Una lunga giornata di bora
Trieste e la Triestina, storie di calcio attraverso terre di confine
Autore Giuliano Sadar, Edizioni Limina, pp.170, €. 13,50
Rocco e la bora dell'eresia
In una bella monografia di Giuliano Sadar, la storia della Triestina, dei suoi campioni amati anche da Saba e di quel tecnico burbero ma colto che tra agonismo e geometria inventò il calcio all'italiana. Oggi lo stadio di Trieste porta il suo nome ma l'eclissi della squadra non conosce fine
I bersaglieri sono appena entrati in città diseppellendo la canzone del Piave; Ettore Schmitz, inappuntabile signore coi baffi e l'eterna sigaretta, ha fatto i soldi col commercio di guerra e le vernici sottomarine, così tanti da ostentare noncuranza, nel bel mondo, per i trascorsi insuccessi di Italo Svevo, suo alter ego letterario; al centralissimo Caffè Tommaseo, tra il fumo e le chiacchiere degli agenti di Borsa, siedono spesso due poeti, Umberto Saba e Virgilio Giotti, che la gente guarda da lontano come fossero reperti anacronistici; a pochi metri di distanza, il più nevrotico degli allievi di Freud, Edoardo Weiss, apre l'ambulatorio ad una disciplina, la psicoanalisi, che molti confondono ancora con l'occultismo e lo sciamanesimo. Dunque la Triestina nasce nel 1918 in una città al culmine del rigoglio economico e per iniziativa di facoltosi borghesi la cui identità plurima ( si tratta di italiani, greci, ebrei, slavi) ne conferma la vocazione cosmopolita. I greghi, dirà a lungo la voce popolare, a proposito dei giocatori. E alle vicende della Triestina si intitola la bella monografia di un figlio d'arte, Giuliano Sadar (Una lunga giornata di bora-Trieste e la Triestina, storie di calcio attraverso terre di confine, Limina, pp.170, 13.50) che ne ripercorre la storia per scansione topografica e iconografica, cioè puntando sui luoghi canonici e sui personaggi emblematici. Gli stadi, innanzitutto: Montebello, che vide tirar calci snobistici o dopolavoristici ai pionieri della maglia rossoalabardata; Valmaura, vicino alla Risiera di San Sabba, il campo cantato da Saba (una partita con l'Ambrosiana di Meazza, nientemeno finita zero a zero, gli dettò nel `33 le Cinque poesie sul gioco del calcio) nel dopoguerra intitolato a Pino Grezar, laterale del Grande Torino perito a Superga; infine il nuovo stadio che oggi porta il nome di Nereo Rocco, inaugurato una decina di anni fa, paradossale monumento (troppo grande e sempre troppo vuoto) a una squadra la cui eclissi, fra stagioni in B e C, sembra non potersi mai concludere. Va da sé che Rocco è il nome eponimo, sia da giocatore sia da tecnico, della squadra giuliana. (E a lui Sadar ha dedicato un volume, El Paron-Vita di Nereo Rocco, Lint Trieste 1997, che se non ha il brio aneddotico dell'altro a firma Gigi Garanzini, Nereo Rocco-La leggenda del Paron, Baldini & Castoldi 1999, si segnala comunque per l'accuratezza documentaria). In Rocco convivono l'anima borghese e in senso largo popolare della città: è figlio di agiati commercianti, studia pianoforte ma parla esclusivamente in dialetto, ha del calcio una visone agonistica (che sconfina talvolta nel gladiatorio) ma sa tradurla in geometria e in un acume tattico che subito fa scuola. La Triestina `47-'48, seconda in campionato dietro al Torino di Valentino Mazzola, incarna il calcio dell'aristocrazia plebea, vulgariter il catenaccio; con una mossa che fa di necessità virtù, Rocco libera alle spalle dei marcatori schierati all'inglese un terzino imponente, Ivano Blason, capace di chiudere ogni varco rilanciando a cinquanta metri, nel vuoto dove scattano in contropiede giocatori dalla fisionomia decisamente meno ruvida, per esempio Memo Trevisan ed Euro Giannini. ( Gli esteti insorgono ma quella Triestina coriacea, fedele al motto primordiale del safety first, primo non prenderle, umilia gli squadroni e funge da archetipo del calcio all'italiana: con buona pace di Bernardini, Sacchi, Zeman e delle mosche cocchiere che tuttodì li rimpiangono, le grandi compagini poi allestite da Gipo Viani, Scopigno, Trapattoni, Bagnoli, Lippi e Capello, tutte derivano, per scelta o eterogenesi dei fini, dall'eresia di Rocco, e perciò da una saggezza sportiva che mai accetterebbe di prodursi nel verbo isterico e nei toni demagogici della profezia).
