I furiosi
La sera del famoso derby di Roma sospeso per volontà dei tifosi forte era la tentazione, davanti alla tv, di dirgli a quei due o tre ex ragazzi catapultati in mezzo al campo, dei quarantenni un po' rifatti e fasciati in un dark preoccupante, «ma levatevi di torno, giochiamo, fuori dalle scatole, cretini...». Non ci aiutavano l'arbitro (al telefono con Galliani, nientemeno, come avremmo saputo) non la deriva oratoria dei telecronisti, deprivati di colpo del giocattolo, e neanche l' isteria delle cosiddette autorità, subito discese sul terreno e al microfono; meno che mai ci poteva soccorrere l'evidente imbarazzo dei calciatori, percepibile negli occhi persi di Francesco Totti, o nella chioma inutilmente ossigenata di Sinisa Mihajlovic, per una sera triste e remissivo. Forte, nello stesso momento, era in molti di noi la tentazione a volere la partita a tutti i costi, anzi a pretenderla, rimpiangendo inconsciamente le certezze e gli alibi del bel calcio andato: ma alcuni di noi, magari quelli un po' più vecchi e navigati, se non altro messi sull'avviso dagli studi recenti dei nostri Liguori e Smargiasse (Calcio e Neocalcio.Geopolitica e prospettive del football in Italia, manifestolibri 2003) sapevano benissimo in cuor loro che il «bel calcio andato», leggendario mix di spettacolo e costumatezza, in effetti non è mai esistito, né altrove né qui. Ce ne fosse bisogno, lo conferma la lettura, a dieci anni di distanza dalla prima uscita da Bompiani, del romanzo o tranche testimoniale del poeta Nanni Balestrini, I furiosi (DeriveApprodi, pp. 124, 14.00, con una prefazione autobiografica di Alessandro Dal Lago). Di calcio non vi si parla affatto. Oggetto del libro è semmai la Bildung di un ultrà degli anni Ottanta, Martino, soprannominato «magico Martino» e appartenente alle «Brigate Rossonere». Stazioni dell'Odissea di Martino sono gli stadi, le continue trasferte, in un delirio di immobilità che abolisce le coordinate spaziotemporali rendendoli di fatto tutti uguali, fungibili (Cagliari, Udine Ascoli, Barcellona, ovviamente San Siro, ma poco importa perché fuori di lì pare esserci il niente, o il troppo di un benessere beffardo). Gli stadi sono dunque altrettante tane per il dolore urlante ed una ricompensa sempre fantasmatica, ossessiva, visto che Martino non somiglia a un personaggio tridimensionale ma piuttosto a una funzione sociale, essendo il portavoce di un gruppo (dileguante io dentro a un coro di omologhi) dalla struttura identitaria tanto più forte quanto più grezza e schematica. Sua è infatti la condizione di marginalità affettiva, e culturale; suo e dei suoi simili è il nudo principio di appartenenza (noi vs. loro, gli avversari, la polizia, gli individui integrati e garantiti, potenzialmente tutti gli altri) che discrimina e percepisce l'ostile dai colori di una bandiera; suo è infine l'antagonismo immediato e deprivato, se non per sbalzi improvvisi, di referenti e consapevoli obiettivi. Urlare, scippare uno striscione, svaligiare un autogrill, battersi con le spranghe e le chiavi inglesi, farsi di una qualche sostanza in attesa dello sballo, insomma l' esserci, purchessia e ad ogni costo, appare volta a volta il veicolo di un disagio che si reifica negli slogan e nei rituali del tifo nello stesso momento in cui esplode e si acceca. Martino, in altri termini, è protagonista e insieme agnello sacrificale della società che un filosofo definì della tolleranza repressiva e che proprio negli stadi, nelle gradinate-loculi del tifo organizzato, compie i propri esperimenti di selezione e di simulazione neoconcentrazionaria. (15 anni prima di Balestrini, Daniele Segre ne aveva mostrato i corpi e i volti duramente segnati nel documentario Il potere deve essere bianconero, e poi nel bellissimo, oggi introvabile, catalogo di foto e interviste dal titolo Ragazzi di stadio, Mazzotta-Comune di Torino, 1979). |