I padroni del pallone
Da Galliani a Cragnotti, tredici ritratti sulla crisi del calcio
I proprietari all'antica, i manager e i burattinai del mondo del pallone. In un libro di Maurizio Crosetti, i veri protagonisti della mutazione genetica che ha rivoluzionato il football italiano. Trasformando le partite in pellicole da 90 minuti
A Maurizio Crosetti i padroni del pallone non piacciono. E visto che li
ha disposti in campo a mo' di squadra, panchina compresa, siamo certi
che lui per questa squadra non farebbe mai il tifo. Difficile dargli
torto. Come in ogni squadra però non tutti i giocatori sono uguali, per
qualcuno il giudizio è impietoso, per altri invece c'è una qualche
comprensione. Con un criterio di fondo, ci pare, per separare questi
ultimi (Moratti, Sensi e persino Cecchi Gori) dai primi (Cragnotti e
Moggi su tutti, poi Galliani): da una parte chi nel calcio mette i
propri soldi, i padroni all'antica, dall'altra i manager, ovvero quanti
in questi anni hanno lavorato per trasformare il calcio in un'azienda da
cui trarre profitti. I padroni del pallone. Da
Galliani a Cragnotti, tredici ritratti sulla crisi del calcio,
(Baldini&Castoldi, 2002) è un libro che si legge con
piacere. Forse anche con troppo piacere. Perché alimenta senza remore
quel senso di insofferenza, di disgusto quasi, già così diffuso, nei
confronti di coloro che comandano nel mondo del pallone. Una pagina dopo
l'altra, un personaggio dopo l'altro, il re viene messo a nudo. Carraro
è il «signor poltrona», per cui «esistenza e presidenza coincidono».
Galliani viene ridotto a «l'antennista» in «simbiosi programmatica»
con Berlusconi. Cragnotti, poi, è solo un reduce di Tangentopoli alle
prese, tra un successo e l'altro, con debiti o «ipotesi di bancarotta
fraudolenta», con accuse di «irregolarità contabili», fino al
capitombolo finale. Luciano Moggi infine è liquidato con una frase che
gli dedicò Gianni Agnelli: «a chi gli fece notare i trascorsi non
proprio cristallini di Lucianone e le di lui amicizie, l'Avvocato
rispose: lo stalliere del re deve conoscere anche i ladri di cavalli».
Passando dall'«affarismo dei manager» ai padroni vecchio stile,
Crosetti al veleno accoppia una malcelata simpatia. Sensi, «discendente
di pastori ricchi», diventa «poliedrico, lacrima facile, dietologo,
vulcanico, iperemotivo, un po' grezzo ma "de core": la patacca
dei Rolex la riconvertì in denaro per gli orfani della Sierra Leone».
Moratti, il Willy Coyote del nostro calcio, è «troppo umano,
imperfetto, dignitoso. Troppo signore. Troppo predestinato alla tragedia
(...) troppo politicamente corretto». Persino il buon Vittorio Cecchi
Gori, che papà Marione chiamava «il mi' bischero», è soltanto uno «meno
fasullo di tanti altri».
L'affresco perde un po' di brillantezza e nitore quando vengono presi in
esame i curricula di Giraudo e Geronzi: del primo, si dice che «è
diventato il vero padrone sempre meno occulto del calcio italiano»,
mentre il secondo viene presentato come «l'uomo che segretamente - e
neppure più tanto - governa molti destini» del football nostrano. Ecco
dunque i grandi burattinai del nostro calcio: il primo, con la Juventus,
colleziona trionfi sportivi e bilanci in attivo, mentre il secondo, con
le sue banche, tesse le trame nelle quali incastonare i successi delle
squadre capitoline. Burattinai però in conflitto tra loro, almeno fino
allo scudetto giallorosso. Dopodiché, la Juventus rompe il fronte
avversario, sposta la Lazio (e il Parma) dalla sua parte e isola la
squadra di Sensi. Il cavallo di Troia per realizzare questo processo? La
Gea World, naturalmente, la «società dei figli di papà» nella quale
appunto lavorano (o lavoravano) i rampolli di Moggi, Cragnotti, Tanzi e
Geronzi.
L'impressione è che nella ricostruzione di queste «dietrologie
calcistiche» il discorso si faccia piuttosto confuso. «Noi ci
limitiamo a elencare i fatti», precisa l'autore. I fatti però
andrebbero elencati almeno con precisione. E allora, prima di parlare di
giostra complessa messa in moto da Geronzi «perché Gaucci riuscisse a
cedere il giapponese Nakata alla Roma, che aveva già Totti e Cassano e
che forse avrebbe potuto fare a meno del fantasista con i capelli color
arancio», basterebbe verificare qualche data per accorgersi che Cassano
arriva alla Roma solo dopo che il nipponico lascia i giallorossi per il
Parma. E poi, il «giorno del diluvio universale» in cui «il Perugia
(di Gaucci, debitore verso Geronzi dell'affare Nakata) sconfisse i
bianconeri», la Lazio all'Olimpico non superava, come scrive l'autore,
«un arrendevolissimo Parma» (anch'esso in orbita Geronzi per via della
Centrale del latte di Roma), ma una Reggina ormai felicemente in salvo.
