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Collasso e restaurazione di un sistema corrotto 
Autori Bruno Bartolozzi e Marco Mensurati, editore Baldini & Castoldi Dalai 331 pagine, prezzo: €. 17,00 on line €. 13,60



Quel che resta di Calciopoli
Il parallelo con Tangentopoli e la storia che si ripete, di tragedia in farsa Un anno dopo Il libro ricostruisce lo scandalo del pallone attraverso documenti, logica e dietrologia

Se volete sapere cosa è rimasto di calciopoli a quasi un anno dalla sua esplosione, oppure cosa è successo tra la nomina a commissario della Figc di Guido Rossi, il 16 maggio 2006, e la sua esautorazione, il 18 settembre, leggete Calciopoli, collasso e restaurazione di un sistema corrotto (dei giornalisti Marco Mensurati e Bruno Bartolozzi, Baldini e Castoldi, pp. 331, € 17,00 ): vi troverete il solito campionario di corruzioni e soprusi all'italiana, una trama che ogni tanto si ripete nella storia del Bel Paese. Tutto ha inizio quando, per colpa di un terzetto di procure, un mondo-sistema sorretto esclusivamente dal principio di autoreferenzialità si trova in seno una serpe non riconducibile a quello stesso mondo, uno non ricattabile: il commissario Rossi. È il terremoto. Per quattro mesi rivoluzione e restaurazione rimangono sospese tra terrore personale e furia giustizialista, con i giornali che prima buttano benzina sul fuoco, chiedendo pene esemplari, e poi, intimoriti dalla possibile reazione dei propri azionisti, alcuni dei quali figurano tra gli accusati, s'affrettano ad annacquare il tutto, cavalcando abilmente la retorica del "così fan tutti" e del "tutti colpevoli, nessun colpevole".
Ma oramai è troppo tardi. Le telefonate compromettenti, spiattellate dai giornali su inserti speciali, non lasciano adito a troppe interpretazioni. Personaggi insospettabili si rivelano correi di un sistema di controllo, corrotto quasi alla perfezione, il cui scopo è impedire la libera concorrenza di uno sport alla mercè del potente di turno. Ne «emerge il ritratto di un mondo impazzito in cui un grande imprenditore italiano può finire per chinarsi, letteralmente, davanti alla parlata sguaiata di Mazzini, o a ringraziare l'ex capogestione delle Ferrovie Luciano Moggi per un paio di rigori».
Il merito principale del libro è quello di spiegare come tutto ciò sia stato possibile. E di spiegarlo mixando in parti uguali documenti, logica e dietrologia (nel senso buono della parola). «Quello della Figc è un mondo tenuto insieme da criteri di appartenenza e non di competenza, nel quale non sono le qualità ad essere premiate, ma la fedeltà, non le idee, ma l'anzianità di servizio. Se tu stai con me vivi, se tu sei bravo e basta, non lo so. Tutti ottengono un incarico grazie a qualcuno. (...) È il grande paradosso dello sport italiano: l'ambiente dirigenziale non è competitivo, ma associativo, familiaristico, nepotistico, di clan». Per vincere non bisogna comprare i migliori giocatori. Basta ingraziarsi qualcuno che è dentro al sistema, oppure ricattarlo facendogli intendere che c'è chi è più potente di lui. «Chi sono i volti del calcio italiano? Fateci caso, sono sempre gli stessi: la famiglia Matarrese, la famiglia Carraro, la famiglia Capello, il gruppo legato a Galliani, quello dei presidenti di professione Zamparini (Venezia e Palermo), Spinelli (Genoa e Livorno) e Preziosi (Como e Genoa), gli amici di Petrucci, gli amici di Abete e poi le persone legate alla famiglia Geronzi, alle banche».
Per essere invincibile, però, il sistema non si può limitare ad una cabina di regia fedele, ma deve coinvolgere anche le possibili forme di controllo. «Sia chiaro, qui non si parla di un potere - tipicamente milanese - derivante dai soldi, dalla finanza. E neanche di un potere mafioso, con un conseguente controllo violento del territorio o del mercato. Qui si parla di un potere più meschino, più mediato, tutto romano, formale e impalpabile, figlio della fluidità dei rapporti, dei sorrisi impostati, delle terrazze piene di gelsomini. Un potere che alligna nei circoli privati o nella polisportiva Lazio, al Foro Italico. Un potere i cui affiliati si riconoscono attraverso la tessera della tribuna Monte Mario dell'Olimpico, ormai sede distaccata, ma non meno importante, del Tar e dei Ministeri, del Parlamento e del Comune, del tribunale». Non deve stupire, quindi, se «tutti gli scandali degli ultimi vent'anni per i quali si è aperta un'inchiesta sono stati trattati dalla Procura di Roma e dalla Guardia di Finanza, per poi concludersi con un nulla di fatto»; oppure se, una volta scoppiato lo scandalo, quel potere descritto dalla coppia Mensurati e Bartolozzi, abbia fatto «da volano alla schiera di quelli che intendono impedire a ogni costo le riforme»
