Torna all'elenco dei libriLa Palla al balzo. Un poeta allo stadio 
Autore Alfonso Gatto, editore Limina, prezzo €. 13,50

Una selezione di pezzi scritti dal 1974 al 1976, ma straordinariamente attuali, in cui il grande Alfonso Gatto racconta, nel suo stile unico, fresco e al tempo stesso denso di poesia, i valori, assoluti e necessari, dello sport. La palla al balzo è il felice resoconto dagli stadi d'Italia di uno dei maggiori poeti del Novecento. Il poeta di Il capo sulla neve e di Desinenze. Quel poeta che aveva recitato con Pier Paolo Pasolini stretto in una gualdrappa di lino a gelare al freddo materano nei panni dell'apostolo Andrea. Quello stesso poeta dagli "occhi aperti di sorriso, neri neri come le rondini sul mare" ora attento a riscrivere la cronaca sportiva, dopo il Giro e il Tour, cedendo al suo amore di sempre: il calcio. Il risultato è una prosa perfetta e leggera, una raccolta indimenticabile che traccia il contorno di un epoca e di un calcio in trasformazione. Che non ha ancora scritto le pagine delle imprese mondiali ma che vive nell'Italia delle bombe. E più che un movimento di nostalgia porta al lettore una consapevolezza, di quanto preferivamo quel calcio che era sì preludio di quello moderno, ma che conservava ancora la freschezza di quei calciatori con gli occhi fissi sulla coppa. Quegli occhi aperti di sorriso.

Sogni e fantasmi di un poeta tifoso
La passione per il Milan, l'ammirazione per l'allenatore Vinicio, le partite raccontate come un film di Buñuel, l'omaggio al magnifico vecchio Altafini. Filippo Trotta ha raccolto in un bel volume tutto il calcio di Alfonso Gatto: divagazioni e apologhi sul football degli anni settanta

