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Il calcio tra evasione e pornografia

Si può ancora raccontare il calcio come fosse un favola? Sì, a patto di ignorare quello odierno in quanto eccessivo, sovraesposto, e cioè, etimologicamente pornografico. (La perdita dell' «aura» è infatti consustanziale all'età della pay-tv e della moviola: anche per un bambino, la finta di Totti o il gol di Vieri, rivisti cento volte, sono al massimo icone, nient'affatto dei miti. Perché distanza e mistero gli sono vietati, e a priori). Si corre dunque il rischio dell'evasione, dell'anestesia, e persino della intenerita elegia ma si evita l'epica d'accatto di cui sgrondano i palinsesti. Questo rischio lo corre volentieri l'ultimo libro di Darwin Pastorin, "Lettera a mio figlio sul calcio" (Mondatori, pp.126 12.00 €.), appunto concepito tra la fiaba e il tracciato di un possibile romanzo di formazione. Due ne sono gli epicentri: San Paolo del Brasile (lì Pastorin, figlio di immigrati veneti, è nato il 18 settembre del 1955, lo stesso giorno in cui Manuel Francisco Dos Santos, detto Garrincha, ala destra del Botafogo, esordì nella nazionale verdeoro: segno quasi cabalistico, tradotto in seguito da Pastorin, alla maniera d'un omaggio e di una postuma restituzione, nel suo primo e bellissimo libro, Ode per Mané Limina,1996); e Torino, dove si trasferisce con la famiglia nel'61, giusto in tempo per assistere al tramonto della squadra di Boniperti/Charles/Sivori ed innamorarsi, paradossalmente, di una Juve al ribasso guidata da un paraguayano ascetico e insieme maniaco, Heriberto Herrera, nonchè trattata con disprezzo dal suo stesso padrone, che la definiva socialdemocratica (vi giocavano un mucchio di scartine e solo un paio di assi: Tino Castano, difensore così classico da sembrare uno Scirea in anticipo, e il brasiliano Cinesinho, lento ma sapiente nel tocco e nel palleggio). A Torino Pastorin gioca a calcio (centravanti nel campionato degli istituti scolastici: però era miope, e probabilmente troppo letterato per sacrificarsi sul serio) e conosce su testate allora obbligatorie (Tuttosport, Calcio Illustrato, Guerin Sportivo) le firme della costellazione critica che è tuttora la sua: ovviamente Gianni Brera, Giovanni Arpino, Gian Paolo Ormezzano, oltre a un tandem che non potrebbe essere più dispari, cioè l'immaginifico Vladimiro Caminiti e l'ironico, sulfureo, Beppe Viola. Proprio Arpino, maestro e futuro sponsor, lo invitava a non chiudersi nella pura disamina tecnica, ma a divenire invece «bracconiere di tipi e personaggi», a scrutare la vita dei campioni rigettandone lo stereotipo per estrarne la sostanza segreta, magari la ferita nascosta.
Non a caso i campioni che racconta a suo figlio costituiscono una galleria di uomini isolati, o sconfitti, oppure vulnerati a morte. Sono pochissimi, chiusi a medaglione dentro una scrittura agile, en souplesse, che comunque ne rispetta il riserbo o la memoria: Luigi Meroni, la farfalla granata, il primo e meteoritico calciatore beat; Gigi Riva, i cui gesti gloriosi attingevano la compiutezza etica; Pietro Anastasi, detto «u turcu», lo scuro, minuscolo Pelè dei meridionali a Torino; Diego Maradona, fenomeno e capro espiatorio di un gioco che non è affatto un gioco, troppo più grande e cinico di lui; e infine Gaetano Scirea, al cui ricordo Pastorin ha peraltro dedicato una monografia (Libero e gentiluomo, Limina, 2000). Così, ad esempio, oggi torna su Garrincha, l'icona iniziatica: «Morì solo e abbandonato in un ospedale neurologico. Ma la sua gloria ancora resiste: donò allegria alla gente, fu un angelo peccatore, visse come in un delirio, inconsapevole della sua grandezza di eroe tragico. I suoi dribbling, i suoi gol, la sua capacità di rendere semplice l'impossibile suscitarono l'ammirazione dei tifosi e il canto dei poeti, Vinicius de Moraes, Carlos Drummond de Andrade, Edilberto Coutinho lo hanno tolto dalla cronaca per farlo entrare nell'olimpo degli immortali. Portava una fame secolare, atavica. I suoi gol spezzavano catene, liberavano la fantasia, spalancavano i cancelli di una possibile, realizzabile utopia, erano acqua e pane, sole e mare».
Si dirà che sono iperboli. E lo sono, ma (come il miele che in antico ornava i bordi dell'amaro calice) tuttavia necessarie alla favola: un attimo prima che il video si accenda e il calcio ritorni normale pornografia, anzi empietà.

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