Schiera composta anche da insospettabili. Prima che comincino i mondiali, Romano Prodi esercita pressioni per licenziare Marcello Lippi, accusato di aver favorito la convocazione in nazionale di giocatori sotto procura Gea, l'agenzia dove lavora il figlio (ma Rossi si rifiuterà di eseguirle). Poi i mondiali iniziano e la cavalcata vittoriosa si trasforma in un analgesico per l'indignazione dei cittadini. La politica ne approfitta in maniera sorprendentemente bipartisan: Veltroni scende in campo a favore della Lazio (indebitata presso Capitalia, l'Agenzie delle Entrate e il Comune di Roma), La Russa in favore di tutti; Cossiga, invece, ne fa una questione di realismo politico (gli interessi nazionali prima di tutto: quali? quelli della Nazionale in Germania, ovviamente); mentre Mastella, «tifoso permanente, ministro a tempo», utilizza tutte le sue conoscenze (Dagospia sorprenderà lui e sua moglie sulla barca di Diego Della Valle insieme a Carlo Rossella, direttore del Tg5, e Luigi Abete) per cercare di arginare il cataclisma: suo figlio è un procuratore molto vicino a Moggi.
Infine il processo: via via che si succedono le varie fasi (da Borrelli il poliziotto a Palazzi l'inquisitore, dallo scaltro giudice Ruperto fino a Sandulli e alla Corte Federale presidiata dagli uomini di Franco Carraro) le pene s'ammorbidiscono, i giornali si battono per l'indulto, i colpevoli s'atteggiano a vittime. Il Mondiale, «il jolly pescato dagli incolpati», fornisce alla stampa l'occasione per riqualificare un ancien régime che, fino alla vittoria di Berlino, si sentiva spacciato. Tutti si prodigano per impedire pene troppo severe. Poi s'attivano affinché alla «sentenza buonista (definizione di Borrelli) e squilibrata emessa da Sandulli» segua un vero e proprio dietro front. «Diversi personaggi importanti del nostro Paese si spendono per suggerire una via d'uscita morbida. Personaggi che si trovano ovunque: nei consigli di amministrazione dei grandi gruppi editoriali, Rcs in testa; nelle industrie controllate dal Tesoro, come Finmeccanica; in Confindustria; in vari Comuni, sindaci e assessori; alla Rai; e, inaspettatamente, nel cuore del governo. (...) Un curioso meccanismo di coalizione di forze tra loro naturalmente incompatibili per raggiungere pochi chiari obiettivi: frenare l'opera riformatrice, accontentare il bacino di tifosi-elettori e acquisire credito agli occhi di una parte potente di Confindustria. È la grande svolta: la politica, quasi tutta, abbandona i commissari, che non sono più di moda; la grande emergenza è passata e per l'uomo indipendente e intransigente è il momento di farsi da parte». Il tentativo di Rossi di riformare la struttura dell'ordinamento sportivo, introducendo regole per separare le varie funzioni di controllo e comando, muore lì. Forse per sempre.
L'Italia è una repubblica fondata sugli scandali, si sa. È il Bengodi dei pistaroli, dei dietrologi, di chi a pensar male spesso c'azzecca. Calciopoli non è tanto diverso da altri scandali. Rimuovere la metastasi non è stato possibile, o forse sì, ma poco importa: il libro di Bartolozzi e Mensurati descrive ancora una volta il lato peggiore del Bel Paese. Quello dominato dai familismi, dai sorrisi al veleno, dalle macchinazioni. Quello in cui le squadre di calcio sono un mezzo politico, la stampa è un'arma col colpo sempre in canna, le amicizie vincoli indissolubili, le federazioni sportive un fortino inespugnabile. Non importano i nomi (che peraltro il libro riporta i maniera molto puntuale) perché i nomi sono sempre gli stessi. Di fronte a un muro di gomma si può reagire in maniera diversa, come le tre interviste in appendice al libro dimostrano. Si può reagire come Gigi Buffon e tutta la squadra azzurra in Germania; si può agire da azzeccagarbugli, come Leandro Cantamessa avvocato del Milan; oppure si può lottare per ottenere qualche vittoria in battaglia e poi perdere la guerra, come Guido Rossi. Il quale, nell'intervista finale, dice: «Se ci pensate con attenzione calciopoli ha la stessa struttura psicologica, sociale e penale di tangentopoli. (...) Anche lì c'era un ordinamento chiuso. Valevano delle regole all'interno di quel sistema che non valevano altrove. Per questo molti di quelli che avevano commesso reati, e reati gravi, facevano fatica a comprendere che il loro comportamento aveva una carica di devianza enorme. Per questo in molti si sono affrettati a dimenticare». Tangentopoli e calciopoli, la storia si ripete. Come sempre, di tragedia in farsa. di Matteo Lunardini

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