Ecco il fallimento dell'azienda calcio
Atleti svalutati, ingaggi folli, ricavi modesti, la foto di un crac
Senza l'aiuto del governo un miliardo di perdite
Il calcio italiano sull'orlo del baratro. Le cinque grandi, e cioè Milan, Roma, Inter, Lazio e la stessa Juve che pure sta un pochino meglio, i team che ogni anno si contendono sui campi di calcio il primato nelle principali competizioni italiane ed europee, non si meritano certo la coppa di campioni in bilancio. Tra conti in rosso, stipendi altissimi e calciatori che non valgono più quanto percepiscono, la contabilità fa acqua da tutte le parti. Costi pari a 1,2 miliardi di euro, quasi il 50% in più delle entrate. Perdite complessive per 271 milioni, ma sarebbero quasi il quadruplo, 1.090 milioni, senza l'escamotage - inventato dal governo - del decreto "spalma-debiti". Oltre 1,4 miliardi di debiti.
Ecco i numeri, ecco il super-bilancio della fascia alta del pallone nazionale, una fotografia impietosa di un affare che, se non si chiamasse calcio e non calamitasse ogni domenica l'attenzione di milioni di italiani, sarebbe un business a un passo dal fallimento. O forse oltre.
Nella stagione 2002-2003, sebbene i ricavi dei cinque big siano aumentati - complessivamente - del 15% e le spese siano diminuite dell'8%, nessuna squadra è riuscita a coprire con il fatturato i costi operativi. Come dire che nessuno è riuscito a spendere meno di quanto ha incassato. Nel dettaglio, le cinque grandi hanno avuto ricavi per 825 milioni di euro, ma hanno dovuto sostenere spese per 1,2 miliardi. E di questi, ben 582 milioni sono andati in fumo per gli stipendi di calciatori e allenatori.
Non è una novità che i conti dei più importanti club italiani siano in perpetuo squilibrio, ma ad aggravare la situazione nell'ultima stagione si è aggiunta una nuova tegola: la difficoltà nel vendere a prezzi da favola i campioni. In sostanza, il mercato è crollato e nei bilanci la mancanza di compravendite di calciatori si è trasformata in un buco di quasi 300 milioni di euro. Rispetto allo scorso anno, i proventi straordinari, per la maggior parte realizzati con la cessione di giocatori, sono scesi del 67,4%. Tra le cinque grandi, solo l'Inter è riuscita a mantenere questa voce a livelli decenti, grazie alla cessione di Ronaldo al Real Madrid per 45 milioni di euro.
Le altre hanno dovuto farne a meno o battere strade diverse, come la Juve che ha tirato fuori dal cilindro la cessione del 27,2% della controllata Campi di Vinovo a una società del suo amministratore delegato, Antonio Giraudo, per 37,2 milioni di euro.
Senza i proventi straordinari, quest'anno il vero salvagente per le società di calcio è arrivato sotto forma di decreto dal governo Berlusconi. Il provvedimento, infatti, ha permesso di suddividere i costi sostenuti per l'acquisto dei giocatori non per gli anni di durata del contratto di ogni singolo calciatore, ma indistintamente in dieci anni. In soldoni significa che i cinque big, ad eccezione della Juve che non ha fatto ricorso al decreto, potranno detrarre oltre un miliardo di euro dai propri utili non nei prossimi due o tre anni, quando scadranno la maggior parte dei contratti, ma nei prossimi dieci. Con tutta calma. È un artificio contabile che dà fiato ai bilanci delle società e alle tasche dei presidenti.
I grandi azionisti, infatti, potranno far fronte con più tranquillità alle perdite future e nel frattempo tentare di risanare le società, ricontrattando gli stipendi e riducendo gli acquisti miliardari. Solo per ripianare i buchi della stagione 2002-2003, nelle casse dei grandi club sono stati versati o dovranno essere versati oltre 250 milioni di euro.
Il percorso verso la razionalizzazione del settore è appena iniziato (in un anno gli stipendi dei giocatori delle grandi sono calati solo del 2,4%) e non tutto gira per il verso giusto. Già l'Organismo italiano di contabilità ha espresso un parere negativo sul decreto "spalma-debiti" e lo stesso presidente della commissione Bilancio della Camera, Giancarlo Giorgetti, ha definito a suo tempo la norma "un obbrobrio politico e contabile". Ora il provvedimento è al vaglio dell'Antitrust europeo, che ha aperto un'inchiesta per verificare se la manovra si configuri come un aiuto di Stato. Se il decreto venisse bloccato, per i presidenti dei big del calcio sarebbe un vero e proprio bagno di sangue.
