Il dramma di Lombardi: "Anche io come Signorini" Un nuovo terribile caso: colpito l'ex capitano dell'Avellino
"Giocavo con Tardelli, adesso sono in sedia a rotelle" Ancora il morbo di Gehrig: "Ho bisogno di aiuto"
"Ho giocato con Tardelli e Vierchowod, ma adesso non ce la faccio nemmeno a grattarmi la testa. Lo devo chiedere alle mie bambine. Ho fatto i corsi di allenatore con Lippi e Scoglio, ma ora non riesco più a girarmi nel letto. Lo devo chiedere a mia moglie. Ho giocato 500 partite di campionato, quasi tutte con la fascia da capitano, ora non posso giocare più a niente, nemmeno a vivere. Sono un altro calciatore condannato dal morbo di Gehrig, come Signorini, morto l'anno scorso a 42 anni, come Minghelli, che ha 30 anni e come me è sulla sedia a rotelle".
Adriano Lombardi muove ancora un po' le mani. Ma solo un po'. "L'ultima volta che ho preso in braccio mia figlia, mi è caduta, è stato mesi fa. Non riesco più a stringere nulla, questa malattia si mangia i muscoli. Mi sono accorto che qualcosa non andava quando non ho più avuto la forza di farmi la barba. Ma tutto è cominciato due anni fa, con dei crampi pazzeschi in tutto il corpo, mi facevano male anche le costole. Così sono andato al neurologico di Napoli, dove mi hanno tenuto in ballo per dieci mesi, senza dirmi niente. Poi ho visto il povero Signorini in tv, e quella sera andando a letto ho pensato: anch'io ho quella cosa lì. Ho chiamato a casa sua, ho parlato con la moglie, mi ha detto che Gianluca era sempre stanco, che non parlava, che non deglutiva, che la malattia si poteva diagnosticare, c'era un esame da fare. Sono andato dal professor Silani, mi ha messo aghi ovunque, potenziali evocati, così si chiama l'esame. In tre giorni ho avuto la risposta: morbo di Gehrig, Sla, sclerosi laterale amiotrofica. Ma non l'ho detto a nessuno. Sono uscito dall'ospedale di Milano e appena sono salito in treno mi hanno chiamato per offrirmi la panchina del Campobasso. Sul momento ho pensato: perché no? Poi mi sono detto: ma dove vado? Cammino a fatica, non riesco a vestirmi. Così ho trovato una scusa".
Lei ha smesso di giocare nell'83. Quasi vent'anni fa.
"Sì a 38 anni, dopo 18 campionati, l'ultimo a Como, ho fatto anche una stagione in Svizzera, un ambiente tranquillo, pagano bene, ma non è calcio. E poi sono razzisti, se non parlavi in tedesco i giornalisti non ti stavano a sentire, anzi per protesta abbandonavano la sala-stampa. Io ho cominciato presto a giocare a calcio, sono nato a Ponsacco, in provincia di Pisa, nel '45, facevo i sacrifici per andare ad allenarmi a Pontedera, 60 chilometri tra bici e corriera, a 19 anni arrivai nel settore giovanile della Fiorentina, niente prima squadra, c'era Chiappella come allenatore e in campo gente più brava di me, Chiarugi, De Sisti, Merlo. Così cominciai a girare l'Italia: a Cesena in C, a Empoli, a Lecco, a Como, a Rovereto, a Piacenza, a Perugia, ad Avellino giocavo con Roggi, con Montesi, che sul calcio diceva delle cose terribili ma vere, e che in campo dava l'anima, con Galasso che era di Lotta Continua. Come allenatori ho avuto Bersellini, Marchioro, Marchesi. In serie A ho segnato tre gol, a Tancredi, Piotti e Bordon. Ero soprattutto un organizzatore di gioco. Ma sono diventato famoso perché nella partita Milan-Avellino, nel 1978, avevo dimenticato i documenti, e l'arbitro Mattei fu inflessibile. Disse che non mi conosceva e mi fece accomodare in tribuna. Il giorno dopo alcuni giornali riportarono le foto di tutte le volte in cui Mattei mi aveva arbitrato".
Ha avuto incidenti seri in carriera?
