Ragazzi di latta
(Totò Schillaci si racconta)
Benvenuto Caminiti, ed.Limina, pp.37, €. 13.50
Fu il capocannoniere dagli occhi spiritati dei Mondiali di Italia '90. Durò una stagione e poi finì inghiottito da un calvario di infortuni e incomprensioni. Oggi, tornato a Palermo, fa l'imprenditore. In un libro-intervista di Benvenuto Caminiti, la storia di Totò Schillaci
Un'espressione di furia barbarica, gli occhi enormi e spiritati, una stempiatura che ne intaglia il profilo, assomigliandolo a un garzone di Caravaggio o a un borgataro di Pasolini piuttosto che a un calciatore: l'icona di Salvatore Schillaci, detto Totò, è tutta nel fotogramma che riassume Italia `90, lo stesso che segue ogni volta i sei gol con cui diviene capocannoniere del torneo e, per una stagione appena, una star di risonanza mondiale. Fu una falena, ovvero un meteorite, ma lasciò il segno classico del centravanti dinamitardo, nato per il gol e dal gol ossessionato: «dribbla, punta l'uomo, tira», questo gli diceva Franco Scoglio, l'allenatore a lui più antipode per cultura e carattere e invece più vicino per radici ed istinto. E' quanto si apprende fra l'altro nel volume, a mezzo fra la biografia e l'intervista, di Benvenuto Caminiti
Ragazzi di latta (Totò Schillaci si racconta) (Limina, pp.37, 13.50) cioè firmato dal fratello del Vladimiro Caminiti (ultimo prosecutore di Bruno Roghi, di vena immaginifica) che a suo tempo ne dettò il ritratto lirico: «Un giocatore d'attacco così frenetico ancora non si era visto. La frenesia di un Denis Law applicata su un canovaccio differente. Un istintivo dal sanguigno slancio su ogni pallone che appena può tira; e il suo tiro, la sua sberla, la sua slecca, il suo shot, non perdonano i portieri». Nato a Palermo il primo dicembre del `64, Schillaci passa l'infanzia e la prima adolescenza inseguendo la palla di stracci nei vicoli del rione Capo e, più tardi, negli spiazzi del Cep, un quartiere che l'ambiguo paternalismo democristiano costruisce alla fine degli anni Sessanta per deportare in periferia il sottoproletariato che marcisce nel centro città; scarsa scuola, espedienti e un precario lavoro di gommista ( è un giovane chiuso, emotivo, ai limiti della compressione tellurica), a Totò va meglio tuttavia che agli altri: dopo una stagione in quarta serie nell'Amat, passa al Messina dove, fra serie C e B, resta sette stagioni e ha modo di incrociare due maestri cui serberà riconoscenza, appunto Scoglio e Zeman. Nell'estate del 1989, Boniperti lo porta alla Juventus, quasi in sordina: ci arriva da rincalzo, ma la stagione `89-'90 (conquista della Coppa Uefa e della Coppa Italia, folgorante apparizione ai Mondiali di Roma) coincide col suo lancio meteoritico. Dominano il campionato il Napoli di Maradona, il Milan di Gullit e Van Basten e l'Inter «tedesca» di Trapattoni: la Juve è solo quarta ma Schillaci gioca trenta partite e fa la bellezza di quindici gol, anche grazie ad un allenatore, Dino Zoff, che in silenzio ne coglie gli umori profondi, spesso ibridi, e sa parlargli senza doverlo circuire.
