Torna all'elenco dei libriStella Rossa 
Autore Mellini Stefano, Editore Fernandel, pagine 124, prezzo: €. 12.00

Stella Rossa è la squadra di calcio di un quartiere popolare, una squadra perdente, di terza e ultima categoria. Sul campo da calcio, i ragazzi della Stella Rossa giocano ogni domenica per dimenticare da dove vengono: quella periferia rabbiosa in cui le loro vite si snodano ai margini della legalità, fra carcere, droga e risse di quartiere. Ma a metà di un campionato nel quale Stella Rossa comincia sorprendentemente a vincere, ad Hamir, immigrato marocchino e leader della squadra, non viene rinnovato il permesso di soggiorno. Durante un controllo, il ragazzo viene rinchiuso nel Centro di permanenza temporanea della città. Alcuni dei componenti della squadra decidono allora di liberarlo con la forza, e sarà questa per Stella Rossa la vera occasione di riscatto. 

L’autore Stefano Mellini ha 36 anni, è nato a Ravenna ma vive a Bologna. Per lavoro si occupa di marginalità, tossicodipendenza e immigrazione clandestina. Stella Rossa è il suo secondo romanzo, dopo l’esordio pubblicato da Fernandel con il romanzo Sorrisi di cartone (2003).

Come inizia:

Settembre di pioggia. Dalla finestra dello spogliatoio le voci si accavallano. Gocce tiepide, ancora estive, picchiettano sulla gomma della borsa: Stella Rossa! Lancio un’occhiata pigra dall’altra parte del campo. Qualche fesso che la domenica mattina non ha voglia di tirare calci alle lattine vuote per le vie del quartiere è già seduto sulle tribune di legno a tre gradini. Davanti al cancello con le inferriate verdi, Bomba bestemmia e dice che devo sbrigarmi perché sono l’ultimo. «E spegni quella sigaretta, minchione, che non hai fiato neanche per farti una sega».
Da quando ho memoria, Bomba è il custode di questo campo da calcio incastrato tra i palazzoni popolari. Lui non taglia l’erba, pettina il campo, dice, ed è lì ad ogni ora, gesso in mano per le righe, palloni da gonfiare, maglie stese ad asciugare, straccio per scrostare il fango dalle piastrelle degli spogliatoi. È un solitario, Bomba, non so se per scelta o per destino. Sta di fatto che fuori da questo campo non lo incontra mai nessuno, chessò, per fare la spesa, comprare il giornale, bere un prosecco al bar. Vive solo, ed è il custode. Questo è quello che si sa di lui, ed è abbastanza. Stringo il filtro fra il pollice e il medio, sparo la sigaretta pochi centimetri sopra i suoi capelli bianchi. Mi assesta una pacca a mano aperta sulla nuca. «Tanto oggi ti bagni il culo in panchina». Chiude il cancello alle mie spalle ed entra nel suo sgabuzzino, un anfratto di cemento armato tappezzato di foto in bianco e nero, un paio di coppe su una mensola di legno, una cesta di palloni, una di casacche da allenamento, una pila di giornali porno.
Nello spogliatoio gli altri si stanno cambiando, pantaloncini della divisa e camicia della sera prima, maglia Stella Rossa, jeans. Le facce sono quelle di sempre, gente sbattuta dal sabato notte, col segno del cuscino stampato sulla faccia, gente che si sveglierà del tutto solo con le urla del mister. Sandro mi fa spazio sulla panca di legno.
«Oggi comincia il campionato», sta strillando il mister, «e lo sapete cosa vuol dire?» Le pupille di Max sono ancora lievemente dilatate dall’ecstasy, Luca ha la faccia bianca da vomito, Bisio sta pisciando birra sulla turca con la porta aperta e il culo verso la squadra. «Lo sapete o no?» Mimmo e Beppe scimmiottano l’allenatore alle sue spalle. «Vuol dire che sono stufo di farmi prendere in giro da tutte le altre squadre della città!» Chiedo a Sandro come mai non c’è Flash. Sandro incrocia i polsi imitando il gesto delle manette. Sussurro: «Quando?» «L’altra sera, lo hanno beccato con venti grammi di fumo e se lo sono caricato». «Cazzo! E chi gioca a centrocampo?» Alza le spalle per dire che sono problemi del mister. L’allenatore si volta verso la lavagna e continua a strillare. «Alle prime due sconfitte consecutive mollo tutto e la domenica vado a pesca!» Prende un gesso nuovo e lo fa stridere contro la superficie nera. Brividi fastidiosi sulla pelle. Il gesso si spezza, lui tira una madonna e continua a scrivere col mozzicone che gli resta fra le dita.
Ancora un campionato, ancora Stella Rossa. Un’altra serie di domeniche a pestare fango, a inzupparsi di pioggia, a sputare erba, a sudare sotto il sole. Da dieci anni, ogni volta che finisce il campionato io e Bruco ci guardiamo in faccia e diciamo: «È stato l’ultimo. La prossima stagione non se ne parla neanche». Poi arriva la telefonata di Bomba, il custode, il 16 agosto alle otto di mattina, puntuale. Me lo immagino aprire il campo alle sette, la mattina dopo ferragosto, spargere le fontanelle a spruzzo sul prato seccato dal sole e tirare la leva dell’irrigazione, un maniglione di metallo attaccato al muro che assomiglia all’interruttore delle luci di un teatro. L’acqua inizia a gorgogliare attraverso i tubi di plastica, e dopo qualche secondo una ventina di getti vengono sparati in aria simultaneamente. È l’inizio di una nuova stagione.
Bomba ha un telefono personale, fissato al muro con due ganci e chiuso con un lucchetto. Tira l’ultima boccata alla sigaretta mentre osserva le fontanelle formare piccoli arcobaleni artificiali, spegne il filtro con il tacco della scarpa, toglie il lucchetto al telefono. Alcuni dicono che goda a farci saltare giù dal letto a quell’ora di mattina, ghigno in faccia e rubrica in mano.
No, io, Bruco e Bisio non c’entriamo più niente con la Stella Rossa, con questi palazzoni di cemento, con il quartiere, con le sirene della polizia, con l’ecstasy e la coca, con i pugni, le vetrine in frantumi, le bottiglie vuote. Da un bel po’ di tempo siamo da qualche altra parte. Però quel richiamo sembra irresistibile, la voce di Bomba che interrompe il sonno, che entra nelle nostre vite come un incubo lontano la prima calda mattina dopo ferragosto e sussurra: «Convocato!» Non dico niente, torno a letto e mi ributto sulle lenzuola sudate, mi giro dall’altra parte e cerco nuovamente di dormire. Ma non è lo stesso sonno, non lo riacciuffo più così com’era. Anche quest’anno non ho detto no. Stella Rossa del cazzo…

