Silvio Piola. Il senso del gol
Autore Proverbio Lorenzo, editore Mercurio, pp. 204, prezzo 40,00 €.
Piola l'inglese Mito senza tempo
Nel decennale della scomparsa, un libro di Lorenzo Proverbio ricostruisce la vita e la carriera del più grande centravanti italiano di sempre che non vinse mai lo scudetto
E' sempre improbabile anzi impossibile relativizzare un mito, per così dire umanizzarlo, e tuttavia è inevitabile se non altro per tentarne un'interpretazione. Tra i campioni del calcio di oggi, chi somiglia dunque a Silvio Piola? Ovviamente nessuno. Per la complessione fisica, fra gli attaccanti, forse il solo Luca Toni che come lui è alto, longilineo, ha le leve e il passo dell'airone ed ha attitudine a concludere con entrambi i piedi, più volentieri in acrobazia. Il paragone qui si ferma, appunto perché un mito è un mito. E tale resta Silvio Piola (1913-1996), il più grande centravanti italiano di sempre, colui che condusse insieme con Giuseppe Meazza l'Italia guidata da Vittorio Pozzo alla vittoria nel Mondiale di Parigi 1938: rivederlo nel filmato d'epoca, mentre in finale duetta con Giovanni Ferrari e Gino Colaussi nell'area di rigore dell'Ungheria di Giorgio Sarosi, un attimo prima della stoccata decisiva, così nitida da sembrare naturale, rinnova ogni volta lo stupore, l'aperta ammirazione per un calciatore che nel corso della sua lunghissima vicenda, dentro e fuori del campo, si mostrò costantemente per quello che era, vale a dire una persona sobria e civile, un uomo riservato e gelosissimo del suo universo di passioni e di affetti. Oggi costui è un mito proprio perché come tale non si comportava né avrebbe mai voluto diventarlo: un'altra persona insospettabile di simili trasporti, Luigi Pintor, ricordò una volta a chi scrive di essere andato adolescente allo stadio Flaminio insieme col fratello Giaime a una partita della Lazio solo per veder giocare Piola, confessando di essersene immediatamente
"appassionato".
Per parte sua, Piola si concesse anche l'involontario lusso, lui campione del mondo, di non vincere mai uno scudetto in un quarto di secolo di attività. Comunque il suo tabellino di calciatore ha dell'impressionante: qualcosa come 290 reti in 566 partite di serie A (due volte capocannoniere, nel '37 e nel '42); qualcosa come 30 reti nelle sole 34 gare giocate in nazionale. Nel decennale della scomparsa gli è adesso dedicato il libro
Silvio Piola il senso del gol (Vercelli, Edizioni Mercurio, pp. 204, €
40.00), una biografia scritta da Lorenzo Proverbio e corredata da un superbo apparato iconografico; le fonti sono tutte di prima mano (diari inediti del campione, ritagli della stampa locale e nazionale altrimenti inaccessibili) e si avvalgono della consulenza di Paola Piola che firma in postfazione un limpido e toccante ritratto di suo padre.
Il quale esordisce a diciassette anni a casa sua, nella Pro Vercelli, ultimo di un vivaio leggendario che annovera tra i coetanei l'ala sinistra Ferraris II (poi per alcuni anni nel Torino di Gabetto e Valentino Mazzola) e il mediano Teobaldo Depetrini, infaticabile centrocampista della Juventus anni quaranta. Schematico e perciò micidiale appare il repertorio del giovane Piola già notato da Pozzo: lo stop e un controllo sobrio senza essere ruvido, l'apertura immediata verso l'ala e lo scatto per ricevere a triangolo il passaggio: poi il tiro, da qualunque posizione e coi due piedi, di pieno collo, senza le smancerie e gli effetti chiamati allora all'ungherese; meglio ancora se la palla gli viene restituita in alto: è lì che Piola sale per la schiacciata di testa ovvero si prodiga in acrobazie la cui efficacia risulta proporzionalmente inversa all'eleganza, come nel gol segnato con la mano che simula una rovesciata durante un celeberrimo Italia-Inghilterra del '39. Troppa la sua schiettezza, la sua esemplare concretezza, per infiammare la critica degli esteti. I maggiori giornalisti del tempo in effetti non stravedono per lui: Bruno Roghi preferisce glissare, Ettore Berra (che ufficialmente è l'aedo della Pro Vercelli) ama parlarne a mezza bocca, il medesimo Carlo Berboglio, detto Carlin, sarà costretto ad una clamorosa ritrattazione. Pozzo, giornalista pure lui, si limita ai fatti e presto si accorge che, senza Piola, la sua nazionale è solamente una splendida incompiuta: anche il divo Meazza viene retrocesso a mezzala perché in trasferta gli capita spesso di disertare il vivo dell'area di rigore. A Piola no, mai.