Sia detto per inciso, la Juve di Zoff, presto smontata per pura megalomania di dirigenti ciechi davanti alle grandigie del Milan-Mediaset, è anche la più sottovalutata dell'intero dopoguerra. Né costituisce un caso che si affermi in Europa e rifili una lezione di tattica e agonismo proprio al Milan di Sacchi nella finale di Coppa Italia a San Siro. Si tratta di una squadra che somiglia al proprio tecnico, priva di grandi campioni ma decisamente compatta, anzi spigolosa e tetragona: davanti al portiere Tacconi, i terzini Napoli e De Agostini, che allora si diceva un «fluidificante», con i centrali Brio e Dario Bonetti; in centrocampo, due uomini di fiato quali Marocchi e Galia oltre ad un interno di nitido stile, il bielorusso Alejnikov; funge invece da rifinitore e punta truccata un portoghese minuscolo, Rui Barros, però capace di brucianti affondi in slalom; i centravanti sono due, Schillaci e Pierluigi Casiraghi, ma Zoff li tiene volentieri larghi per propiziare il contropiede e rapide incursioni al centro. I due si completano perfettamente: Casiraghi è un longilineo di grossa mole, forte di testa e nelle progressioni, mentre Schillaci predilige lo scatto breve o meglio le immediate soluzioni di stop e tiro al volo, con entrambi i piedi e in qualunque zona del campo si trovi. Facendogli un vero complimento, una volta Roberto Boninsegna disse che, in area di rigore, aveva come un radar nascosto. In azzurro, il radar dispone di riferimenti del calibro di Vialli, Donadoni, e di un ancora giovanissimo Robarto Baggio, il quale nell'incontro degli ottavi con la Cecoslovacchia semina avversari e va in gol con una serpentina degna di Meazza. Tutto ciò non basta affatto o forse, per un attimo, basta solo a Schillaci: eliminata in semifinale dall'Argentina, l'Italia è terza e Totò entra nell'albo d'oro più esclusivo. Raccontando la partita contro l'Uruguay, così lo vide Gianni Brera, mutando, per amore della letteratura siciliana, il nomignolo Totò in quello rusticano di Turi: «Il piccolo Turi si era battuto con pirandelliana rabbia (mancava si mordesse le mani) contro giganti che ne mortificavano la statura: prese le giuste distanze dalla torre, ha sparato da prima addosso al portiere ma al secondo tentativo lo folgorava con un sinistro omicida».
Per lui atleta, il campionato del mondo segna l'apice e, nello stesso tempo, l'inizio della fine: Palermo lo festeggia con una luminaria che solo l'estro demagogico del sindaco Leoluca Orlando sa apparecchiargli, mentre il pretenzioso panfilo degli ex reali d'Italia lo aspetta al largo della Corsica per una vacanza in cui persino il ragazzo del popolo può credersi vocato alla jeunesse dorée. Fatto sta che, più implacabili di un contrappasso, i quattro campionati che lo aspettano in Italia (due alla Juve, due all'Inter) sono un calvario di infortuni, incomprensioni, polemiche, fino all'atto sacrificale cui lo sottopone l'allenatore interista Giampiero Marini e che lo induce al passo d'addio: «Marini non merita di essere annoverato tra i miei allenatori e non solo perché mi sbattè fuori dalla rosa di prima squadra come fossi un pivello, ma perché mi umiliò davanti a San Siro volendo farmi entrare al novantesimo dalla panchina. Io educatamente cercai di evitare quell'affronto dicendogli `Mister, faccia entrare un ragazzino...'; lui non fece una piega e io mi illusi che avesse capito».
Dunque nella primavera del `94 lascia e se ne va in Giappone, dove presto diviene Totò-san, stella occidua di un calcio peraltro in ascesa e di un campionato che non somiglia in nulla a un cimitero di elefanti. (Ne sa qualcosa Carlos Dunga, gran regista difensivo, allontanato dalla Fiorentina con gesto suicida, che lo raggiunge poco dopo). Schillaci torna in Italia nel `98 per aprire a Palermo una scuola di calcio, e oggi è un uomo ricco, un imprenditore, come si dice, che può anche permettersi la nostalgia per l'antica palla di stracci al quartiere Capo o al Cep («... già allora, che ero ancora un moccioso, l'unica cosa che contava per me era segnare, a dispetto di tutti, compagni ed avversari. Una voglia sfrenata, che non è mai finita... Ma io non potevo cambiare, perché se perdevo quella mia voglia matta di gol perdevo tutta la mia forza di calciatore»). Non ha nemmeno più la stempiatura caravaggesca, ma un ciuffo chissà come redivivo: forse è il pegno che, senza volerlo, anche lui paga al calcio di oggi, una frangia posticcia, un di più nient'affatto necessario e artificiale.
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