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Storie di campioni che hanno giocato con la vita 
Autore Emanuela Audisio, ed. Mondadori, €. 13,00
In un libro di Emanuela Audisio, i campioni che hanno giocato con la vita

Su La 7, con un documentario della serie Americana, Gianni Riotta ha raccontato in profondità perché il caso Kobe Bryant non potrà non fare i conti col fantasma cupo del razzismo americano. E lo ha spiegato partendo dalle parole sicure e decise di uno sceriffo del Colorado, il veterano del Vietnam Jim Hoy che con l'inaspettato appoggio del movimento femminista si è detto convinto di aver consegnato ai magistrati della contea di Eagle le prove della colpevolezza dell'imputato: «Ho sentito parlare di razza. Il Colorado è uno stato a larga maggioranza di bianchi e Bryant è un cittadino afroamericano. Naturalmente tutto questo non ha niente a che fare con il nostro lavoro. Siamo tutti uguali davanti alla legge». Per chi volesse capire perché il sottotesto dell'affaire-Kobe è comunque tutto razziale, c'è da alcuni mesi tra gli scaffali delle librerie un bel libro di Emanuela Audisio, Bambini infiniti - Storie di campioni che hanno giocato con la vita (Mondadori) che ricorda, tra le altre cose, perché gli atleti afroamericani non sono mai stati uguali davanti alla legge. Certo oggi l'America usa i guanti bianchi per il divino Bryant, che tutti danno per sicuro assolto nonostante il rinvio a giudizio. Ed è capace di pagare un milione di dollari per mettere le scarpette da calcio griffate ai piedi di un ragazzino ghanese di 13 anni, il piccolo Freddy Adu, che segna già come Pelè e ha pure il passaporto a stelle e strisce. Però, prima di Kobe (e prima di OJ Simpson), le cose andavano in maniera diversa e la memoria può aiutare a capire perché.

Il libro è una serie di ritratti pensati a coppie «perché «spesso capita che un campione sia l'esatta metà di un altro, quasi la parte mancante, e che messi insieme combacino. O che invece siano l'esatto opposto». I protagonisti sono tanti, ognuno con le sue «purissime» vicissitudini da bambino infinito: Maradona, Mohammad Alì, Borg, Monzon, Nadia Comaneci, Baggio, Senna, Fiona May, Socrates, Lewis, Ronaldo, Mennea e molti altri. I primi due però sono scelti e accoppiati in maniera emblematica. Rubin «Hurricane» Carter, il boxeur cantato da Dylan, condannato dalla giustizia degli anni `60 solo perché nero. E OJ Simpson, l'ex campione di football reclutato da Clinton, salvato invece dalla giustizia degli anni '90 solo perché nero. Carter uscì di prigione dopo 20 da innocente con tre ergastoli sul groppone (poi annulati) per l'assassinio di tre bianchi a Peterson nel '66. Uscì e disse: «Ero il cocco d'America, mi amavano, dicevano che non si era mai vista sul ring una furia come me. Io ci credevo, ma quando ho smesso di fare il nero buono non sono più piaciuto. Mandarmi in galera fu comodo e sbrigativo. Oggi la quotazione dell'impegno è al minimo storico. I campioni neri, che potrebbero fare molto, hanno pubblicitari furbi e uno slogan semplice: non ricordare le cose sgradevoli. Così la gente crede che in 20 anni la situazione dei neri sia cambiata. Ma non è vero, visto che ci sono più neri in prigione che all'università. L'America è un penitenziario con la bandiera a stelle e strisce». OJ invece, il running back di Hollywood che prendeva lezioni di dizione per «non sembrare nero» e amava solo le bianche californiane, fu salvato dall'accusa di aver massacrato la moglie e il compagno perché la giuria (composta da nove afroamericani su 12) fece sua la tesi del complotto dei poliziotti fascisti e pareggiò i conti col pestaggio di Rodney King. Abbiamo fatto la cosa giusta - dissero. « Simpson è un simbolo e bisogna far attenzione a buttare giù i simboli, anche se sono violenti, prepotenti, assassini. Perché vorrebbe dire non aver più la possibilità di sognare».

Prima di Kobe, ci furono altri che sbagliarono e pagarono: Alì, Tyson, Magic Johnson. Ma anche quelli che non sbagliarono e non pagarono mai: Lewis, Michael Jordan. Ognuno coi suoi giochi, ognuno coi suoi guai. E ci fu Tommie Smith, il pugno del black power sul podio di Città del Messico. Per lui il `68 è passato e tutti, da Alì a Kobe, «sono clown nello spettacolo dei bianchi. Non se ne rendono conto. O forse lo sanno e gli va bene così».

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