Torna all'elenco dei libriRossoneri comunque
In un libro, edito da Limina, la fede e la passione per il Milan. Venticinque racconti dai tempi di Rocco a quelli di oggi Con tre testimoni d'eccezione: Rivera, Lodetti e Sacchi

Perché si diventa tifosi e si sceglie una squadra piuttosto che un'altra? Un plagio paterno? Una ripicca da scuola elementare o d'asilo? Una questione di colori o un'assonanza di nomi? Ognuno può dare la sua risposta oppure non trovarne nessuna e crescere «schiavo» di quella fede senza sapere il perché. Certo è che poi non si cambia più: almeno per i «fedeli» veri, escludendo quelli che tifano solo per la nazionale (ridicoli, perché sarebbe come dire «a me il sesso piace solo la domenica») ed Emilio Fede (l'eccezione che conferma la regola, anche se lui, in realtà non ha cambiato squadra - dalla Juve al Milan - ma è passato dal senso di realtà all'innamoramento per Silvio Berlusconi). La fedeltà alla maglia è una delle poche coerenze nazionali di un paese che ha fatto la storia del trasformismo e in cui sono svanite ideologie e appartenenze di ogni genere: una delle rare costanti italiane. E ogni tifoso, fino alla fine dei suoi giorni, rimarrà indissolubilmente legato a quella maglia scelta da bambino; nonostante tutto. Riprova ne è la recente fioritura di una «letteratura» calcistica fatta di fronteggiamenti feroci: Rossoneri comunque (Limina editore, pp. 150, euro 13,50), a cura di Davide Grassi e Andrea Scanzi, ne è uno degli ultimi esempi. Venticinque fan milanisti raccontano la propria fede: sono scrittori, giornalisti, musicisti, con il corredo di tre protagonisti, Giovanni Lodetti, Gianni Rivera e Arrigo Sacchi. E' un libro fazioso, come tutti i suoi pari, in cui il Milan viene raccontato attraverso il filo delle memorie personali, tutte accomunate dall'alternarsi di gioie e drammi di tifosi più o meno famosi, da Enzo Jannacci a Fabio Treves, da Leonardo Coen a Giulio Nascimbeni, da Franz Di Cioccio a Mauro Raimondi. Venticinque «giocatori», rosa ampia, panchina lunga. Tutti ci mettono la propria passione, forse i più distaccati sono proprio i tre protagonsiti, Lodetti, Rivera Sacchi. Gli altri si scatenano nella faziosità, soprattutto nella contrapposizione con i tifosi interisti.

La chiave del libro è quel «comunque», parola che fa pensare a una vera e propria antropologia milanista. Perché il dato che accomuna storie tanto diverse è un'appartenenza fondata sulla sofferenza e l'ostinazione, la fedeltà vissuta più attraverso le dolorose cadute che fondata sulle gloriose risalite. Quasi che i momenti di gioia contino meno delle delusioni. Sono le «tragedie» a rinsaldare la fede calcistica: forse vale per tutte le tifoserie, ma - visti gli estremi della recente storia milanista - per quella rossonera l'appartenenza in negativo conta ancor di più.

A cercare una costante di Rossoneri comunque ci si imbatte in un malinconico orgoglio: la nostalgia per un calcio fatto di radioline transistor a fronte di pay-tv, posti non numerati allo stadio contro San Siro che diventa il Meazza post-mondiali `90, eroi popolari versus «calciatori vetrina»; e, poi, la certezza dello slogan «il Milan siamo noi», non l'attuale presidente, la cui presenza diventa quasi un fastidio, un'arma polemica in mano all'avversario, soprattutto se si è - come lo sono quasi tutti i narratori di questo libro - di sinistra (la fastidiosa e stupida domanda «ma come fai a tifare per il Milan di Berlusconi?»). Così le vergogne sportive (la serie B o la «fatal Verona») passano persino in secondo piano (anzi, diventano motivo di orgoglio nei 60.000 a vedere Milan-Cavese 1 a 2). Ciò che costituisce una vera tragedia è quel presidente ingombrante, quell'«usurpatore» di cui Giacomo Papi sogna di smascherare la fede nerazzurra durante un derby. Quello che tutti (tranne Sacchi) vogliono considerare un episodio di passaggio, da cui prendere le distanze, come fecero i ragazzi della curva sud, il giorno della sua «scesa in campo» politica, esponendo uno striscione con sberleffo di sinistra.

Questa è la sofferenza comune, questo è il Dna del tifoso milanista, preoccupato dalla contaminazione politica del suo Milan, delle infiltrazioni nella tifoseria militante del tipo «Commando Tigre», il gruppo ridotto a guardia pretoriana del presidente, tenuto a distanza da quelli della Fossa e dalle Brigate e «confinato» nel primo anello di san Siro, perché il cuore del tifo sta lassù, in piccionaia, nei vecchi «popolari».

Di fronte alla favola per ricchi di Berlusconi, il tifoso milanista (di sinistra) si rifugia nel ricordo di Sandro Viola, nel romanzo popolare di Vincenzina davanti alla fabbrica, nel vecchio «Paron» Rocco, quello che sapeva vincere gli scudetti con un centravanti come Chiodi, un mediano come De Vecchi, che sapeva coccolare a modo suo Rivera e far rinascere dal prepensionamento Sormani o Hamrin (perché è troppo facile vincere tutto con davanti Van Basten, dietro Baresi e in mezzo Gullit e Rijkaard). Il vecchio Rocco Nereo da Trieste, che parlava in dialetto e sdrammatizzava tutto. Quello che all'allenatore avversario che gli si rivolgeva con un «Vinca il migliore», rispondeva con un disarmente e fazioso «Speremo de no»: il nostro augurio di oggi - alla vigilia di Juve-Milan, finale di coppacampioni - che sognamo un gol di Gattuso all'ultimo secondo, per «rubare» una partita magari brutta ma combattuta, di quelle che non piacciono al presidente-usurpatore. Perché sarebbe una vittoria tutta nostra, non sua.

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