Il mister elenca nomi e numeri, mentre disegna sulla lavagna un labirinto di linee che vorrebbero essere schemi di gioco. Poi entra il presidente, quello che sgancia gli euro dell’iscrizione, quello che fa stampare a caratteri bianchi sulla maglia rossa la scritta "Landi Alimenti". Il mister lo saluta con un attimo di deferente silenzio e poi riprende a far ballare il gesso impazzito.
Formazione schierata. Appello dell’arbitro e corsa a centrocampo. In tribuna tutte le facce note del quartiere, il maresciallo Sacco sotto l’ombrello a braccetto della consorte, una decina di vecchietti del centro sociale, un paio di tossici, don Vincenzo e qualcuno del bar. Una trentina di persone in tutto. Gli aficionados di Stella Rossa.
Sono strane le prime partite di ogni campionato, di solito goffe, timorose. Passa un po’ di tempo prima di ricordarsi che per giocare si deve sudare, prima di poter di nuovo intuire i rimbalzi del pallone, i movimenti degli avversari. È come il primo giorno di scuola, quaderni bianchi, biro nuove, diario immacolato, profumo di stampa, ma la testa è altrove e la mano disabituata scrive a fatica.
Il mister urla frasi senza senso e fuma una sigaretta dietro l’altra. «È dalla prima partita che si vedono le squadre con le palle!» Di solito è un massacro, una mattanza. Vengono nel quartiere, chiudono con cura le loro belle macchine dopo aver estratto i frontalini degli stereo, scendono in campo e se ne vanno coi tre punti in tasca, sollevati all’idea di non dover mettere più piede da queste parti per un altro campionato. Sportivamente, non facciamo paura a nessuno. Per tutto il resto, facciamo paura eccome.

