base ai propri interessi, spingono a non chinare la testa di fronte a scenari tanto melmosi.

index