Crosetti non si limita a ipotizzare per la Gea un «abuso di posizione
dominante» - ipotesi che merita certo considerazione, ma che tuttavia,
tra tanto vocìo, meriterebbe qualche argomentazione certa o quanto meno
falsificabile - ma si spinge a «denunciare un controllo quasi globale
del campionato, come se la rete delle alleanze non gestisse soltanto (e
non è poco) il percorso delle carriere di atleti e tecnici, ma anche
una sorta di spartizione degli scudetti». La Gea dunque come una P2 del
pallone, capace di erodere dal di dentro ogni meccanismo di tutela e di
garanzia del mondo del calcio. Possibile? Certo, perché no? Però anche
qui, più che i turbamenti di Franco Sensi («nell'ultimo anno»: ma
perché non in quelli precedenti?), sarebbero utili riferimenti a fatti
e contesti specifici.
A leggerne i bilanci, lo scrive Crosetti, il calcio è «la quinta
industria italiana». Perché allora definire «inquietante» questa «definizione
di calcio moderno» di Galliani: «Le squadre sono aziende. La cosa più
vicina al calcio è una major che produce film. La partita è una
pellicola che dura novanta minuti. Lo stadio è la sala cinematografica.
Lo sfruttamento tivù è pressoché analogo a quello di un film. Attorno
al film vanno poi create attività collaterali: i miei modelli di
sviluppo sono la Warner e la Walt Disney. In quel senso io sviluppo il
Milan. Quando acquistammo la società nell'86, la biglietteria
rappresentava il 90% del fatturato. Oggi il mix è 60% diritti tivù,
25% sponsorizzazioni e attività commerciali, 15% biglietteria. L'85% va
conquistato come in una qualunque altra azienda». In Italia il «neocalcio»
non è molto amato. Ma non è chiarissimo il perché. Il movimento
ultras (da Progetto ultrà ai vari Irriducibili) sta lavorando,
coerentemente con una visione del calcio che privilegia il senso di
appartenenza e di comunità, per proporsi come grande forza antagonista
a questa sorta di mutazione genetica del mondo del pallone. Poiché è
improbabile che Crosetti possa in qualche modo riconoscersi nelle idee
(non diciamo nei metodi) del movimento ultras, sarebbe interessante
capire bene i motivi che lo spingono a sensazioni tanto inquietanti. Si
dovrebbe ragionare ad esempio sul perché il neocalcio in Inghilterra
favorisce la rifioritura del pallone («stadi pieni, soldi, giovani e
show "Questo è football, passione vera"», titolava martedì
11 marzo la Repubblica una corrispondenza da Londra di Corrado
Sannucci), mentre in Italia non si va al di là della denuncia delle
nefandezze e delle scempiaggini dei tanti padroni, piccoli o grandi che
siano. Certo, continuare su questa contrapposizione tra calcio di oggi
(il neocalcio), raffigurato come un mucchio di letame del quale si
analizzano con precisione entomologica le degenerazioni, e il calcio del
passato nel quale, con retorica minimalista, si salta poeticamente di
fiore in fiore, non porta gran che lontano. I padroni del pallone di
ieri erano così migliori di quelli di oggi? Fiori e letame, si sa, sono
destinati a coesistere. Da sempre e non solo nel calcio.
Un'ultima considerazione, per amor di storia. Nel disegnare la
formazione dei padroni del calcio, Crosetti attribuisce ai presidenti
delle squadre romane il ruolo di terzini di fascia, collocando «Cragnotti
a destra, anche nel rispetto della vocazione storica della Lazio». La
Società Podistica Lazio, è bene ricordarlo, nasce sulle rive del
Tevere nel 1900, su iniziativa di un gruppo di ragazzi di vent'anni
amanti dello sport. È un'altra la società nata nel 1927, sempre nella
Capitale, su iniziativa esplicita del Partito Nazionale Fascista, in
ossequio alla volontà del Regime di perpetrare nello sport le gesta di
Roma imperiale. Altri colori, altra storia. La Lazio - la più grande
Polisportiva d'Europa - ha un'altra anima. Indipendentemente dalle
ambizioni di speculatori e finanzieri, dall'orientamento politico di
parte dei suoi ultras e dai luoghi comuni ripetuti, ad libitum, da un
giornalismo sportivo forse troppo superficiale.
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