Irriducibile ti scrivo

Lettera aperta al gruppo ultras della Lazio dopo l'aggressione dell'Ostiense al marocchino Kay. Le responsabilità, la strumentalizzazione, il razzismo e la questione della violenza: il dibattito è aperto. Perché un altro stadio è possibile, dove ognuno sia libero di indossare i propri colori e urlare la propria passione

Ascoltandovi per mesi, leggendo la vostra fanzine, osservandovi allo stadio, abbiamo maturato delle convinzioni, in parte nuove, e nei mesi scorsi le abbiamo volute comunicare ai lettori di questo giornale. Cosa abbiamo raccontato? Un gruppo ultras (gli Irriducibili Lazio), pur avendo un passato discusso e atteggiamenti odierni che in parte non condividiamo, ci sembrava protagonista di molte cose positive (dai gesti di solidarietà con i bambini bisognosi, all'attenzione e al rispetto per i portatori di handicap, dallo striscione per salvare Safiya all'impegno animalista), e di una reale volontà di confronto e di crescita. In questo la vostra radio - lo abbiamo scritto - ha giocato un ruolo fondamentale: parlare e ascoltare ogni giorno per ore, confrontarsi con chi la pensa in modo diverso, facendo anche parlare chi è di opposto parere, senza filtri e censure, aiuta a migliorarsi. Lo ripetete spesso anche voi: se in passato abbiamo sbagliato lo abbiamo pagato, ora siamo cambiati, siamo cresciuti. E avete detto ripetutamente: il nostro gruppo non è razzista, né vuole fare politica e respinge la violenza gratuita; accogliamo tutti coloro che tifano per la nostra squadra, senza discriminazioni e secondi fini. Vi abbiamo preso sul serio. Anche perché - quando si usa un mezzo di comunicazione come la radio - è impossibile «fingere» a lungo. Perché ripetere ogni giorno «non siamo razzisti» significa dire alle centinaia di migliaia di persone che quotidianamente vi ascoltano che non è giusto essere razzisti. Parimenti sono da apprezzare i cento episodi in cui avete dimostrato di voler andare «oltre gli steccati». Ultimo esempio, il toccante omaggio in morte di Pierangelo Bertoli. Gli avvenimenti drammatici dell'Ostiense di domenica 13, il ferimento di Kay e gli arresti che ne sono seguiti, rischiano di riportare indietro tutta la situazione. Ci addolora che un giovane sia tuttora in ospedale per essere stato colpito in testa con una mazza da baseball. Ci addolora anche che quattro o cinque giovani rischino di passare i prossimi anni in una cella per aver preso a bastonate in testa un altro uomo. Nessuno si scandalizzi per questa comunanza di dolore: le vite dell'uno e degli altri hanno un valore troppo grande per vederle gettar via in maniera tanto stupida. I protagonisti di questa storia sono uomini. È bene ricordarlo perché a molti fa comodo presentare la loro caricatura. L'«extracomunitario» o «il marocchino», «scintilla» o «er pasticca» sono uomini in carne e ossa. Il primo è un lavoratore che ogni giorno, al di la di ridicoli «permessi di soggiorno», deve trovare il modo di (soprav)vivere. I secondi sono ragazzi cresciuti nella nostra città, nella nostra società, condividendo i problemi, i desideri, le storture di tanti loro coetanei. I loro problemi non possono non essere i problemi di noi tutti.

Questa solidarietà però non annulla le responsabilità. Nessuna comunità - né quella degli amici, né quella parentale, né altre - ha il diritto di cancellare le colpe. Se colpe ci sono. Aspettiamo, prima di condannare o assolvere, le conclusioni della magistratura. Senza cadere in pregiudizi verso nessuno: in un'intervista dei giorni scorsi un «esperto» della Digos (non proprio un amico dei ragazzi delle curve...) escludeva che gli episodi di violenza relativa al mondo ultras abbiano motivazioni razzistiche o politiche, estranee al mondo del pallone. Un'analisi che inficia l'equazione, cara a molti, Irriducibili = razzisti o fascisti. La realtà è più complessa di quanto pensiamo.

