Torna all'elenco dei libriI confini di Torino
I campetti da calcio dimenticati e le sfide fra ragazzi di una città dove la Juve è storia e il Toro è mito. In un bel libro dello scrittore granata Dario Voltolini, «I confini di Torino» (Quiritta), tutta la beata inconsapevolezza del pallone. Giocato fra radure improbabili, cappotti, pile di libri e genitori che in campo fanno sempre gol e fuori fischiano la fine

La metafisica del moderno si inaugura con la parola d'ordine baudelairiana secondo cui solo in fondo all'ignoto sta il nuovo; può scoprirlo il vagabondo, o flaneur, portandosi a zonzo per la città, nel perfetto anonimato della folla: solo allora gli potrà comparire, casualmente, insieme con il volto di una donna, il segno distratto della conoscenza, e, parola temeraria, della verità. Nella ricognizione della propria città (che presiede alla nascita della sua stessa narrativa, con Una intuizione metropolitana, Bollati Boringhieri,1990) Dario Voltolini rigetta il credo labirintico dei modernisti e sceglie la figura del viandante, tanto estranea al disperdersi erratico nella metropoli quanto invece è prossima ai ritmi severi e alla netta geometria di Torino. Se infatti il flaneur invoca una mèta quasi per superstizione, come procedendo nel vuoto, il viandante è persuaso che la mèta esiste, ne ha parziale esperienza, e si muove per aggiustamenti, per continue approssimazioni. Questo è il senso che informava, alla maniera di un giornale di bordo e di una guida sentimentale, l'introvabile In gita a Torino (Gribaudo-Paravia 1998) e che ora si rinnova, in termini esattamente complementari, con il bel volume, di prossima pubblicazione, I confini di Torino (Quiritta, pp.113, s.i.p.). Ne sono oggetto i luoghi percepiti di solito come non-luoghi o semplici tramiti, da cui si accede ovvero si esce dalla città; opache e convenzionali paratìe, che il ciclista o l'automobilista distratto sarebbero portati a trascurare, anzi a non vedere: e sono luoghi, tuttavia, in cui storia e natura si mescolano predisponendo fondali imprevisti, ambigui margini, ora simili a un confine ora a un punto di frontiera e ad una terra di nessuno. Dove sterpi e forme elementari di metallo e cemento entrano in fusione, si appunta lo sguardo di Voltolini appagando l'attitudine analitica di una scrittura adesiva al dettaglio, fissa all'invadenza del particolare (nella pagina non c'è mai un totale, magari sbrigato all'ingrosso, ma sempre un particolare che si dilata richiamandone un altro e perciò al totale allude, per sineddoche) con effetti che qualcuno avrà tacciato di minimalismo e sono invece di paradossale iperrealismo, quando qualcosa tocca, richiama l'attenzione, ma pur sempre si mantiene nel campo visivo, si lascia circoscrivere e via via decifrare, con progressiva naturalezza, con sobrietà. Tra i luoghi persi di Torino (nella duplice accezione di sperduti e dimenticati), fra terrains vagues, «sterpi infracomunali e vegetazioni di confine», imminenti sul perimetro della città, i campetti da calcio hanno il ruolo del genius loci. Le casuali e interminabili partite fra ragazzi che al viandante è dato di vedere, oppure ricordare, tornano in effetti quali spazi intatti dell'immaginazione, emblemi di una libertà e di una gioia estinta o presto deperibile. (Spazi che sono intangibili e pertanto, a loro modo, sacri. Ecco l'esempio di un'antica partita, a Venaria: «Qui, in un momento che mi è impossibile circostanziare, ho rubato palla a uno molto più grande di me che aveva un passato da calciatore. Ho finto di lasciarmi dribblare, ma ho allungato una gamba dietro e col tacco gli ho soffiato il pallone. Me ne sono andato verso la porta, ma vedendo che stavano per contrastarmi almeno due avversari, ho calciato con la punta, sgraziatamente, mirando una finestrella lontana dal portiere, rasente il palo. Ma quello, con un tuffo si è allungato e l'ha presa. Era una partitella, ma giocavano anche mio padre e il suo fratello più giovane»; ed eccone un'altro, riemerso col batticuore d'un ricordo vivido, dal campetto della Savonara: «A proposito: in un campo qui vicino, che non riesco, passando rapido, a stabilire se esista ancora, ho fatto un giorno fallo su mio padre, a centrocampo. Poi, prima di andare via, lui ha segnato. Io invece avevo creduto, durante la partita, di sentire un fischio e così avevo preso la palla in mano, in area. Rigore.»).

