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Avventure e disavventure in rossoblu 
Autori Vari, Fratelli Frilli Editori 2003, euro 6,50




L'esordio nel '20, le sconfitte, l'indimenticabile scudetto del '70. Storia della squadra simbolo della Sardegna

"Dopo ci ha pensato il mare, a far conoscere la Sardegna, ma prima è stato il Cagliari". E' sufficiente questa frase di Gigi Riva, idolo assoluto della storia rossoblù, a chiarire il legame indissolubile tra una squadra e la sua regione, di cui è simbolo e orgoglio. 
I primi calci ad un pallone sull'isola iniziarono a darli nel 1920, il primo campo da gioco fu lo "stallaggio Meloni", gara d'esordio ufficiale l'8 settembre contro la mai amata Torres (il Cagliari vinse 4-2). Il "futtballe" (come lo chiamavano i locali) si diffuse rapidamente e iniziò a diventare cosa seria quando, nel 1931, i rossoblù conquistarono la prima promozione in serie B. 

Da quel momento anni di lotta nel buio, come in un mare infestato dai pescecani, tutti pronti ad azzannare l'isola: serie B, poi di nuovo C, bidoni, sconfitte, sofferenza. Un solo anno davvero da ricordare, il 1970, quello dell'indimenticabile scudetto conquistato sotto la guida di Manlio Scopigno e grazie ai gol di Gigi Riva; uno scudetto che fu l'apice di una crescita straordinaria da parte del Cagliari, capace di imporre il proprio gioco in tutti gli stadi della penisola. O forse dovremmo dire del "continente", così come lo chiamano con ostilità i sardi, che lo vedono come terra nemica. 

In effetti, Torres a parte, non è che i rossoblù abbiano dei club nemici in particolare, lo sono tutti i "continentali" in generale; certo poi che vincere a San Siro contro l'Inter o battere la Juventus al Sant'Elia è una soddisfazione ancora più gustosa. Il Cagliari campione d'Italia era una squadra speciale e forse per questo irripetibile: uno stadio che dire scalcinato è poco (il vecchio Amsicora), un allenatore che fumava 40 sigarette al giorno, un bomber famelico ed egoista, uno stopper che vedeva benissimo la porta, purtroppo la propria. Su quest'ultimo, al secolo Comunardo Niccolai, vale la pena di spendere due righe, perché è un personaggio leggendario della storia cagliaritana. 

Un calciatore diventato metafora per le sue proverbiali autoreti, che ha realizzato in quantità industriali durante la sua permanenza sull'isola, facendo mettere spesso le mani nei capelli a compagni e tifosi, increduli davanti a prodezze tanto "spettacolari" quanto inopportune. 

Ma sono tanti i personaggi e gli aneddoti raccontati nel piacevole libretto "Quelli che Forza Cagliari" - dalla collana "Ultimo Stadio", Fratelli Frilli Editori 2003, euro 6,50 -; avventure e disavventure in rossoblù, nomi impronunciabili, stranieri buoni a nulla e campioncini locali che emigrano appena possono. Una simpatica raccolta di ricordi, corredata alla fine da un piccolo album di frasi celebri che strappano il sorriso; lettura piacevole quindi, che però ci ha fatto sobbalzare sulla poltrona, noi che poco prima avevamo letto anche un altro libro della medesima collana, dal titolo "Quelli che il Bulàgna", dedicato ai tifosi emiliani. Impossibile non cogliere una più che palese somiglianza tra i due testi, non solo perché la struttura dei due libri è grosso modo la stessa, né perché le due squadre in questione vestono entrambe rossoblu; il punto è che due capitoli sono davvero troppo simili, per non dire identici. Divertenti per carità nel dipingere la passione e l'amore per la propria squadra, ma uguali: possibile credere che le abitudini del tifo sotto le due torri siano presenti anche sull'isola? 

In ogni caso si tratta di una mancanza di rispetto nei confronti del lettore, specie se tifoso del Cagliari o del Bologna, sicuramente geloso della propria identità.

