Non tutto il male viene dalla curva

Una riflessione sull'insensatezza delle nuove misure antiviolenza approvate dal governo. E sul perché l'impossibilità odierna di rovesciare sul campo l'oligarchia italiana del pallone, costituisca il principale motivo di rivolta che spinge gli ultrà a saccheggiare gli stadi e a scendere in piazza a protestare. Sognando un gioco più aperto alle capacità reali dei suoi protagonisti

Gli incidenti che hanno portato alla sospensione di Torino-Milan - poca cosa a ben vedere, in pratica una simulazione di ciò che è stata e può essere ancora la violenza negli stadi - dicono due cose molto importanti. Innanzitutto dimostrano - nonostante la grancassa dei media voglia oggi far intendere esattamente il contrario - la inutilità, anzi l'insensatezza, delle nuove misure antiviolenza approvate, tra alti squilli di tromba, dal governo. Tutto ciò che quelle norme lasciano prevedere è un gran lavoro per i prefetti, attenti come saranno a ridisegnare i calendari per garantire l'ordine pubblico, e un lavoro ancora maggiore per stuoli di avvocati impegnati a garantire i diritti dei loro assistiti, alle prese con foto e filmati di dubbia efficacia e con le testimonianze di tanti testi della corona di cui si dovrà provare, in tribunale, di volta in volta, onestà e buona fede. Nella rete non cadrà nessun pesce importante e le mobilitazioni che seguiranno alle ondate repressive finiranno piuttosto per far crescere l'acqua per l'iniziativa di ogni gruppo ultrà. Del resto, lo striscione «a voi i soldi, a noi la repressione», apparso domenica in tante curve, fa intendere con chiarezza che il tempo che verrà non sarà dei più tranquilli. Gli incidenti di Torino però - comunque esecrabili - lanciano soprattutto un altro segnale di gravità assoluta. Probabilmente è nel giusto chi lamenta effetti deleteri di una informazione intenta più a eccitare gli animi dei tifosi che a fornire elementi per la riflessione e il divertimento. Anche se poi ognuno (Galliani soprattutto) farebbe bene a guardare in casa propria e vedere come lavorano (e come hanno lavorato in passato) i mezzi di informazione a lui vicini. In ogni caso qui siamo molto lontani dal cuore del problema; anzi, se si andasse verso improponibili limitazioni alla libertà di critica o anche di «lamento», si toglierebbe una tutto sommato innocua valvola di sfogo per chi fatica ad accettare la realtà.

Più interessante appare l'altra lettura, quella che lega il ritorno prepotente di segnali di violenza negli stadi alla situazione di difficoltà generale che attraversa il nostro calcio. Solo che essa punta lo sguardo sui fenomeni secondari. Importanti, gravi, nauseabondi, ma pur sempre secondari: passaporti truccati, bilanci di «panna montata» (lo dice la Consob), plusvalenze false, giocatori comprati senza soldi, regolamenti cambiati in corsa, controllori inaffidabili, arbitri costantemente nel frullatore, continui segnali inquietanti sulla questione doping, la «sfacciataggine» di leggi salvagente per non pagare pegno, la scena costantemente occupata dai soliti noti incapaci di innestare processi positivi di riforma, ecc. I segnali della crisi sono tanti, riconoscerli non è difficile e ognuno di questi contribuisce ad avvelenare il clima intorno al calcio. Il problema centrale però è capire perché e come si è arrivati a tutto questo.

A commento della chiusura della campagna acquisti scrivemmo, a inizio settembre, sul «caso Nesta e il ritorno del MiTo». Oggi la restaurazione dell'asse Milano-Torino è fin troppo evidente. Il «cartello» che appena quattro anni fa aveva osato sfidare gli dei è andato definitivamente in frantumi: il Parma ha lavorato alacremente per «smontare la panna» e rimettersi in riga, la Fiorentina è precipitata nell'inferno, la Lazio si dibatte con tutte le forze per non finirci, la Roma prova ancora ad alzare la voce ma due anni di acquisti «a parametro zero» l'hanno confinata in una classifica grigia e insignificante. Delle altre grandi storiche del nostro calcio, tranne la Sampdoria che sembra ora, sia pure in B, aver trovato un assetto societario importante, mette tristezza persino parlare: Genoa e Napoli lottano per non finire in serie C e per non fallire, il Bologna è poco più di una colonia per juventini troppo vecchi o troppo giovani, il Torino è già in B e cambia il terzo allenatore dopo ventidue giornate. Le grandi città del sud, poi, fanno fatica persino ad allestire squadre per il campionato cadetto. Il quadro che si prospetta per quest'anno e per quelli a venire propone Milan, Inter e Juve in lotta per la supremazia e qualche coriandolo (lo scorso anno il Chievo, ora sembra tocchi all'Udinese, in futuro se saranno brave, bravissime, magari il Modena o addirittura la Reggina) lì a svolazzare per contendere un posto in Europa a quella delle ex-grandi che avrà saputo resistere. Ma molti punti lontano dalla vetta, sia chiaro, per non infastidire lor signori.