Dobbiamo dire che anche una parte dei vostri comportamenti sono stati a nostro avviso sbagliati. In primo luogo: è vero, avete espresso per radio auguri di pronta guarigione a Kay e avete avuto parole di solidarietà verso di lui. È stato però un errore non inserire queste parole anche nei vostri comunicati. Di più: a ribadire l'estraneità degli Irriducibili e la strumentalità di certe accuse era bene incontrare i parenti di Kay, donare il sangue per lui, come hanno cercato di fare alcune delle famiglie dei vostri amici arrestati. In secondo luogo, in difesa dei ragazzi arrestati, che avrebbero «reagito» alle offese subite dalle loro ragazze, siete arrivati a parlare di tentato stupro. La logica amicale porta a queste esagerazioni, ma bisogna stare attenti: come potete criticare la comunicazione per le ripetute inesattezze che commette, se anche voi andate chiaramente oltre i fatti, anche quelli desumibili dalle dichiarazioni degli stessi ragazzi arrestati? Inoltre, la questione del linguaggio è fondamentale, attenzione a non sottovalutarla: le parole che usiamo vanno scelte con cura.

In ultimo, ma certo non ultimo, la questione più generale e importante: la questione della violenza. Avete detto che i vostri amici «hanno esagerato», sono «andati oltre». Il vostro comunicato colloca l'episodio dell'Ostiense nella sequenza quotidiana di micro o macroviolenze che tratteggia la vita delle metropoli. È una lettura forse condivisibile. Però gli Irriducibili non sono una associazione di sociologi. Sono un gruppo organizzato che agisce allo stadio e anche fuori. Registrare che la violenza c'è è un'operazione insignificante. La questione è: come ci si rapporta a questa violenza? La si tollera, la si subisce, la si combatte, o si organizza una violenza ancora superiore a quella dei (veri o presunti) nemici? Dobbiamo restare omologati alla «legge della strada», che altro non è se non la «legge della giungla» di questa società? Oppure dobbiamo far crescere lo spirito di comunità, di solidarietà, con tutti coloro che non accettano le logiche di sopraffazione?

Non condividiamo, dentro e fuori lo stadio, il concetto di separazione su cui gli ultras fondano spesso la propria identità. Noi siamo noi, gli altri sono gli altri. Con alcuni, per tanti e vari motivi, c'è simpatia e amicizia. Con altri ostilità e persino odio. Contro questi ultimi ogni arma è buona: il disprezzo, l'irrisione e, se le necessità lo impongono, anche la violenza. A noi invece piacerebbe un altro stadio (come un'altra società), non blindato, senza fossati, recinzioni e vetrate. Dove ognuno sia libero di indossare i propri colori e di urlare la propria passione. Dove ci sia posto per gli sfottò e non per la denigrazione. Uno stadio vivo, pulsante di adrenalina e di gioia di tifare. Il senso comune dice che uno stadio così è tanto più lontano quanto più è forte e radicata la presenza degli ultras. Noi pensiamo esattamente il contrario: uno stadio così ci sarà solo se ad affermarsi sarà la parte migliore della cultura ultras, fatta di voglia di stare insieme e di lealtà.

Voi stessi avete detto: non importa vincere a ogni costo, i nostri giocatori devono solo dare il massimo, uscire sudati, dopo aver preso e dato colpi, ma sempre lealmente, e senza trucchi. Lotta e rispetto, impegno e lealtà. Non è questo un ribaltamento della logica e dell'etica calcistica oggi tristemente imperante? Non c'è qui il rifiuto di un calcio e di un tifo fondati sul sospetto, sul sotterfugio, sul risultato ad ogni costo? È appunto dal trionfo di valori come questi che passa la possibilità di uno stadio aperto. Come pensa il movimento ultras di far coesistere un impegno tanto importante con le ingiurie, le minacce, gli scontri con gli «altri»? Se la curva avversaria viene derisa e insultata senza quel limite dato dalla stessa lealtà chiesta agli atleti in campo, non è inevitabile che si alimenti una mentalità fatta anche di violenza, che si finisca per «andare oltre»? Vogliamo dire: respinta ogni logica razzista, non c'è una cultura «della violenza» che è ugualmente pericolosa e da superare? Il dibattito è aperto, non da oggi, ed è destinato a non chiudersi tanto presto. Dite di voler togliere a chi vi vuol male «tutti i giocattoli», tutti gli alibi per colpirvi. Benissimo. Fatelo davvero, andate avanti sulla strada intrapresa, con ancora più coraggio. Dite che ultras non vuol dire minacciare «un calcio in bocca», non vuol dire urlare «ti odio», non vuol dire sentirsi sempre una fortezza assediata. Sarete più credibili e meno soli.

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