Del resto aveva scritto nel libro d'esordio che giusto nelle partitelle fra ragazzi cominciavano a chiarirsi per lui i legami («abissali nessi», aveva precisato) fra realtà e immaginazione, presente e utopia; anche per questo il calcio, specie il calcio iniziatico, puberale (giocato ai giardinetti, nelle radure più incredibili, coi cappotti e le pile di libri a mimare i pali delle porte) è così importante nella narrativa di Voltolini da manifestarsi quale cornice primaria, persino fatale, di un eterno romanzo di formazione. In questo, i luoghi persi o periferici di Torino stanno allo spazio come le partite fra adolescenti stanno al tempo: rappresentano l'oggetto perduto (una perfezione irredenta) che è compito del medesimo romanzo di formazione ritrovare, o sfatare, o deliberatamente cancellare; così si dica delle icone e leggende di campioni che da sempre fecondano l'immaginario giovanile, imponendo modelli che si sanno inattingibili e, allo stesso modo, gesti di struggente mimetismo: basti pensare all'Omar Sivori cui lo scrittore, tifosissimo del Toro, rende omaggio a muscoli tesi in Forme d'onda (Feltrinelli, 1996), il libro che più lo rappresenta, quanto ad assortimento ed articolazione delle scritture. Ma al calcio, alla sua Bildung e mitologie, Voltolini ha dedicato di recente una raccolta (10, Feltrinelli, 2000) che andrebbe riletta con attenzione. Libro-campionario, 10 è stretto intorno al proprio numero, calcisticamente cabalistico, alternando il racconto, il reportage, la nota filologica, l'intenerita pagina di diario. Dentro ci sono tutti: il calciatore mancato, l' infelice che un giorno schiude la crisalide e diviene un grande portiere, gli inglesi dell'arcaico Genoa, il pallone di carta e stracci, Gianni Brera, l'emulo di Borel II detto Farfallino, ancora Sivori con Platini, l'ineffabile e ormai tormentoso Italia-Germania 4 a 3, il genoma che divide la Juve dal Toro («Dove la Juve è storia, il Toro è mito. Se il potere è bianconero, la rivolta è granata»), lo schianto di Superga restituito in assenza, con le parole di un filosofo beatamente preso nel suo vuoto, assurdamente ignaro della tragedia. Ciò che non muta è il nitore della scrittura, il giro ellittico di frase ad altezza dello sguardo, che non è affatto segno di prudenza o avarizia, ma semmai di pudore, di rispetto per le cose e le occasioni che ci sono date; come non può mutare, mai, l'atmosfera che intride l'ultimo racconto del libro, intitolato Finale di partitella, un racconto esemplare: «Non è mai bastato sapere che domani si potrà di nuovo essere lì a giocare, per lenire la puntura di questa spina che alla sera punge chi interrompe il gioco».

Magri alberi, ghiaia e rena, forse qualche panchina, uno spiazzo da rubare a chi passa frettoloso (massaie con la spesa, pensionati, adulti distratti) mentre mezzogiorno chiama a casa, o la luce ormai scarsa chiude insieme la partita e la giornata; ragazzi sudati, perplessi, che debbono andare ma non vogliono, adesso delusi, letteralmente portati via, strappati alla beata inconsapevolezza del gioco: è li che il viandante ritorna, presago, ostinato, fedele a un luogo primordiale, da cui, in cuor suo, mai s'era davvero allontanato. 

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