Una situazione di questo tipo pone due ordini di problemi. Anzitutto ci si deve interrogare sul perché si è arrivati a questo punto. La selezione è frutto della bravura (solo della bravura), oppure le regole del gioco sono tali che non c'è possibilità di contrastare le due-tre superpotenze economiche? Insomma, nel calcio italiano vince chi è più bravo oppure chi è più ricco? Poniamo la domanda diversamente: quante squadre possono permettersi di avere sotto contratto, per parlare solo degli attaccanti, Del Piero, Treseguet, Salas, Di Vaio, Zalayeta, Sculli e Miccoli (quest'ultimi per giunta parcheggiati altrove a farsi le ossa)? Oppure Vieri, Crespo, Recoba, Battistuta, Kallon, Ventola e (persino) Adriano? Parafrasando Brecht (chi è più colpevole, chi assalta una banca o chi fonda una banca?) potremmo chiederci se il vero scandalo del nostro calcio sono quei «presidenti/furfanti» che hanno forzato le regole per partecipare al banchetto, e ora si affannano per salvare la pelle, oppure che ci siano delle regole che non consentano ad altri, fuori dal Mi-To, di avere davvero un posto a tavola.

Ma quali regole servono per uscire dalla ristretta realtà oligarchica che caratterizza storicamente il nostro football? Se ad esempio si imponessero rose limitate (un massimo di 25 giocatori) e si ponesse un limite al monte ingaggi (non più del 40 o 50% degli introiti), se si vietassero (seriamente) prestiti o comproprietà nella stessa serie e si proibisse ai presidenti di ripianare di tasca propria (come fanno Moratti e Berlusconi ogni anno con centinaia di miliardi) bilanci fallimentari; se insomma si definissero meccanismi capaci di limitare lo strapotere economico di pochi - non è una misura da socialismo reale, accade nella NBA statunitense - probabilmente si assisterebbe a un gioco più aperto alle capacità reali di ciascuno.

Tutto questo, e veniamo al secondo problema, c'entra qualcosa con gli ultras di Torino (che, lo ricordiamo, non contestavano arbitro o avversario ma dirigenti e giocatori della propria squadra)? Certo, esattamente come c'entrano i cortei dei tifosi azzurri lo scorso anno per le strade di Napoli, o le contestazioni della curva laziale nella passata stagione, i sit-in romanisti davanti alla Federazione, la civile protesta genoana durante l'ultimo incontro della Nazionale, la ribellione impietosa dei tifosi viola alle nefandezze di «Vittorio». Segnali di rivolta differenti, indirizzati verso obiettivi diversi l'uno dall'altro, eppure accomunati dalla volontà di riaffermare le diverse soggettività, di non farsi retrocedere in un senso più ampio di quello che si intende di solito.

Nessuno si scandalizzi, la situazione è più esplosiva di quanto molti pensano. Il calcio è un fattore importante nel costume, nella cultura e nell'economia del nostro paese per pensare di tenerne fuori impunemente milioni di italiani. Si dirà che, in fondo, dal dopoguerra a oggi, è sempre stato così, Juve, Inter e Milan, scudetti alla mano, l'hanno sempre fatta da padroni. Questo è vero solo in parte, anzitutto perché le grandi piazze stavano in serie A e potevano, almeno teoricamente, competere (e infatti ognuna delle tifoserie prima ricordate rammenta un proprio importante piccolo ciclo); in secondo luogo perché la civiltà dell'audience imposta dal berlusconismo, nel calcio come nei media, ha finito per concentrare l'attenzione in modo esponenziale sempre e soltanto su chi vanta il numero maggiore di tifosi/clienti (si provi a misurare la distribuzione del tempo e dello spazio che la Domenica Sportiva - di Controcampo neanche a parlarne - oppure le pagine sportive della Repubblica, dedicano ai protagonisti del nostro campionato). In terzo luogo, questa restaurazione trionfa dopo che, negli ultimi anni, prima alcuni splendidi outsiders (Napoli e Sampdoria), poi i «quattro cavalieri di Stream» avevano dato l'illusione di un allargamento reale dell'oligarchia che domina l'Italia pallonara. Il tentativo complessivamente è fallito, forse perché il berlusconismo ha reso anche in questo campo tutto più distorto e difficile, forse perché si è cercato il confronto sullo stesso terreno dell'avversario. La strada può essere invece quella di nuove regole, che facciano kantianamente parlare anche le capacità, il lavoro e - perché no - la fortuna, e non solo la potenza senza limiti del capitale. Almeno nel calcio, che ciò sia possibile!

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