Alcuni brani del libro:

1920: il calcio in Italia è ormai una realtà. Nelle Grandi Città sono nate Grandi Squadre, nelle piccole città giocano piccole compagini. Il palmarès degli scudetti (che ancora non si chiamavano così, ma facciamo che sì) segnala i primi record, in testa troviamo con sette titoli conquistati il Genoa, seguito dalla Pro Vercelli con cinque, dal Milan con tre, mentre due titoli vanta l’Internazionale, uno il Casale al pari della Juventus. Come dire: c’è spazio per tutti; non eravamo ancora in epoca di calcio-business, anche perché 'calcio' si diceva 'foot-ball' (il treno della marcia su Roma era in ritardo di due anni), parola inglese storpiata in 'folbal', 'folber' o qualcosa di simile. 

Quanto al business, il bisinissi era parola nota al più agli emigrati italiani in America; e qualcuno di loro avrà pure provato a parlarne, nelle loro lettere a casa, ma il concetto non era chiaro: cosa sarà mai stato, questo bisinissi? Forse un gioco d’azzardo? Oppure un fiume? aspetta... ah! no no, quello è il Mississippi, ma forse il Bisinissi è un affluente del Mississippi. Forse. Oppure... boh.

Comunque sia: il calcio aveva preso piede (eh sì) ovunque in Italia. In tutto il territorio nazionale sorgevano campi dal manto erboso, i praticanti di questo sport si contavano ormai a migliaia, i tifosi erano innumerevoli.
Ovunque in Italia? Eh no. Perché c’era un’isola, la nostra Sardegna, in cui questo futtballe, come lo chiamavano nella capitale, era praticamente sconosciuto. Non c’era lo straccio di una squadra anche se alcune società polisportive (la Torres, Arborea e Amsicora) lo avevano inserito nelle discipline da esse praticate. 

Il motivo? Vai a capire. 'Siamo un’isola', si diceva. Come se su un’isola non si potesse giocare a calcio, come se i palloni dovessero tutti e necessariamente e sempre finire in mare... Eh no. Il ragionamento non filava. Anche perché il futtballe, o come caspita si chiamava, proprio su un’isola era stato inventato, cioè in Inghilterra, e la bandiera britannica, fra l’altro, porta in pratica gli stessi colori che avrebbe avuto il Cagliari (sì ma scusa, mica lo sapevano ancora, nel 1920, che avrebbero giocato in rossoblù. Questa come argomentazione non te la passo). Insomma: non c’erano scuse che tenessero. 

I tempi, insomma, erano maturi e il Fatto si svolse in un salotto nella primavera del 1920. A promuovere il calcio in Sardegna non fu già una banda di monelli ma due illustri rappresentanti della high society (altro che bisinissi) cagliaritana: il dottor Antonino Zedda, industriale vinicolo e il professor Gaetano Fichera, docente di patologia chirurgica. I due si rimboccarono le maniche e il 30 maggio dello stesso anno si svolse l’assemblea costituente. In un cinema, l’Eden...

Eletti presidente (Fichera) e vice (Zedda), rimaneva da fare tutto il resto. Tanto per cominciare, serviva un campo da giuoco. Si optò per un caravanserraglio, al secolo XX lo 'stallaggio Meloni': uno spiazzo di viale Trieste, circondato da box in cui venivano ricoverati carri, cavalli e buoi dai paesi tuoi, cioè dalle località vicino Cagliari. L’erba? Nemmeno a parlarne, la terra battuta poteva andare benissimo.

Risolto il problema del campo, c’era da risolvere quello dei colori sociali e delle maglie. Si optò per delle casacche nere e azzurre, cioè dei colori dell’Internazionale. Forse perché 'Internazionale' suonava meglio di 'Continentale'? Ma no: probabilmente si trattò di un lungimirante omaggio al futuro presidentissimo nerazzurro Angelo Moratti (che all’epoca aveva 11 anni ma chissenefrega, bisogna saper guardare lontano), munifico sostenitore del Cagliari che, cinquant’anni dopo, avrebbe conquistato lo scudetto.

Per la squadra, nessun problema: l’isola, e in particolar modo la città, offrivano un buon serbatoio. Restava, tuttavia, da trovare un avversario, ché quel Cagliari non aveva rivali. Non già perché fosse fortissimo, quanto perché era impossibile o quasi andare oltre la squadra dei postini o del dopolavoro ferroviario. Finalmente saltò fuori la mai amata Torres, che un po’ di calcio, come si è detto a denti stretti, lo masticava. La gara fu disputata l’otto settembre, e qui non è dato sapere se la data fu scelta per caso o per lungimiranza.

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