Il sogno di Futbolandia
Autore Jorge Valdano, editore Mondadori, pp.294, €. 8,40
"Vorrei che coloro che mi hanno insegnato a sognare sapessero che io continuo a farlo. E che non ho intenzione di smettere".
Il calcio sta andando dove sappiamo, motivo in più per ricordare che c'è stato un altrove, un altro calcio molto più bello e vero. Jorge Valdano ci propone con "Il sogno di futbolandia" un antidoto al calcio ogm (come dice Gianni Mura che ne ha curato la prefazione), un calcio diverso da quello di anni fa, quando ancora era uno sport che faceva divertire e sognare. Nel suo libro sono raccolti aspetti inediti di questo sport e dettagli spesso trascurati. Una carrellata di famosi personaggi ed un ritratto di un calcio che non c'è più. Di un calcio che era ricco di sentimenti e generosità. Valdano, anche se non è partito da lontano, la sua storia comincia negli anni '70, rimpiange un calcio che non c'è più, un calcio che prevalentemente era un modo di essere con una propria etica. Ripensa a quando la concessione di un rigore non faceva esultare, ma quasi vergognare perché si sfruttava solo un vantaggio. Un calcio ormai lontanissimo. "Il sogno di futbolandia" ripercorre così, le diverse tappe del mondo del calcio attraverso i grandi nomi come Pelè, Zico, Maradona, Ronaldo; il calcio europeo e quello sud-americano, l'Italia ed i suoi campioni. Il suo occhio clinico non manca di analizzare, però, anche coloro che non giocano: i tifosi, gli allenatori ed i dirigenti. Un quadro completo sul gioco più conosciuto ed amato del mondo. Una cultura comune che appartiene a diverse società: "Il gioco è più vecchio della cultura. Il calcio è un gioco, quindi una cosa seria".
Jorge Valdano, è stato uno del calciatori argentini di maggior spicco e personalità. Ha giocato nell'Alaves e nel Real Madrid, con cui è stato campione del mondo nel 1986. Allenatore del Tenerife e poi del Real, attualmente è direttore generale del Real Madrid e collabora con le maggiori testate giornalistiche sportive spagnole. Soprannominato il "filosofo" dal 1994 si è dedicato anche alla letteratura.
Calciatore, allenatore, dirigente, scrittore e giornalista, Valdano è uno dei più celebri protagonisti del mondo del pallone. Negli ultimi anni si è affermato anche come acuto osservatore del fenomeno-calcio, del quale ci ha mostrato aspetti inediti e dettagli spesso trascurati, rivelandosi tra l'altro scrittore di razza, capace di scegliere i tempi, le parole, i modi letterari. Ma soprattutto Valdano è un uomo che conosce la forza dei sogni, e il loro farsi realtà, il loro divenire ricordi.
Il sogno di Futbolandia, attraverso le prose giornalistiche di Valdano, offre un'appassionante carrellata di famosi personaggi e gustosi aneddoti. Il ritratto di un calcio che non c'è più ma in cui continuiamo a sperare: quel gioco fatto di bellezza, generosità, sentimenti, musica che ha la forza di un antidoto al calcio "geneticamente modificato" dei nostri giorni.
Un'innocente fuga dalla realtà
Berlusconi è un uomo ossessionato dal potere e non ama travestirsi da debole. Per questo vuole un calcio offensivo"
Con un colpevole ritardo di due anni è stato pubblicato anche in Italia
Il sogno di Futbolandia, l'ultima fatica letteraria dell'ex attaccante di Argentina e Real Madrid (di cui ora è ora general manager) Jorge Valdano. Un libro scritto «con la consapevolezza dello scrittore, coi tempi giusti, le parole adatte, la costruzione adeguata» come segnala nella prefazione Gianni Mura. Valdano è stato un calciatore atipico e oggi è un manager atipico. Gli piace parlare un po' di tutto. E' un uomo di cultura. Ama Vazquez Montalban, Soriano, Borges, Benedetti e tutti i classici europei. Teorizza una parentela tra calcio e letteratura («due maniere per scappare dalla realtà»). Ha uno spiccato senso dell'umorismo. Parlandoci del perché del titolo originale - El miedo escénico y otras hierbas, che si potrebbe tradurre come «la paura del palcoscenico e altre cose del genere» - fa capire che tipo di calciatore sia stato. «La paura del palcoscenico fu un articolo che scrissi quando giocavo per il Real Madrid. Apparve su una delle riviste di maggior prestigio intellettuale in Spagna. Allora, e parliamo di circa vent'anni fa, era una cosa singolare che un calciatore scrivesse qualcosa per una rivista di approfondimento intellettuale. L'articolo divenne un classico e «el miedo escénico», che era una frase usata dal mondo della politica, della cultura e dell'arte, divenne un luogo comune anche per il calcio. Approfittando dell'impatto del concetto pensammo che quella fosse la maniera migliore di intitolare il libro».
Il tuo odio per il calcio italiano è proverbiale. Quando gli azzurri di Zoff vinsero la semifinale dell'Europeo del 2000, con una partita da infarto contro l'Olanda, tu espiasti la colpa di aver criticato la nostra nazionale caricandoti sulla schiena una piccola porta che tenevi in giardino e improvvisando una via crucis per tutto il quartiere...