"Si doveva investire sugli italiani"
Parla Tanzi: "Stipendi ridotti del 60%, la crisi c'è ma il pallone potrà ripartire"
"La crisi del calcio? Oggi è innegabile, ma sono convinto che ci sia già stata una forte presa di coscienza collettiva, che aiuterà il pallone a ripartire". Stefano Tanzi, presidente del Parma, è preoccupato ma non pessimista. E forte della sua esperienza alla guida dei gialloblù, che in poco tempo sono riusciti con una politica di austerity a riportare in carreggiata il bilancio, propone la sua ricetta per accorciare la strada del rilancio.
Dottor Tanzi, cosa è successo per ridurre in questo stato il calcio italiano?
"Abbiamo sbagliato un po' tutti. Non tanto sul fronte delle entrate, che anzi sono aumentate molto (anche se si poteva fare di più), quanto su quello dei costi. Strapagando gente che poi non ha saputo dimostrare in campo il suo valore. E quando il calciomercato è crollato tutti i nodi sono venuti al pettine".
E ora?
"Le posso dire quello che abbiamo fatto noi: abbiamo tagliato la rosa da 37 a 22 giocatori, il monte stipendi da 70 a 30 milioni di euro, con l'obiettivo di scendere a 20. Adesso bisogna legare una percentuale decisamente maggiore della retribuzione al rendimento. E puntare a ridurre i rischi sugli investimenti per i nuovi giocatori. Penso che sia meglio rinunciare alla suggestione del super-acquisto dello straniero di grido, che poi troppo spesso in passato tradisce le attese. Se negli ultimi anni avessimo preso più calciatori italiani, pagandoli un decimo di quanto abbiamo speso per i big stranieri, forse ora non saremmo a questo punto".
Come giudica la risposta del "sistema calcio" all'emergenza?
"Penso che un provvedimento come il decreto "spalma-perdite" del Governo sia fondamentale, ma solo se si riesce a sposarlo con la volontà reale di risolvere il problema della fragilità finanziaria delle squadre, intervenendo anche sulle cause dei guai. Chi lo prende come un regalo una tantum e lo utilizzerà senza fare la sua parte, si troverà tra due anni con gli stessi problemi che ha dribblato oggi. Tra l'altro poi con le regole delle licenze Uefa - che nei prossimi anni imporranno il rispetto di rigidi parametri economico-finanziari per partecipare alle competizioni internazionali - tutti saranno costretti a fare i conti con la realtà".
di Ettore Livini
"Le banche favoriscono le squadre in rosso"
Marco Vitale, uno dei più stimati economisti d'azienda italiani
è da tempo attento osservatore dei conti della serie A
"Il calcio? Inizia a dare qualche segnale di responsabilità, come testimonia l'ultimo "poverissimo" calcio mercato. Ma nei bilanci non ce n'è ancora traccia". Marco Vitale, uno dei più stimati economisti d'azienda italiani, è da tempo attento osservatore dei conti della serie A. E, malgrado le timide aperture di credito, rimane ancora molto critico sulla gestione dei club.
Professore, cosa devono fare le società per scacciare lo spettro dei crac finanziari?
"Devono tagliare i costi, gli stipendi di giocatori, allenatori e dirigenti. Quello che si è fatto finora è insufficiente. Il sistema è ancora cementato da interessi trasversali consolidati, pensi solo ai procuratori, che hanno tutto l'interesse a tener alte le spese e fanno muro contro la ragionevolezza".
Qualcuno sperava che con lo sbarco dei club in Borsa la situazione migliorasse...
"Io invece mi auguravo che sul fronte della corretta gestione l'esempio del Chievo facesse scuola. E in effetti squadre come Parma e Bologna si sono date un'amministrazione responsabile. Ma per i grandi non è successo".
In che senso?
"Nel senso che la Juve è l'unica ad avere un bilancio equilibrato. Il Milan ha un azionista che si può permettere di spendere in libertà perché grazie al calcio ottiene vantaggi su altri tavoli e alla resa dei conti scarica le perdite (in realtà così dimezzandole) sui conti Fininvest. Roma e Lazio invece hanno ricevuto un aiuto non normale dal sistema bancario".
Secondo lei perché?
"Perché una squadra non è una fabbrica di bulloni. Si incrociano poteri di vario genere, esistono adeguati tavoli di compensazione. Per cui le banche, che con altri settori sono meno generose, compensano in altre sedi l'onere della loro esposizione con il pallone. La loro benevolenza ritarda il risanamento del calcio italiano".
E allora a cosa bisogna aggrapparsi per sperare in una gestione più sana dello sport nazionale?
"Ci penserà la nuova licenza Uefa. La gestiscono i tedeschi, gente seria. Dal 2006, quando i paletti finanziari per i club saranno irrigiditi, non ci sarà scampo: chi non avrà i bilanci in ordine, molto semplicemente, non giocherà".
di Ettore Livini
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