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La mia vita con l'alcol
di Tony Adams Edito da Baldini & Castoldi, €. 10,00

Queste pagine sono piene del dramma di chi le firma. E che a farlo sia uno dei più prestigiosi giocatori d'Inghilterra, ciò non fa che amplificare il dramma. Lo scoprimmo qualche anno fa e ora ne prendiamo più diretta consapevolezza con questo libro. Fuori gioco nella traduzione italiana, ma più schiettamente vero nell'originale inglese Addicted ('Dipendente', 'tossico'): Tony Adams, centrale dell'Arsenal e della nazionale, si è progressivamente consumato nell'alcol e oggi vive serenamente la sua condizione di convalescente della vita. Risulta ancora impensabile immaginare che si possa essere cittadini di un qualunque Empireo terrestre e portarsi nello stesso momento addosso un taglio nell'anima che cresce come un cancro? Fama e danaro possono amplificare un vuoto, il mondo del calcio è libero docente in materia e i britannici, in particolare, gli accademici di maggior prestigio internazionale, sotto l'ala protettiva di quel dio naufragato che è George Best. 

Tony Adams il suo dramma l'ha voluto raccontare a futura memoria e il nichilismo di cui è impregnato gran parte del suo racconto ha il merito di avvicinarci l'uomo, dopo l'ammirazione naturale per il calciatore. Bene, Tony Adams beveva. Beveva ma non lo sapeva. Meglio, non sapeva, non voleva ammettere di essere qualcosa di più di un buon intenditore di birra. Beveva per anestetizzare le emozioni intense; per stordire un dolore atavico che già a undici anni lo relegava nell'inferno degli attacchi di panico; beveva per dimenticare che sua moglie Jane lo aveva lasciato per intraprendere un serio trattamento di disintossicazione dalla droga; perché non aveva più alcun interesse per i sentimenti degli altri; perché il piacere aveva lasciato il posto al bisogno; perché fuori dal suo piccolo mondo antico non esisteva altro; perché gli sembrava naturale provocare un pauroso incidente in macchina, uscirne vivo e farsi otto settimane di prigione; perché aveva un valore il 'massì, un bicchiere non fa niente', senza poi pensare che cento non sarebbero stati sufficienti; perché rimase senza parole quando un giorno suo padre gli disse: ''Tony, non sorridi più quando giochi''; perché far scendere dieci pinte era come dare il leccalecca a un bambino; perché, libero da impegni di lavoro, non c'era altra vita che dormire fino a tardi, scendere al pub, tornare a dormire e ritornare al pub; perché quattro Guinness in un'ora era un modo come un altro per conoscere i segreti della birra nera; perché bere lavava la sua introversione e addormentava il senso di colpa verso i suoi figli; perché comunque si riempisse, se la cavava sempre («Negli allenamenti che seguivano una sbronza, mi mettevo un doppio strato di indumenti, sudavo tutto quello che avevo bevuto e così riuscivo ad andare avanti. Gli allenamenti mi davano la possibilità di fuggire da me stesso, bastava che ci si limitasse agli esercizi fisici e che George Graham non tirasse fuori il pallone»).

Per questi e altri mille infernali motivi. Ma lui imperterrito a scansare quella presa di coscienza dalla quale tutto può solo risalire, l'ammissione madre che chiede nel cervello la forza dei capelli di Sansone e nel cuore la limpidezza del mar dell'Algarve. Ma l'unica che porta veramente lontano. Poi un giorno: «Il fisico e la mente non mi permettevano più di essere un grande calciatore e un bevitore di prima categoria. Non mi restava che chiedere aiuto. E quando mi decisi, successe qualcosa di stupefacente.» Successe che si presentò a una riunione degli Alcolisti Anonimi e fece uscire la dichiarazione più deflagrante della sua intera vita: «Mi chiamo Tony e sono un alcolista». E tornò a rivedere le stelle. 

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