Presidenti
Come non dirigere un club di calcio
52 ritratti di «Presidenti», dai famosi a quelli più appassionati e curiosi
Prova a domandare cosa ci sia prima
della C-2, al di qua del pallone cosiddetto professionistico, e
riceverai in risposta le ipotesi più disparate: la serie D,
l'interregionale, l'eccellenza. Le categorie: prima, seconda, e forse
terza. Poi, più giù, l'oratorio e il cortile sotto casa. Anche
nell'immaginario degli aficionados, il sottobosco calcistico che precede
in gerarchia le serie maggiori ha la consistenza incerta di una
nebulosa, in cui vagolano compagini a dir poco pittoresche, frattaglie
territoriali ancorate agli angoli più improbabili della provincia
italiana, formazioni infinitesime che si nutrono di nuda passione,
rimesse al potere sovrano dei presidenti che tirano fuori la grana.
Quanta ne occorre, di solito, per battezzare, al momento dell'iscrizione
ai tornei, l'annuale salto nel vuoto. Luca Cardinalini, giornalista
televisivo, ha scritto un libro, Presidenti
(ed. Gallucci), felice nell'idea ispiratrice prima ancora che nella
scrittura, in cui esplora le vicissitudini biografiche, i capricci, i
vezzi, le frustrazioni dei patron del nostro calcio: dai presidentissimi
della serie A, agli insospettabili dirigenti - e questa è la parte più
gustosa - a capo dei club dei campionati minori. 52 ritratti
individuali, poche pagine a testa: si va dai nomi sovraesposti, quelli
quotidianamente sulle labbra dell'apparato mediatico che gira intorno al
pallone, ai carneadi (ma fino a un certo punto) che stilano bilanci
all'ombra di strutture societarie bonsai, solide come castelli di carte.
L'onore (e l'onere) di aprire la rassegna tocca a Massimo Moratti,
l'hidalgo dell'Inter che in otto anni ha speso per la sua creatura poco
meno di mezzo miliardo di euro, ottenendone in cambio una Coppa Uefa,
cioè poco più di zero. Di mezzo, altri padroncini della massima serie,
o di fresca retrocessione: Luciano Gaucci, Enrico Preziosi, Luca
Campedelli. Piazzisti di razza, capitani d'industria intorcinati nei
loro trip finanziari, presidenti abituati a maneggiare i loro club come
giocattolini, per rimpinguare l'ego e il conto in banca. Ma le sorprese
arrivano non appena si discende la china dei campionati, e il pallone
riacquista una dimensione quasi amatoriale, fatta di campi semisterrati,
volontariato sportivo, libri che in tribunale non ci vanno perché c'è
ben poco da scriverci, sopra.
Dalla serie D alla terza categoria - praticamente il punto zero
dell'agonismo - il calcio riguadagna uno spazio che non risponde ai
classici diktat mercantili: quello della mania, della passione
esistenziale, grandezza inversamente proporzionale all'utile. Si va dal
Sacro Cuore Milazzo, seconda categoria, provincia di Messina, presieduta
da Don Giuseppe Cutropia, pescatore di anime e allenatore in clergyman,
al Faenza di Giancarlo Minardi, quello della scuderia di formula 1.
Dalla terza categoria della Genova Medici, squadra nata tra le corsie di
un ospedale, il cui tesseramento comprende fatalmente il giuramento di
Ippocrate, alle maglie nere della Stella Azzurra di Franco Magliuolo.
Sponsor della squadra, residente a S. Felice Cancello, in provincia di
Benevento, l'agenzia funebre del paese; in mezzo al nero che totalizza i
colori sociali, una piccola bara stilizzata.
Le serie minori, lascia intendere Cardinalini, campano per buona parte
sulle disponibilità economiche di presidenti che di mestiere fanno gli
imprenditori - più o meno miliardari, più o meno faccendieri - e che
si dedicano al pallone come per onorare un debito. Quello contratto con
il proprio passato di calciatori della domenica, di spettatori a
braccetto di padri e nonni rimpianti, di nostalgici del borgo natio.
Nulla a che vedere con la competenza, o con la professionalità. Anzi:
la nota dominante delle loro dichiarazioni è una candida dichiarazione
di impreparazione. Non è che ne capisca un granché, di allenatori e di
campagne acquisti, ti dicono. È una questione di fiuto, spiegano. O di
malinconia. Quella che ti fa credere che parte della tua storia sia
redimibile. La stessa malinconia che un giorno deve aver stretto alla
gola anche Totò Schillaci, emigrato in oriente, fino a trascinarlo a
casa, al Cep di Palermo, a ristrutturare il campo dove giocava da
ragazzino, a costruirci il centro sportivo più attrezzato del capoluogo
siciliano.
La posta è sempre quella, secondo Cardinalini: far combaciare col
presente i sogni fatti nell'adolescenza, quando nello stradario
sentimentale di ogni presidente, anche il più bucaniere, c'era un
rettangolo di terra con due porte e un pallone da nascondere agli
avversari.
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