Beh, quello fu uno scherzo, giocato sull'autoironia. La verità è che anche in Italia, come in tutti i paesi del mondo, conta vincere. Sembra, però, che da voi vincere sia l'unica cosa importante. Questo fa aumentare la professionalità e la competitività, due aspetti del vostro calcio che ho sempre ammirato molto. Però produce un gioco brutto. Visto come uno spettacolo, credo che il calcio italiano abbia uno stile che penalizza chi gioca meglio.
Nel libro però descrivi anche la magia del «maracanazo», la più famosa sconfitta della storia del calcio. Quella del Brasile del `56 contro il «catenacciaro» Uruguay.
Viene ricordato perché fu un'eccezione. Il rischio che si corre a giocare in una maniera speculativa è sempre quello di ammazzare la fantasia. Quando per esempio inventaste il catenaccio negli anni sessanta, ci fu la tentazione da parte di molti di imboccare quella strada. Poi per fortuna arrivò l'Ajax, con l'ultima grande rivoluzione offensiva che si è vista. Questo, lo so, è un dibattito aperto, ma io penso che il calcio sia sempre uguale a se stesso e che possa sopravvivere solo grazie alla fantasia. Non c'è calcio migliore di quello affidato alla fantasia.
E' la stessa cosa che dice la stampa spagnola, sempre poco tenera con il nostro calcio.
C'è un piccolo complesso di inferiorità del giornalismo spagnolo nei confronti dell'Italia perché la Spagna non ha mai potuto vincere un mondiale. Però, questo complesso è anche giustificato. Il buon calcio che le loro squadre esprimono si contrappone al calcio italiano dove alle partite occorrono meno cose. Gli spagnoli pensano di aver inventato il calcio, gli italiani il risultato.
Per questo il Real compra solo attaccanti?
Noi compriamo solo giocatori che sanno fare la differenza. E questi di solito sono attaccanti. Ma ci sono anche grandi difensori che possono incidere sull'assetto di una squadra. Infatti a suo tempo pensammo di comprare Nesta. Facemmo un sondaggio, ma Nesta aveva un costo simile a quello di un grande attaccante. E noi da sempre pensiamo che tali prezzi siano ragionevoli solo per giocatori che costruiscono e non per giocatori che distruggono.
E' la stessa cosa che pensa Berlusconi, il quale pretende da Ancelotti un gioco più offensivo.
Berlusconi è un uomo ossessionato dal potere. In quanto tale non è persona che per abitudine ama travestirsi da debole. Credo che per questo ami il calcio offensivo.
Tu sei un uomo di sinistra che ha giocato e ora dirige una squadra considerata di destra, il Real Madrid. Nel libro descrivi la frustrazione che provavi quando i tuoi tifosi intonavano la marcia franchista. Lo scrittore Javier Marìas, noto tifoso del Real Madrid e altro uomo di sinistra, ha risolto quella che i sociologi definirebbero una «dissonanza cognitiva» sostenendo che le «merengues» sono di sinistra. E' una mistificazione della fede calcistica o una mistificazione della fede politica?
Nessuna delle due, credo che sia un dato della realtà. Il Real Madrid è la squadra più popolare di Spagna e ha tifosi in tutte le fasce sociali. Penso sia solo un pregiudizio quello di associare il Real con la destra. Javier Marìas lo sa, perché lui ha un concetto molto positivo del calcio. Sa che non è solo uno sport, ma un territorio emotivo capace di creare un enorme impatto su milioni di persone. Forse perché è «selvaggio e sentimentale» (Selvaggi e sentimentali, parole di calcio, uscito per Einaudi nel duemila, è una raccolta di saggi sul calcio di Javier Marìas apparsi su El Pais Semanal, n.d.r.).
Sembra che le vostre visioni del calcio si assomiglino.
Sì, Marìas dice che andare allo stadio è una specie di recupero settimanale dell'infanzia. Io sostengo che il calcio è un momento di tregua dalle faccende serie, non un loro surrogato. In fondo entrambi pensiamo che assistere a una partita da tifoso non sia altro che una fuga dalla realtà. Innocente, visto che dura solo novanta minuti.
Oggi il tasto dolente del calcio è però quello economico. Le squadre versano in gravi condizioni finanziarie e per sopravvivere chiedono aiuto allo Stato. In Italia il governo ha fatto una legge che permette di dilazionare i debiti. In Spagna, per salvare il Real, il Comune di Madrid gli ha comprato la Ciudad Deportiva. Non c'è il rischio che i costi di conduzioni societarie scellerate finiscano per pagarli i contribuenti?
No, a Madrid non comprarono la cittadella sportiva, permutarono quei terreni con altri che erano della società. La fortuna del Real è stata possedere molte proprietà di gran valore nella miglior zona della città. E' brutto, sono d'accordo, che i problemi del futbol finiscano per risolversi nella politica. Il calcio deve rendersi conto di essere sì una parte importante dell'industria del divertimento, ma di essere anche un'impresa. Tutte le imprese hanno l'obbligo di autofinanziarsi e questo è lo sforzo che dobbiamo cercare di fare tutti.
Ce la farà il calcio a uscire da questa crisi?
Non lo so proprio, ma ho fiducia. D'altronde come dico nel libro, se parliamo di calcio, tutto è possibile.
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