El Bae, vita e morte con sete di giustizia Francesco Romor era il papà degli ultras del Venezia-Mestre ma anche il motore del centro sociale Rivolta, pronto a scendere in strada per la difesa degli spazi e dei diritti. Nel suo nome è nato un grande impianto sportivo polifunzionale nella Selva Lacandona, in Chiapas, all'insegna del calcio rebelde Senza di lui la curva sud non sarà più la stessa, ma se certi valori sono ancora rispettati è merito suo, del Bae». La voce di Frantz si abbassa quando parla di Francesco Romor, detto el Bae, storico ultrà del Venezia-Mestre morto nel febbraio 2001 a soli quarant'anni: «El Bae... era lui a tenere insieme tutto, e per me era un amico, un compagno». Un'amicizia nata nell'87, momento di fortunata transizione del calcio lagunare: dalla fusione del Venezia, allora in C2, col Calcio Mestre, società di lunga tradizione locale, nascerà il Venezia-Mestre che poi imboccherà la strada verso la serie A. Frantz è un diciottenne inquieto nell'Italia del riflusso e del disimpegno, e tifa per il Mestre. Va allo stadio sentendosi «pronto a partire», anche se non sa per dove. Francesco, figura carismatica tra i tifosi del Venezia, ha gli occhi da indio, la pelle scura del barcarolo e le rughe di chi ha guardato lontano. Figlio di comunisti, ha alle spalle le speranze del `77, l'imbuto della droga e la forza di riprendersi da solo, senza comunità di recupero o altri surrogati, semplicemente andandosene per due anni a faticare in Germania. I due si guardano, «si annusano»: tifavano per due squadre rivali, ma si riconoscono «come appartenenti alla stessa tribù»: hanno entrambi i capelli lunghi, la kefia, e la speranza che il calcio sia «capace di regalare ancora sogni». Insieme abbracciano i colori della nuova squadra a condizione che «non indichino i colori della pelle, e che alla base del rapporto tra squadra e comunità ci siano valori, e passioni scevre dalle appartenenze etniche, dal razzismo o dalla xenofobia». Se c'è da fare a cazzotti non si tirano indietro e non lasciano solo nessuno, ma non cercano grane. El Bae, che dirige la musica, è «il papà» e il cuore del gruppo ultrà, quasi sempre riesce a evitare tensioni inutili: disprezza «i coltelli e gli agguati vigliacchi di quelli che infangano il mondo degli ultras». Poi nascerà l'associazione Noi Ultras, e dalla curva sud - siamo ormai agli inizi degli anni novanta - si leveranno slogan contro la guerra del Golfo e contro il calcio moderno «tutto business e niente passione». Su questi temi, gli ultras incontrano i ragazzi del centro sociale Rivolta, affrontano con loro i problemi legali dovuti alle prime diffide, condividono le tappe di un percorso che, sull'onda dello zapatismo e delle Tute Bianche, contribuirà alla crescita dei nuovi movimenti. All'interno del centro sociale, gli ultras aprono un'osteria - uno spazio «di militanza quotidiana» - in cui El Bae, che del Rivolta ha fatto la sua casa, mette ulteriormente a frutto le sue capacità carismatiche e comunicative. Nei ricordi di Frantz, oggi scorrono come in un film le immagini di un'amicizia che si consolida attraverso l'impegno sociale: la manifestazione del 25 aprile `94, la lotta a fianco degli homeless, la battaglia per la difesa degli spazi e dei diritti. Allo stadio o al Rivolta, Francesco è sempre pronto a risolvere i problemi: «gran cerimoniere» alle nozze di Frantz e Valentina, compagno delle «interminabili notti in giro per l'Italia», «pirata all'arrembaggio del razzista Haider». Sa già di essere malato, El Bae, ma «sopporta il suo calvario con la stessa dignità con cui aveva affrontato Santa Croce 324, come diciamo noi per chi soggiorna al civico del carcere di Santa Maria Maggiore». E sempre «con quella passione per il calcio e il tifo e con quella sete di giustizia... sentendosi responsabile per gli altri fino all'ultimo». |