Il primo tempo si chiude a reti inviolate, ed è già un risultato. Negli spogliatoi qualcuno piscia, alcuni bevono, molti scatarrano nel cesso. Hamir se ne sta in silenzio sulla panca di legno, si concentra. Forte il ragazzo, l’unico che potrebbe giocare in una squadra vera. Lo hanno richiesto diverse squadre di prima categoria, ma lui rifiuta sempre. Ostinatamente. «Chi te lo fa fare di restare a giocare qui? Non siamo mica in Marocco, Hamir, quelli pagano…» Lui sorride tranquillo e alza il dito medio.
Il cuore trotta impazzito nel petto. Sandro mi passa una bottiglia di plastica semivuota, la finisco a collo. Non abbiamo neanche la forza di fiatare, il mister continua a strillare per conto suo, non lo ascolta nessuno. Fuori non piove più, in cielo si è aperto un enorme squarcio sopra il campo. Ci guardiamo in faccia. Ma chi cazzo ce lo fa fare? Che si prendano i tre punti e si tolgano dalle palle.
«Scusi, mister». Hamir alza la mano come a scuola. È il capitano, e lo è veramente. Mai un’ammonizione, una protesta, un brutto fallo. Quando iniziano a volare i primi pugni – succede spesso – si sposta sempre a qualche metro di distanza. Non si sporca le mani, dice che Allah ci ha dato le mani per lavorare e pregare, non per picchiare.
«Mister, che ne dice se nel secondo tempo mi sposto a sinistra? Sono scarsi da quella parte».
Il mister tira su i pantaloni della tuta a mezza pancia, si gratta la testa; Bisio alle sue spalle spara un rutto da artificiere. «Va bene! Rocco, tu ti sposti in mezzo e Sandro a destra».
«No mister, lasciami stare», si lamenta Sandro, «il cuore non regge, non ne ho più voglia di correre, metti su Razzo che si allena sempre, non fuma e non gioca mai».
Hamir mi batte una mano sulla spalla. «Ok», dico. «Ma non credo di arrivare alla fine, quando non ce la faccio più chiedo il cambio». Il mister mi guarda, sta per urlare qualcosa tipo sergente dei Marines, attributi, vincere e vinceremo e qualche altro slogan che usa da vent’anni, ma Bomba dà due colpi alla porta dello spogliatoio. «In campo, che l’arbitro aspetta solo voi».

