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Vita e morte di Arpad Weisz, allenatore ebreo
Autore: Matteo Marani, editore Aliberti, pp. 207, prezzo: €. 14,00



L'allenatore scomparso
Nel 1938 l'ungherese Arpad Weisz fu costretto a lasciare l'Italia a causa delle leggi razziali. Riparò in Francia ma finì deportato ad Auschwitz. In un libro di Matteo Marani, la storia dimenticata del tecnico che fece grande il Bologna

Nel 1938, in applicazione delle leggi razziali, l'allenatore ungherese ebreo per nulla praticante Arpad Weisz venne cacciato dal "suo" Bologna. La rivista Il Calcio Illustrato - che mai eccedeva in retorica ma quando è troppo è troppo - ne dava notizia con una indifferenza che oggi ci appare quasi criminale, specie per quel condizionale da brevi in cronaca: «...dovrebbe lasciare l'Italia a causa delle leggi razziali». Il presidente del Bologna si chiamava Renato Dall'Ara, era una specie di istituzione del calcio felsineo (oggi lo stadio è dedicato a lui). Un imprenditore pittoresco e appassionato che morirà d'infarto nel 1964 alla vigilia di un drammatico spareggio scudetto con l'Inter. Dicono che lo stesso Mussolini in persona gli avesse affidato la squadra. Lo stadio era il Littoriale, il primo dei nuovi impianti pubblici nei quali il fascismo andava costruendo i rituali dello sport di massa. Era di gusto "antico romano", sovrastato da una alta torre di pietra. Certo meno avveniristico del coevo Comunale di Firenze con le tribune plasmate nel cemento armato da Pierluigi Nervi, ma altrettanto importante per il prestigio cittadino. Era di Bologna il potente Leandro Arpinati, gerarca e teorico dell'uso politico dello sport fascista. 
Che ci faceva Weisz in questa compagnia? Il suo lavoro. Quel Bologna però era suo, ben più che di tanti altri. Lui aveva scelto i giocatori, affinato la tattica, inaugurato metodi di allenamento avveniristici per l'epoca. Era "il Bologna che tremare il mondo fa". Vinse due scudetti in rapida successione. Poi continuò a vincere. Possibile che tutti si dimenticarono di quel signore elegante poco più che quarantenne così in fretta?
L'indifferenza di allora, negli anni, si è trasformata in amnesia, silenzio, forse pure in rimozione. Scomparsa la gran parte dei testimoni (giocatori, dirigenti, amici) che avrebbero potuto dire di più su questa storia, di Weisz restavano solo poche righe sui libri. «Era bravo ma era ebreo. Chi sa com'è finito», si domanda Enzo Biagi nel ricordo che fa da esergo al libro appena uscito che cerca di togliere il velo a questa vicenda. Il libro si intola Dallo scudetto ad Auschwitz. Adesso sappiamo come è finito Weisz.
L'ha scritto Matteo Marani, un giornalista del Guerin Sportivo che vive a Bologna, e che durante una ricerca che l'ha portato a Parigi e in Olanda seguendo le labili tracce della disperata fuga dall'Italia di Weisz con la famiglia, ha scoperto che l'allenatore a quell'epoca viveva in un appartamento a trecento metri da casa sua, a un chilometro dallo stadio. Ha scoperto pure che il destino ha tenuto in vita soltanto un compagno di scuola del figlio dell'ungherese: da lui ha avuto le poche e affettuose lettere scambiate tra i due ragazzini in quel tragico finale degli anni Trenta. Andò così. Espulso con gelidi atti ufficiali della Questura assieme alla sua famiglia (la moglie Elena, i due figli Roberto e Clara), Weisz riparò per un anno a Parigi. Per sopravvivere accettò l'incarico di allenatore del piccolo Dodrechtchse, in Olanda. Fece pure bella figura in campionato, ma sfortuna volle che Dodrecht fosse sulla strada dell'avanzata delle truppe naziste. Ormai in trappola, impossibilitato a fuggire o a nascondersi come altri ebrei sotto l'Olocausto, fu arrestato nel 1942 e deportato dopo pochi mesi ad Auschwitz. Morì nel 1944 ed è la parte più terribile di questa storia che nessuno potrà mai raccontare fino in fondo. Il buco nero della deportazione. 
Il libro di Marani segue la pista aperta qualche anno fa da Simon Kuper col libro sulla persecuzione dei giocatori e dei dirigenti ebrei dell'Ajax sotto il nazismo. A questo di recente si è aggiunto anche il lavoro di Nello Governato su Mathias Sindelar, il grande fantasista austriaco scomparso in circostanze (poco) misteriose durante l'occupazione tedesca. Storie tragiche nella loro ineluttabilità che, però, ad ogni pagina aprono un interrogativo, sempre lo stesso. Perché così? Perché nessuno disse niente?
Nello star system calcistico di allora, rudimentale ma già ben sviluppato, Weisz era tutt'altro che uno sconosciuto. Nato a Solt, in Ungheria, calciatore di una certa fama (giocò con la sua nazionale alle Olimpiadi di Parigi), era venuto in Italia negli anni '20 con la pattuglia dei danubiani. Austriaci, ungheresi, cecoslovacchi. Gente che pensava il calcio meglio di tutti, e si incaricava di insegnarlo al mondo: ai funamboli sudamericani come ai ragazzetti italiani tutti imbrillantinati. Nel 1935, 7 allenatori su 16 nella serie A venivano da quella scuola. Pure l'Italia campione del Mondo nel 1934 e nel 1938 deve loro parecchio. Vittorio Pozzo, il trainer italiano, conosceva bene i danubiani. E conosceva Weisz, le sue teorie, le sue innovazioni tattiche e la sua attenzione pionieristica agli aspetti della preparazione fisica. Nel 1930 aveva scritto una prefazione per Il giuoco del calcio, manuale scritto dall'ungherese. 
In quel 1930 l'ungherese aveva vinto il suo primo scudetto italiano, con l'Inter. Per capire il valore di quella squadra basti dire che ci giocavano un giovanissimo Meazza, ma anche Fulvio Bernardini e Gipo Viani, due futuri grandi allenatori della scuola italiana. Italiana, a posteriori, fu anche l'evoluzione tattica propugnata da Weisz che aveva risolto certe sventatezze difensive del Metodo con l'arretramento di centromediano e mezze ali, tracciando lo stesso schema che sarà copiato da Pozzo, e lavorando in sintonia con quanto Chapman veniva facendo col suo WM in Inghilterra.
Nel 1937, Weisz compì l'ultima impresa. Definitiva. Il Bologna travolse il Chelsea dei maestri inglesi per 4-1 nel Torneo dell'Esposizione a Parigi. Praticamente la Champions League dell'epoca. Fu un protagonista assoluto del nostro calcio, al quale il libro di Marani cerca di rendere con grande affetto, quando non lo sostengono i documenti, la memoria perduta. di Alberto Piccinini

«Mi sembra si chiamasse Weisz, era molto bravo ma anche ebreo e chi sa come è finito». Enzo Biagi

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