Non è un caso che la cacciata dell'allenatore da Trieste, nel nome dell'innovazione a tutti i costi e di un qualunquistico «bel gioco», coincida con la decadenza della squadra, le cui sofferenze, nei decenni successivi, davvero hanno qualcosa del contrappasso: mentre liceali piccoloborghesi e neofascisti gridano in piazza Trieste italiana, l'economia della città collassa e la Triestina puntualmente, nel `57, retrocede. Seguono interminabili stagioni combattute in provincia, oscure epopee di fango e sudore, sequenze di nomi da seconda fila sul cui destino incombono coattive la sconfitta e un silenzio disilluso (o persino lo smacco, come nel `74, di un derby col Ponziana, il club dei dissidenti e slavofili prima, poi dei neoricchi e degli avventurieri): mai il ritorno in serie A, neanche l'anno scorso quando a un certo punto sembrò fatta, nel crescendo di una squadra priva di campioni e di sponsor, romantica ed autolesionista, salutata dagli spalti coi versi stessi di Saba, La vostra gloria, undici ragazzi,/ come un fiume d'amore orna Trieste... Scrive Sadar, in conclusione: «La Triestina non ha trovato la serie A. Ma ha mostrato che esiste l'impossibile. La lunga giornata di bora ha avuto una sosta, ha ripreso a soffiare, poi la calma, di nuovo. E nella bonaccia si vede il filo rosso che fugge verso il passato, che ridesta ricordi e li unisce col presente. Un capolavoro mai giunto alla fine, il presente, condito da gioia, felicità, delusione in una città che ce ne vuole a smuovere dalle proprie certezze pacate e sottilmente irose. Felicità per un momento, per manciate di minuti che non erano mai novanta, maledizione. Non importa, Umberto Saba sarebbe venuto volentieri lo scorso anno al `Rocco' ». (E ci sarebbe andato altrettanto volentieri lo storico di San Sabba, lo scrittore Ferruccio Folkel, appena scomparso, il cui tifo miscredente avrebbe forse dato retta alla clausola di una delle sue Storielle ebraiche: «Sigmund, cosa sei venuto a fare in sinagoga se hai ripetuto mille volte di non credere nell'Eterno? - E' vero, non ci credo, ma come faccio a sapere di avere certamente ragione?»).
Così, in retrospettiva si profilano nel libro i campioni dell'altro ieri, tanto più prossimi alla leggenda quanto più i calciatori della Triestina di oggi sbiadiscono in un sostanziale anonimato: ecco allora le tracce redivive di Piero Pasinati, gran cursore anni trenta, insieme con il suo gemello e antipode Gino Colausig, che il fascismo normalizzò in Colaussi, ala dal tiro squassante, partner di Silvio Piola nell'Italia campione del mondo a Parigi, 1938 (un uomo impeccabile, presto stritolato dall'ingranaggio del calcio-jungla: finirà mestamente, sorretto dai sussidi della legge Baccelli); ma ecco anche i cosiddetti giocatori-bandiera, quelli che sempre ti immagini sudati e infangati uscire da una mischia o lottare sull'ultimo pallone, gli Enrico Radio e i Renato Sadar. Proprio di quest'ultimo è detto: «I metodi di Sadar erano più legalitari ma altrettanto spicci. I compagni di squadra dovevano rigar dritti, altrimenti calci in culo. Niente solidarietà e ammiccamenti con gli avversari. Tolleranza zero con chi giocava sporco. Offese verbali sino a un certo punto, poi scattava la rappresaglia»; per quelli come lui Rocco stravedeva, mentre Umberto Saba scriveva, spudoratamente, la parola «gloria».
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