Quando muore, sessantasettenne, l'8 marzo del 1976 nell'ospedale di Orbetello a seguito di un incidente stradale, Alfonso Gatto lascia alcune immagini precise: una grammatica poetica perfettamente riconoscibile (egli era stato un battistrada dell'ermetismo, alle cui vertiginose analogie aveva aggiunto una facoltà di canto tutta meridionale e tale da indurre per lui la definizione di "surrealismo d'idillio") nonché una fisionomia inconfondibile (dai suoi occhi chiari promanava un perpetuo bagliore) che aveva convinto Pier Paolo Pasolini ad affidargli la parte dell'apostolo Andrea nel Vangelo secondo Matteo. Alla data della morte, nel suo studio di via Margutta giacciono inediti i testi che l'anno successivo un grande critico suo amico, Ruggero Jacobbi, stamperà da Mondadori col titolo di Desinenze; ma in via Margutta c'è da qualche parte anche la minuta dell'ultimo articolo scritto da Alfonso Gatto ed è un articolo sportivo, il ritratto dell'allenatore del Napoli, Luis Vinicio, uscito il 25 febbraio su Il Giornale di Indro Montanelli che al poeta aveva affidato due anni prima una rubrica settimanale di commenti calcistici, memore forse dei reportage di ciclismo che costui aveva scritto nell'immediato dopoguerra sull'Unità diretta da Pietro Ingrao.
Tutto il calcio di Gatto, poco meno di due campionati, viene ora raccolto nel volume La palla al balzo. Un poeta allo stadio (a cura di Filippo Trotta, prefazione di Gianni Mura). Si tratta appunto di una serie di riflessioni, divagazioni e apologhi (con qualche memorabile affondo in prosa d'arte: «I pomeriggi si fanno lunghi. L'aria rabbrividita dagli ultimi freddi è già luminosa e trasparente dopo le acquate di marzo. C'è una luce di dolce crepuscolo sul campionato») di colui che, da sempre tifoso del Milan, dicono tenesse nello studio un poster gigantesco di Gianni Rivera. Ma il Milan di quegli anni gli può solo dare malinconia e depressione. Rocco se n'è appena andato e lo stesso Rivera è al tramonto pure se gli scalpita vicino un'ala sinistra di tecnica sopraffina ed estri sulfurei, quel Luciano Chiarugi che se avesse avuto maggiore raziocinio e minori trovate da saltimbanco avrebbe di sicuro rinnovato il mito di Raimundo Orsi. Non va molto meglio la nazionale, reduce dalla disfatta di Monaco '74 e affidata, in attesa di Enzo Bearzot, a un signore composto, ex campione di limpida classe e già teorico del calcio all'inglese, Fulvio Bernardini, il quale pesca a piene mani nel vivaio ma non può disporre, ovviamente, né di Beckenbauer né di Cruyff: al loro posto, infatti, deve far giocare Rocca, Orlandini, Zecchini, Furino e una lista infinita di quidam de populo. Gatto non arriva all'aperta deprecazione ma se ne avverte ad ogni riga il fastidio, quasi l'insofferenza per un gioco ormai solo capace di creare miti artificiali e di moltiplicare a oltranza il monte premi delle scommesse. In campionato la Lazio, reduce da uno scudetto insperabile, vivacchia insieme con le milanesi mentre la Juventus, guidata da un suo uomo di sempre, Carlo Parola, sembra avere un solo contendente, proprio il Napoli di Vinicio che dal gioco olandese mutua la tattica del fuorigioco e il dispendioso pressing che gli guadagna i sospetti e le acri ironie di Gianni Brera.
Gatto punta sul Napoli ma deve incassare un colpo basso perché la Juve, il 15 dicembre del '74, sbanca addirittura il San Paolo. Il Napoli annovera diversi campioni ma troppo vecchi e logori ormai (Burgnich e Landini in difesa, Totonno Juliano e centrocampo, il magnifico Clerici in attacco) per sopportare, alla lunga, le girandole e il moto perpetuo vagheggiato dal loro allenatore (uno che peraltro, detto O Lione, quando giocava, lungo e dinoccolato com'era, si muoveva pochissimo e viveva, cioè segnava, di torsioni acrobatiche e stoccate sornione). La Juve non è ancora la squadrone di qualche anno dopo ma ci giocano intanto Zoff e Gentile, Scirea e Causio, Capello e Bettega, oltre a una mezzala, Fernando Viola, di classe purissima, che avrà carriera diseguale e vita purtroppo molto breve. Completano l'attacco un'ala vecchio stile e d'animo pusillo, Oscar Damiani, e un centravanti redivivo acquistato anni prima dal Napoli per fare la riserva, nientemeno José Altafini, trentasette anni, campione del mondo col Brasile nel '58 e d'Europa col Milan nel '63. Di solito gioca un tempo o al massimo un'ora però è ancora capace, a momenti, di risfoderare il proprio repertorio, specie lo stacco di testa e la conclusione (indifferentemente coi due piedi) in corsa o al volo.
Quel 15 dicembre alla fine del primo tempo il Napoli è già sotto di tre gol, piegato da una Juve che si affida al più classico dei contropiede; la partita finisce con un umiliante 6 a 2 per i bianconeri. A Gatto, costernato, fa venire in mente il film appena uscito nelle sale italiane di un surrealista suo pari, Il fantasma della libertà di Luis Bunuel: «La partita della Juventus a Napoli è stata scritta, sceneggiata e girata con la regia di Bunuel. Il Napoli era chissà dove a divertirsi, forse in crociera, eppure era in campo come se ci fosse veramente. La Juventus per trenta minuti è andata in cerca di difficoltà che proprio non trovava, e Bettega riusciva a volare credendo di volare, Altafini segnava credendo di segnare, Causio indovinava i passaggi, lo stesso Furino - miracolo - trovava i compagni col piede giusto (...) La libertà era un fantasma per tutti ed era proprio questa ventilata ebrietà del sole e del vento a farci credere che si potesse essere lì, sul campo, e altrove. Il Napoli era come la bambina del film. Prendendone tante, voleva vedere fino a che punto la Juventus avrebbe creduto di giocare e di segnare sul serio».
Nella partita di ritorno e decisiva per lo scudetto (6 aprile del '75, a Torino) è di nuovo Altafini, con una beffarda toccatina in mischia a due soli minuti dalla fine, ad affondare il Napoli. Gatto, mimando il medesimo Altafini, non se ne dà per vinto ed apre in questo modo la rubrica: «Chi vince ha sempre ragione, anche in tempi di democrazia, non basta che il vincitore voglia farsi forte del suo spirito critico e riconoscere all'avversario l'onore del merito. Checché faccia o dica, non riesce a spogliarsi dei vantaggi che sono stati serviti in tavola dalla buona sorte. Sarebbe lo stesso che la Juve volesse riconoscersi nel proprio nome da ventenne dopo che il piede del magnifico 'vecchio' è servito a salvarle la faccia, la partita e, forse, lo scudetto». Negli ultimi numeri della rubrica, sazio della Juve ma ormai anche del Napoli, il poeta afferma di puntare sul Torino, quello di Radice (ma anche di Graziani, Claudio Sala e di Pulici) che vincerà lo scudetto nel maggio del '76. Non gli viene concesso di festeggiarlo: la morte se lo porta via due mesi prima, crudele fino ad essere sbadata come in un film di Bunuel. di Massimo Raffaeli

Alfonso Gatto, Salerno, 17 luglio 1909 - Capalbio, 8 marzo 1976, poeta tra i maggiori del Novecento italiano, giornalista, critico d'arte. L'ermetismo riconosce in lui uno dei più accesi tra i suoi protagonisti. Oltre a numerose raccolte poetiche, tra cui ricordiamo Isola, Il capo sulla neve, Poesie, rimane di lui un'immagine di poeta coinvolto dal tumulto della vita, ma sempre lieto di fissare nella memoria ogni emozione in una lingua ricca di motivi e di sorprese nuove.
Questa raccolta, oltre che degnamente introdotta dal grande Gianni Mura, è curata dal nipote del poeta, Filippo Trotta. Nato nel 1972 a Salerno, dove vive, è da anni attento nella diffusione dell'opera del nonno, oltre che organizzatore di eventi.

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