"No. Nessuna operazione. Ginocchia a posto. Ho avuto fratture alle caviglie, ho portato il gesso. Ho preso molti antidolorifici e antinfiammatori, allora si usava il Voltaren, mi hanno fatto flebo, questo sì, ma non solo a me. Dicevano che erano acqua e zucchero, mi sono fidato, cosa ci fosse dentro non so. Non ho sospetti, non ho dati che mi dicano che questa malattia è professionale. Ma il mondo del calcio è l'unico che conosco, m'imbarazza chiedere, non voglio privilegi, ma se devo, preferisco rivolgermi ad un ambiente che conosco e che è stato la mia vita".
Per le cure si è rivolto anche all'estero?
"Sì a Pittsburgh, mi hanno detto che potevano solo confermare la diagnosi. Prendo il Rilutek che dovrebbe ritardare l'effetto degenerativo. E' una malattia subdola, perché quando ti manda avvisi è troppo tardi. Da giugno ad oggi mi ha ammazzato, non riesco a piegare la mano destra, non riesco a chiudere la sinistra. I muscoli diventano insofferenti, hanno contorsioni, si muovono da soli, il termine è fascicolazione. Mi sono anche rivolto alla dottoressa Letizia Mazzini a Torino, che sperimenta il trapianto di cellule staminali. Però in questo momento tutto è sospeso. Dico la verità, io sono pronto a fare qualsiasi cosa mi propongano. Tre mesi fa ho guidato l'auto fino in Calabria, è stato il mio ultimo atto di indipendenza. Da allora non esco più di casa, sono prigioniero della malattia, della carrozzella, di un'abitazione che devo modificare perché ormai non riesco più a muovermi. L'ultima volta che ho provato ad entrare nella vasca da bagno da solo mi sono rotto una costola. Luciana, mia moglie, è convinta che certe analisi fatte sei anni dopo aver smesso di giocare, evidenziavano qualcosa che non andava".
Come ha dato la notizia ai suoi figli?
"Ai tre più grandi, a Filippo e ad Andrea che sono gemelli e hanno 31 anni, a Paola che ne ha 29, ho detto le cose chiaramente. Sono figli della mia prima moglie, morta a 42 anni di un tumore che dal seno era arrivato al cervello. Anche se non stavamo più insieme, sono andato ad assisterla, perché lei me lo aveva chiesto. E non dimenticherò mai, quando ormai non riusciva più a respirare, i suoi occhi dilatati, che quasi uscivano fuori dallo sforzo. Ho paura, so che mi aspetta la stessa fine, pensavo di essere uno che ha forza e coraggio, che riesce a tenere la testa insieme, invece non va così. Hanno paura anche loro, i miei ragazzi, che hanno già perso la mamma".
Lei ha anche due gemelle di quattro anni.
"Sì, Sara e Mara, che ho avuto da Luciana, la mia seconda moglie, che ha 14 anni meno di me. Se chiedo aiuto, se ne ho diritto, è soprattutto per loro, per non ridurle a fare le mie schiave. Finora non ho mai dato notizia della mia malattia perché non volevo essere un caso pietoso, ma adesso non ho più tempo. Questa malattia ti mangia in fretta, come farò con il computer quando non muoverò più le dita? Dove e con che cosa passerò i miei giorni? Nella mia carriera ho guadagnato e non ho buttato via i soldi, ma adesso ho bisogno di una gestione diversa della mia vita, da solo non ce la faccio più".
E' un caso che il morbo di Gehrig stia attaccando i calciatori? Si parla di 13 morti e di altri 32 affetti dalla malattia?
"Vuole sapere se la causa è il doping? Non lo so. Io per conto mio non mi sono mai dopato. Ho avuto un compagno che una volta mi disse di aver preso una pasticca, visto che la partita era molto importante, credo avesse preso una sostanza eccitante. Io vengo da una famiglia di sport, mio padre giocava centravanti, fu squalificato per cinque anni perché picchiò un arbitro che gli aveva annullato un gol. Siamo gente di campo, piena di difetti, ma non da doping. Le città che da allenatore ricordo con più piacere sono Giarre, dove andavo sempre a pescare e Trieste dove in certi bar i vecchi andavano a giocare a dama e a parlare di letteratura. E io stavo lì ad ascoltare. Ma adesso non ho più tempo".
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