Il terzino che mi marca è grosso, coi capelli rossicci e le lentiggini, il viso tirato per lo sforzo. Lo guardo in faccia da vicino, lo fisso negli occhi. Fa il sostenuto, ma si vede che ha paura. In un contrasto mi si avvicina talmente che sento la sua puzza di sudore. La palla è alta, saltiamo insieme ma lui mi trattiene per la maglia. Gli allungo una gomitata sul naso. Prima ammonizione della stagione. Si mette le mani sul viso, ma non dice niente. Continuo a fissarlo mentre il suo compagno batte la punizione. Evita il mio sguardo. Dev’essere uno studente o qualcosa del genere, di quelli che hanno le mani lisce e senza calli. Durante la settimana si potranno vantare di quanto sono stati coraggiosi a venire a giocare qua. «Avevano delle facce quelli, gente da coltelli e galera, da sbattere dentro e buttar via la chiave», e intanto mangiano un hamburger, coi libri posati sulla sedia a fianco. Mi fanno rabbia, non ci posso fare niente. Mi avvicino e gli dico con calma: «Bella la tua macchina; l’hai chiusa bene?» Mi guarda come se l’avessi appena menato. La palla è giù in difesa, fra i piedi di Bruco, lontana una cinquantina di metri. Il gorilla con le lentiggini guarda il suo compagno, come a dire: "Lo senti quello che sta dicendo?". L’altro scrolla le spalle. «Non dargli retta».
Bruco taglia tre quarti di campo con un lancio senza senso. Scatto in mezzo ai due difensori che stanno ancora pensando all’antifurto della macchina. Salto un decimo di secondo prima di quello con le lentiggini.
Sento l’impatto del pallone sulla tempia, lo schiaccio a terra, la palla schizza sull’erba bagnata al di là della difesa. Hamir è una gazzella nera che vola leggera verso il pallone, la sua maglia rossa sembra vuota, incurvata dal vento. Il portiere gli corre incontro ma è pesante, molto più pesante di Hamir. La gazzella gli scivola accanto col pallone incollato ai piedi, e la porta gli si spalanca davanti. Hamir si gira per un momento a fissare il corpo del portiere, steso sull’erba in una posizione innaturale. Accarezza la palla col sinistro, la rete si gonfia, soffice.
C’è un attimo di silenzio. Cosa sta succedendo?, è la domanda stampata sul volto di tutti. Il maresciallo Sacco e il mister rompono il silenzio con un grido all’unisono. Effetto stereo, uno sulla panchina l’altro in tribuna, dalla parte opposta del campo. Sono tutti addosso ad Hamir. Io rimango imbambolato in mezzo ai due terzini immobili.
Uno che ha sentito il grido stereofonico esce dal bar con un Campari in mano, un paio di ragazzini si affacciano da un balcone scrostato e don Vincenzo apre le mani verso il cielo. Non è un miracolo, ma qualcosa di molto simile. Il rosso con le lentiggini mi guarda con odio dall’altra parte del centrocampo.
Sorrido, mentre Sandro mi batte un cinque a mano aperta. Mancano venti minuti alla fine e la partita diventa cattiva, ma quando le partite diventano cattive c’è una sola squadra in campo: Stella Rossa.

Mi dà una sensazione molto simile alla tenerezza, vederci schiumare con la bava alla bocca. Stiamo qui, in mezzo alle scintille, a tenerci stretti questi tre punti quasi fossero quelli che servono a pareggiare il destino. Il mister urla e si sbraccia impazzito, ogni due boccate isteriche getta la sigaretta e ne riaccende un’altra. Nessuno lo caga ma continua a fare il duro, anche se si vede che il più incredulo è proprio lui. Max ha smaltito l’ecstasy ma non l’adrenalina, e si butta nei contrasti come un kamikaze. Bisio suda birra da tutti i pori ma non molla, Mimmo sgomita e calcia come un puledro nel recinto, Bruco salta due spanne più di tutti, Sandro cerca Hamir ogni volta che si trova la palla tra i piedi, Hamir la stoppa, la controlla, la difende con eleganza e la fa scivolare verso di me come una biglia sul velluto verde. Ce l’ho tra i piedi quando l’arbitro fischia tre volte. Fine partita. Qualcuno si abbraccia e qualcuno stringe la mano all’arbitro. Io me ne sto fermo a godermi lo spettacolo.
Mi giro verso la tribuna. Gli spettatori sono quasi il doppio di quando abbiamo cominciato, le voci nel quartiere ci mettono niente a circolare. Il maresciallo Sacco sta facendo il giro della recinzione per venire a complimentarsi negli spogliatoi; trascina con sé la moglie, sempre attaccata al braccio. Don Vincenzo se ne va verso l’uscita con un paio di bambini che gli ronzano intorno alla tonaca, Spada gira dalla parte opposta con un cacciavite che gli sporge dalla tasca del giubbotto di jeans, la sigaretta penzoloni dalla bocca. È normale, è il momento migliore per fare una visita alle macchine degli ospiti. Per un attimo ci guardiamo negli occhi, Spada mi sorride. Scuoto la testa per dire "no, lascia perdere per oggi". Si ferma, alza il pollice per dire che ha capito. In fondo hanno lasciato sul campo tre punti, non si può rubargli anche lo stereo…
Sfilo per ultimo davanti a Bomba, il custode, ancora impalato di fronte alla porta delle docce. Negli spogliatoi è pura euforia. Questa volta sotto la doccia ci vola anche il mister, vestito. Euforia Stella Rossa!

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