Canto del cigno
Gol, gesti e bellezza in Van Basten
Autore Andrea Scanzi, Editrice Limina, prezzo €. 13,50
Vibrazioni in stile olandese
In un bel libro di Andrea Scanzi, la carriera di Marco Van Basten vista attraverso i gesti inconsapevoli che ne fecero uno dei giocatori più eleganti e sfortunati della storia del calcio. Gol, magie e infortuni Smise di giocare che aveva appena 29 anni: colpa della fragilità delle sue caviglie. Un destino che tra fantasia e letteratura, lo accomuna a Van Gogh e Bruce Springsteen
Non c'è molto tempo, e bisogna fare in fretta a ricordare. Se c'è un pregio nel nuovo libro di Andrea Scanzi - cioè: il primo che salta allo sguardo - è un senso di urgenza che accelera la lettura, la incalza come se gli occhi fossero poggiati su un piano inclinato e scivolassero irresistibilmente. Facile dire che dipenda dalla scrittura, tanto abile a infilare la linea di fuga delle digressioni letterarie e musicali quanto a farti scodinzolare dietro il filo d'Arianna della narrazione. Più difficile da argomentare l'ipotesi che, in questo inseguimento alle calcagna della memoria, c'entri semmai la bellezza di Van Basten, la natura transitoria e volatile di questa bellezza. Che è poi la sostanza vera di queste pagine. Eccezion fatta per una breve cronistoria posta alla fine del libro, infatti, di contabilità calcistica in questo «Canto del Cigno» (ed. Limina, pagg. 123, euro 13,50) ce n'è veramente poca. Non è un rifugio per almanaccari, per archivisti, per gli statistici per posa o per professione. Piuttosto, questo libro ha a che fare con la non dimenticanza. Con la presa di congedo da un astro (e un asso) che ha abbagliato per così poco tempo - in un modo accecante, d'accordo, ma mutilato di quella continuità pigra e ragioniera di cui si nutre la fantasia collettiva - che proprio queste cose qui, il congedo, il commiato, le devi raccontare. Altrimenti le perdi. Ti devi fare «cacciatore di gesti», come ha scritto David Means in «Piccoli episodi incendiari». Andrea Scanzi questo fa: il cacciatore di gesti. Perché Marco Van Basten ha smesso di giocare a neanche 29 anni, nel `93, ben prima di qualsiasi linea d'ombra, prima di qualsiasi maturità seppur presa di striscio, colpa di una caviglia rappezzata fin dagli esordi, e poi rosicchiata dai bisturi di quattro operazioni chirurgiche. Bisogna spicciarsi, a ricordare. C'è un ragazzo che ha fatto il calciatore, che esordisce all'Ajax a inizio anni ottanta facendosi battezzare da Johan Cruyff, e che in quattro anni da titolare, tra i 19 e i 23 anni, finisce sempre capocannoniere. E per tre volte, con una media reti finale di un pelo superiore al gol a partita. Poi nell'87, l'approdo a Milanello, alla corte di Arrigo Sacchi. Al quale, ma Scanzi lo dice sottovoce, Van Basten ha fatto sempre storcere la bocca, per via di quel portamento da irregolare poco ligio al ferreo collettivismo sacchiano.
A questa strana specie d'entropia che l'olandese si porta addosso, e che lo sospinge senza tregua verso un ritiro prematuro (anzi: il Ritiro Prematuro per antonomasia), Scanzi - sulla scia delle imbeccate di Carmelo Bene, citato felicemente a più riprese - oppone tutta una partitura di destini, reali o letterari, giunti al capolinea nella stessa maniera, o che hanno vibrato della stessa fragilità. Fino a finire in frantumi, in forza della medesima capacità (iper)senziente.
Come il Seymour di Salinger che fugge dal suo matrimonio per timore di un mondo che «cospira per la sua felicità», per una felicità irreale che non poteva durare. Come il «serve and volley» di Stefan Edberg, modellato su una seconda di servizio spesso loffia e resistibile, escogitata - sembra - per il semplice lusso di esaltare le sue volée. Qui il percorso di Scanzi, questa corsa sghemba per riconsegnare un vuoto a perdere, si fa zigzagante, ciondola, s'inerpica su dei tornanti dell'immaginazione che poco hanno a che fare con la cronaca, men che meno con le cronache pallonare. Bando a qualsivoglia foga anamnestica. Ci sono i gol di Marco, ovvio. A patto però che quei gol siano il segno di qualcos'altro, che precipitino dalla semplice routine «allo spazio mitico». Che siano gesti - scrive lui - «ecceduti». Come dire: di un altro mondo. Votati al bello, ma in un modo quasi incosciente, inconsapevole.
In queste stanze siamo in buona compagnia. Ti può capitare di incontrare il Van Gogh di Arles, quello che nel 1888, due anni prima della morte, dipinge una sedia con sopra una pipa e del tabacco, investendo lo sfondo di giallo e viola, a suggellare la fine dell'amicizia con Gauguin. E siccome a Scanzi interessa fissare il gesto lì dove il gesto è «forma pura», dove si fa portavoce di un modo di stare al mondo, di essere presenti a se stessi, accanto alla sedia di Van Gogh ti poggia la sedia sulla quale Bruce Springsteen registrò Nebraska, nel 1982.
Ora, Nebraska è un disco scarnificato di ballate acustiche. Diametralmente opposto all'epica chilometrica di Born to Run, del 1975, l'album con cui il Boss aveva preso a rincorrere la sua terra promessa. Una specie di interregno, Nebraska, prima della sbornia imminente di Born in the U.S.A.. Dove sta il nesso tra le due sedie? Nello scricchiolio. Se fai attenzione, spiega Scanzi, tra i solchi di quel vinile c'è rimasta la vibrazione legnosa di quella sedia, il suo soffio cardiaco. Lo stesso che animava la sedia di Van Gogh. E, purtroppo, la caviglia sciagurata di Van Basten.
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