Invasione di campo
La febbre nostalgica del diavolo. La Milano degli anni settanta, le scaramanzie di un milanista stranamente breriano, lo scudetto della stella e la sopravvivenza a Berlusconi. In un bel libro di Mauro Raimondi, «Invasione di campo», le angosce più inspiegabili di un qualunque tifoso di calcio e i mille motivi per cui il pallone è la cosa più importante delle cose meno importanti
Trentaquattro anni
fa, Johan Cruyff scoprì suo malgrado Prati e Rivera. Otto anni fa, il
diciassettenne Patrick Kluivert entrò al 68' al posto di Litmanen e, a
6' dal termine, colpì il Milan due volte (la prima, segnando; la
seconda, facendosi comprare e rifilandogli un «pacco» mica da ridere).
Queste cose, sicuramente, Mauro Raimondi se le ricorda bene. Ieri sera,
guardando la partita dei quarti di finale di Champions League
Ajax-Milan, ci avrà ripensato. Con il suo Fever Pitch, non meno
di Soriano e Galeano, Nick Hornby è stato decisivo propulsore di quella
dilagante «letteratura sportiva» brutalmente stroncata, in tempi non
lontani, dal Nobel Saramago, per il quale il calcio è il «panem et
circensem» con cui il potere di oggi, emulo degli antichi romani,
ammansisce e istupidisce il popolo. C'è però chi, il calcio, sa ancora
usarlo e plasmarlo a piacimento proprio. Magari, come chiave di
lettura del sociale, di un'epoca. Di una vita. Hornby, appunto. E
Mauro Raimondi (appunto). Che, da poche settimane, ha fatto uscire il
suo primo romanzo, Invasione di campo (Limina,
pp. 232, Euro 13,50).
Le note lo definiscono «il Febbre a 90° italiano, anzi
milanista». Il paragone ci sta, ma va circostanziato. Come Hornby, il
quarantaduenne Raimondi narra la propria esistenza usando, come sfondo
emotivo-cronologico, le gesta del suo Milan. Il fatto che qui si
parli di San Siro e non di Highbury, non è però l'unica differenza tra
i due romanzi. Rispetto all'esempio inglese, Raimondi sottrae ironia
(che pure c'è), scegliendo più spesso i toni malinconici della
memoria. E, non di rado, la nostalgia si fa tragedia. E' un libro
doloroso, Invasione di campo. Parla di calcio, ma non è un libro
di calcio. E' dichiaratamente autobiografico, ma l'esperienza
dell'autore-protagonista è tale da potersi estendere a qualsiasi
lettore (non necessariamente quarantenne e rossonero).
Quello di Raimondi è un outing spudorato, estremo. L'autore si
racconta interamente, in una sorta di seduta psicanalitica tra sé e il
mondo. E' vita vissuta, quella del libro. La vita di un bambino
come tanti, che scopre il calcio grazie a un padre prima idealizzato,
quindi malinteso e infine definitivamente riabbracciato. La sua
adolescenza, quel senso di perduto per certe amicizie lontane, di
cui non si è dimenticato importanza e candore. L'amore prematuro e
complicato con Laura, la laurea in scienze politiche, un lavoro
(insegnante di geografia) trovato per caso e amato col tempo. L'unione,
esigente e definitiva, con la «Fidanzata», dal primo rifugio (il «Castello»,
battezzato con un gol di Verza in un derby con l'Inter) alla casa di
Gorgonzola. Sullo sfondo, il calcio.
Raimondi è abile nel ricostruire la Milano dei Settanta, i suoi ritmi,
i suoi umori. Così come, tra fatal Verona e Scudetti della Stella
festeggiati da solo (segno ulteriore della fine di un'epoca,
oltre che di un decennio), è puntuale nel descrivere quei rituali
immutabili di ogni tifoso: le scaramanzie, le radiocronache evitate, le
angosce più inspiegabili (specie a chi, come la «Fidanzata»,
il calcio non lo ama e non lo intende). Giovanni Valsecchi (il nome
dietro cui, nel libro, si cela l'autore) è un milanista stranamente
breriano e non riveriano, che si diverte a lanciare anatemi contro «bauscia»,
«gobbi», romanisti e napoletani (indimenticabile la «maledizione»
all'allora portiere del Napoli, Luciano Castellini, «indiretto»
responsabile della seconda retrocessione del Milan).
Più ancora dell'aspetto sportivo del libro, che funge da agente
sdrammatizzante («il calcio è la più importante delle cose meno
importanti»), Invasione di campo colpisce per il coraggio.
Il coraggio di chi non nasconde anima e idee. Raimondi si indigna per le
mattanze di Genova («l'omicidio di Carlo Giuliani non fu che l'ennesimo
nel mio cimitero di giovani uccisi dai fascisti o dall'ordine pubblico»),
non si riconosce in Berlusconi («Comunque sia, il Milan gli sopravviverà»)
e, sull'11 settembre, ha un'idea di minoranza («quelle 2800
creature si sommano solamente a tutti quegli innocenti che crepano ogni
giorno senza clamori, vittime dell'Occidente e del loro sfruttamento»).
Il coraggio di una lingua secca, che sa dipingere, specie nei break in
cui la Storia travolge la storia, quadri vividi (i funerali di
Berlinguer, la tragedia di Cernobyl, il suicidio di Primo Levi). Il
coraggio di nuovamente affrontare il ricordo del padre, anche lui
milanista: «l'Ildebrando».
Descrivendone il rapporto - la sua unicità, la sua difficoltà, la sua
fine - Raimondi scrive pagine accorate e vibranti. E commuove. Per i petit
cadeau sporadicamente concessi dalla quotidianità (la vittoria del
Milan in Coppa dei Campioni nel '94 contro il Barcellona di Cruyff:
l'ultimo sorriso). Per l'immanenza di un tempo che spariglia i destini.
Per la gradinata di uno stadio che, improvvisamente magico, si pone ai
confini del reale, unico luogo adibito a nuovi sguardi. E nuovi
abbracci.
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