Quei ragazzi casa chiesa e pallone
Autore: Claudio Frascella, Scorpione Editrice, 15,00 euro
Gli oratori moderni sembrano uomini di mezza età con il parrucchino, hanno campetti da calcio con il pelo sintetico. Un prato finto e morto che scolorisce negli anni. Un tempo invece i campetti di calcio degli oratori erano organismi vivi, animali che cambiavano pelle al passaggio di stagione: polvere d’estate, fango d’inverno. Nella polvere e nel fango hanno combattuto, palla al piede, generazioni di ragazzi dalle ginocchia eternamente sbucciate. A loro modo erano guerre consacrate, come le crociate, perché giocate all’ombra di una chiesa, dopo una Messa, con un don a bordocampo. Calcio e religione sono così mescolati all’oratorio che guardi chiesa e campanile e pensi a una coppia di attaccanti bene assortita: quello più piccolo, agile e scattante e lo spilungone forte di testa. Gli ex genoani Aguilera e Skuhravy, per intenderci.
Chiunque si sia sbucciato le ginocchia all’oratorio conserva in qualche cassetto della memoria una crociata che non dimenticherà: una partita, un campionato di cui essere orgoglioso; una piccola epica personale che diventerà sempre più dolce con il passare del tempo perché rimanderà agli anni più spensierati della nostra vita.
Questo ci racconta Claudio Frascella: la sua crociata indimenticabile al tempo dei calzoni corti, un pugno di partite combattute con i suoi amici migliori, all’ombra di una chiesa, con un prete a bordocampo e un soprannome prestigioso (Meroni) da vestire come una corazza sopra un corpo ossuto e gracile.
Conosco Claudio da anni, condividiamo la passione per una squadra di calcio di Milano che non ha a che fare con Palazzo Chigi ma, più ancora, condividiamo l’amore per uno sport che è diventato sempre più finto, come i campi sintetici degli oratori moderni. Riportare indietro il calcio con il ricordo, come fa Claudio in questo bel libro, è un modo per guarirlo e forse per salvarlo. È un modo per restituirgli un’anima attraverso la passione di ragazzi che si sfidano limpidamente per un solo orizzonte di gloria, spinti dall’amicizia prima ancora che dai muscoli.
Frascella usa gli strumenti del giornalista per ricostruire una scenografia puntuale che prende colore e prospettiva storica grazie a una meticolosa registrazione dei dettagli; e usa il cuore di innamorato del pallone per dare al racconto il ritmo e i contorni di una favola moderna.
Durante il nostro fitto traffico di sms e e-mail, lungo la tratta Milano-Taranto, ho imparato ad apprezzare l’ironia e la sensibilità di Claudio. Non mi meraviglia perciò che il testo faccia sorridere e commuova.
Il viaggio vale il prezzo del biglietto. Salite a bordo e cominciate a leggere: si torna indietro, al tempo in cui gli oratori avevano i capelli e non il parrucchino.
Luigi Garlando - Gazzetta dello
Sport
QUEI RAGAZZI CASA CHIESA E PALLONE
Nel ’66, a dieci anni, il pallone alle tre di pomeriggio era la nostra playstation. Forse non saremmo stati capaci di starcene seduti a smanettare davanti a uno schermo: non avremmo avuto risorse economiche, poi perché privo di passione e interazione. Così scendevamo da casa per incontraci e scontrarci su qualsiasi cosa, che a noi invece sembrava fondamentale. Ma parlavamo, tanto. Non esisteva il pericolo che uno si isolasse.
Il sogno: diventare una figurina Panini, dalla quale sbucare con un sorriso appena accennato, come Rivera, Sivori e Mazzola. Mestiere affascinante, complice il cinema, la tv, anche quello del poliziotto: difendere i più deboli e punire i cattivi ci sembrava arte nobile quanto prendere a calci una sfera.