In campo rispetta chiunque ma non ha paura di nulla e di nessuno, segna a ripetizione, con regolarità disarmante e a dispetto della congiuntura che lo vuole, dopo la Pro Vercelli, sempre in squadre di club palesemente inadeguate, di cui, volta a volta, rappresenta l'alibi e la griffe: stiamo parlando della Lazio zeppa di cariatidi (magari romaniste, vedi Ferraris IV) e di brasiliani fumogeni (vedi Fantoni & C.) in cui gioca dal '34 al '43; di una Juventus ('45-47) convalescente e un po'abborracciata cui non bastano ancora, al cospetto del Grande Torino, gli astri nascenti di Carlo Parola e Giampiero Boniperti; e infine del Novara, a un passo da casa, dove chiude la carriera giocando ben sette campionati costantemente in bilico fra serie A e serie B. Lo vide lottare nel fango del vecchio stadio novarese, sullo sfondo la cupola di San Gaudenzio, un giovanissimo Giorgio Tosatti, che così ne avrebbe scritto:
«Mi sembrava ancora più alto e grande, asciutto, nodoso, brusco e gentile. Lo vidi lottare come un ossesso in mezzo ad un mucchio di ragazzini e mi domandai perché lo facesse. Lo capii anni dopo: per il piacere di sentirsi ancora giovane, di misurarsi con se stesso, di lottare».
L'ultima istantanea di Piola calciatore è la stessa che apre l'album biografico firmato da Lorenzo Proverbio. Firenze, 18 maggio '52, poco prima dell'ennesimo Italia-Inghilterra: il capitano azzurro che esce dalla buca degli spogliatoi di fianco alla mascotte ed al mediano inglese Wright, è ormai un uomo di trentanove anni, un'età astrale per quei tempi. Sa di essere al passo d'addio e sa di rischiare tutto, compreso il suo stesso mito. Sa anche che i tifosi sono molto scettici circa quel richiamo postdatato e che la critica, come e più sempre, diffida di lui, se Gianni Brera ha appena implorato, nel suo fondo sulla Gazzetta dello sport, che si risparmi un'inutile umiliazione all'eroe di Parigi 1938. Flottando tra Amadei e Boniperti, ora da centravanti aggiunto ora da antico centromediano metodista, Piola gioca invece la partita dell'impegno più strenuo e di una superiore saggezza. In almeno un'occasione sfiora il gol. Finisce 1 a 1, non segna ma strappa talora gli applausi a scena aperta. I maestri inglesi che non è mai riuscito a battere, nemmeno segnando con la mano, alla fine si congratulano e si dicono ammirati di una classe così sovrana da risultare incurante. La stampa britannica, l'indomani, arriva a proclamarlo paradossalmente il più grande centravanti inglese di ogni tempo.
Pare che quel giorno lo scrittore Romano Bilenchi, grande tifoso di calcio e di Piola, ascoltasse la partita alla radio in un bar di operai sotto casa, nel centro di Firenze; e pare che qualcuno dei più scettici su Piola a un certo punto della discussione gli si sia rivolto con sarcasmo, chiedendogli
«Ma lei non è il Bilenchi, lo scrittore, il comunista...?»; qui pare finalmente che Bilenchi, seccato, abbia risposto
«Sì, ma inglese...». di Massimo Raffaeli
index
|