Una valigia piena di bomber, ricordi e nostalgia
In un libro di Guy Chiappaventi la storia di centravanti dimenticati che si sono rifatti una vita dopo il calcio. Numeri nove Spadoni, Chiodi,
Rebonato, Penzo, Speggiorin. Dalla gloria della serie A al disincanto di una nuova carriera
Chi ricorda più Valerio Spadoni, Gil De Ponti, Stefano Chiodi, Domenico Penzo, Walter Speggiorin, Egidio Calloni, Nicola Zanone, Stefano Rebonato, Beppe Incocciati? Erano centravanti fra gli anni settanta e gli anni ottanta, segnavano o non segnavano gol fra la serie A e la serie B (prima di scendere magari più giù, da dove quasi sempre pure arrivavano: come personaggi di romanzi - ma spesso anche della vita vera - che per conoscere il paradiso devono essere disposti a scendere negli abissi), qualcuno di loro la gloria l'ha sfiorata o addirittura toccata a piene mani per un'ora, un giorno, una stagione o qualcosa di meno o di più; tutti - quando i numeri sulle magliette avevano ancora un senso e potevi ritrovarci l'ordine di un mondo, tutto era semplice e pulito come certe partite giocate con gli amici in primavera: il portiere aveva l'1, i terzini il 2 e il 3, il mediano il 4, lo stopper il 5, il libero il 6, l'ala destra il 7, l'ala sinistra l'11, il centrocampista che distruggeva e ricostruiva l'8 (era e sarà sempre Tardelli), il regista il 10 - tutti avevano sulla maglietta il numero del centravanti: non il 32, ma il 9; e sapevi che il 9 era il numero del gol. Ecco, basta davvero poco per scivolare nel romanticismo, per essere sopraffatti dalla nostalgia; ed è questo il bel sentimento che provoca la lettura del nuovo libro di Guy Chiappaventi
(La valigia del centravanti, Limina, pp. 124, 13,50), giornalista di cronaca e già autore di altri libri, fra i quali il fortunato Pistole e palloni - gli anni Settanta nel racconto della Lazio campione d'Italia (sempre da Limina). Perciò è consigliabile, la lettura di questo libro: perché la nostalgia è bella quando è concreta e circoscritta, quando non diventa habitus mentale che impedisce di vivere il qui e l'ora e di guardare al futuro con seppur moderato ottimismo, ma è semplice parentesi e ripiegamento su se stessi e pura pausa dentro lo scorrere del tempo, anche senza velleità di scivolare addirittura oltre e stando anzi attenti a non precipitare nel patetico, come per esempio nella tuttavia seducente affermazione della necessità di ritrovare le proprie origini, il noi che eravamo e che avremmo voluto essere, eccetera. E sarà banale, ma La valigia del centravanti può essere letto proprio così: come può essere sfogliato l'album di figurine che tutti avevamo e nel quale tutti ci ritroviamo, e che ognuno potrebbe continuare a riempire a piacimento. Spadoni, De Ponti, Chiodi, Penzo, Speggiorin, Calloni, Zanone, Rebonato, Incocciati sono le figurine che ha messo sul banco Chiappaventi: nessuno di loro è stato Riva o Paolo Rossi (che però firma la prefazione del libro), e nemmeno Giordano o Pulici; nessuno di loro ha lasciato il segno su uno scudetto o su una coppa dei campioni ma ciascuno di loro probabilmente avrebbe potuto, e non è altrove che qui la differenza fra un campione e un quasi campione, nel talvolta ingovernabile scarto fra ciò che è e ciò che potrebbe essere, fra ciò che è stato e ciò che non è stato. E dunque: se Penzo fosse rimasto a Verona l'anno in cui poi il Verona avrebbe vinto lo scudetto, se Rebonato non si fosse fatto male appena arrivato nella Fiorentina di Baggio; oppure, se le ginocchia di Casiraghi fossero andate meno spesso in frantumi, se quel colpo di testa di Rizzitelli non avesse trovato il palo, se Edy Bivi avesse avuto una possibilità, eccetera.
Ma c'è un'altra cosa che accomuna i quasi campioni di Chiappaventi, e che forse li fa apparire un po' più lontani nella memoria: è il non appartenere più al calcio, l'essere oggi ristoratori, agenti di commercio, ragionieri, negozianti, anche l'essere malati o sopravvissuti a due tumori (come sono malati - o sono morti - tanti, troppi ex calciatori) e disoccupati; il non fare gli allenatori o i direttori sportivi o gli osservatori, ma l'aver reinventato il proprio presente, l'averlo adeguato a nuove aspettative e realtà. Chiappaventi è andato a cercarli, li ha ritrovati chi a Lugo di Romagna, chi a Budrio, chi a Poggio a Caiano, chi a Golesine, chi a Fiuggi, chi a Forte dei Marmi; e li ha fatti parlare. Sono stempiati, timidi, disincantati, intelligenti; in generale, non rimpiangono né recriminano; tutti avevano guadagnato molto, ma non abbastanza da poter godere oggi del lusso di non lavorare (e comunque nessuno di loro lo considererebbe un lusso); qualcuno è felice, qualcuno no. Sono uomini che in un'altra vita hanno giocato a calcio e che quella vita adesso guardano come una cosa nelle proprie mani; e, come vecchie cose da una valigia, riemergono ricordi, aneddoti, episodi, giocate, gol segnati e non segnati.
Nell'album parlante di Chiappaventi, ciascuno ha l'onore di un capitolo e il privilegio di una ribalta da tempo sconosciuta: ma nessuno ne approfitta, il racconto - anche per merito dell'autore, che non indulge a sentimentalismi né a facili luoghi comuni - è sempre sommesso e il tono rimane quello della cronaca, anche quando questa cronaca è molto personale. Semplicemente, la memoria è un po' più vicina; e, come i protagonisti della Valigia dell'attore di De Gregori, i protagonisti della Valigia del centravanti semplicemente dicono
«eccoci qua, siamo venuti a vedere lo strano effetto che fa la nostra faccia nei vostri occhi».
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