Di squadre, undici contro undici, potevamo contarne a bizzeffe. Non mancava la materia prima. E come i ragazzi, non mancavano nemmeno gli enormi spazi sui quali improvvisare sfide da Coppa dei campioni, cucirle con commenti a voce alta, impostati sullo stile di Tutto il calcio minuto per minuto. Non mancavano, dunque, i tornei negli oratori e nei quartieri con annesso campo di calcio. Oggi c’è il calcetto, la versione-Bignami del nostro calcio. Anche questa è materia nostra, perché il calcetto lo abbiamo inventato noi alle tre del pomeriggio.
Il dopo-pranzo era dedicato allo studio, molti genitori tenevano i loro figlioli incollati al tavolo per studiare da grandi. Il posto fisso, comunale, statale o nella grande industria che fosse, era la massima ambizione per le famiglie di allora.
Tempi di biglie colorate, tappi di bottiglia e ginocchia scorticate da spinte e cadute, gli anni ‘60. Stavamo scrivendo un’altra storia così distante da questi anni. Nessuno pensava a diventare una star del cinema o della tv, il protagonista di un reality o di una festa in discoteca.
Oggi non ci sono più certezze, seppure col fiato corto, come posto fisso, sacrificio, arte del risparmio e dell’onorare piccoli impegni economici.
I campi di calcio sono diventati di calcetto. Non ci sono più tornei “11 contro 11” negli oratori. Nemmeno gli sgambetti con le scuse del compagno di gioco. Oggi si imita la rissa, perché i campioni che fanno tunnel alla tv e non più dagli album di figurine, non insegnano più a sorridere, ma a picchiare senza farsene accorgere. A buttarsi in area per guadagnare rigori fasulli. Questo insegnano, oggi, gli eroi del rettangolo di gioco. Non c’è più il passaggio al portiere, nemmeno i due punti. Le regole sono cambiate: darle o prenderle, difesa o attacco. Non ci sono più le mezze misure di una volta; non c’è più il centrocampo, nel rettangolo di gioco come nella vita. Non si temporeggia più. Non si media, non si ha il tempo di fermarsi, guardarsi intorno e scegliere la soluzione migliore. Bisogna scappare, in quale direzione non importa, purché si scappi. Perché l’importante non è partecipare, ma vincere. E non importa come.
Ai tempi non c’erano pubblicità stampate sulle magliette, compagnie telefoniche da spingere, abbonamenti per il calcio in poltrona. Un calcio da ricchi che si sta impoverendo. Sono stati cancellati in un baleno due rituali: la domenica dello stadio con gli amici, e la radiolina con Tutto il calcio minuto per minuto. Quando la radio cominciava dai secondi tempi e fabbricava la storia con frasi come “Clamoroso al Cibali…”.
In quegli anni il calcio era un pretesto. Per stare insieme, coltivare sul campo un’educazione che i genitori ti davano a parole, mai a sberle. Non ti picchiavano per dirti che una cosa non andava fatta e basta: ti spiegavano, invece, perché quella tale cosa non andava fatta. Cosa avrebbe detto sennò la gente, che ci teneva sotto costante esame? Il vicino di casa che ti riprendeva, si infilava di sbieco nella tua vita, riferiva a papà e mamma, ti metteva a disagio, ma non ti faceva mai sentire solo. Oggi basta un cellulare a fare maturi e indipendenti i ragazzi. Fotografano l’impossibile, si allontanano da casa perché a dieci anni hanno l’età. Perché sono fenomeni davanti al pc e noi scapocchioni davanti alla porta.
E quando a scuola l’insegnante ti rimproverava, tirava un orecchio o rifilava una bacchettata sul dorso delle mani, perché eri ineducato, non lo riferivi a casa, altrimenti ti toccava “il resto”. I genitori non erano mai tuoi complici all’assalto delle piccole certezze quotidiane. Papà e mamma non avevano nulla da farsi perdonare. Primo: rispetto. Non era un comandamento, ma era come se lo fosse. Rispetto: per genitori, insegnanti, parroci, preti e sagrestani.
Roba d’altri tempi, cose da ragazzi casa, chiesa e pallone. Claudio Frascella
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Claudio Frascella |
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